Recensione Poncho

Il robottino di Delve Interactive e Rising Star Games debutta su PC e PS4 con un platform in pixel art che sfrutta la parallasse per modellare un gameplay personale, ma un po’ troppo farraginoso.

Recensione Poncho
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  • A una prima occhiata sarebbe lecito aspettarsi da PONCHO un'esperienza molto simile a quella di FEZ, inossidabile caposaldo della tradizione videoludica indipendente. Gli indizi, d'altro canto, ci sono tutti, da un protagonista ben riconoscibile grazie al suo vistoso capo d'abbigliamento al titolo del progetto -il suddetto accessorio- scolpito in un caps lock inusitato, da una grafica attraverso cui echeggia decisa l'epoca dei 16 bit a un in-game che fa del continuo manipolare lo spazio inquadrato la propria cifra distintiva. Basta però impugnare il pad per prendere subito coscienza del sostanziale errore di valutazione. Il gioco di Delve Interactive e Rising Star Games sa difatti distinguersi quantomeno in termini di concept, laddove alla rotazione del setting lungo l'asse delle ascisse, meccanica principe dell'opera di Phil Fish, va qui a sostituirsi un platforming in parallasse che sfrutta le profondità scenografiche nel tentativo di valorizzare un puzzle solving davvero particolare. Gli intenti, insomma, parrebbero lodevoli. Eppure, a campagna avviata, qualcosa inizia a stridere.

    To-and-fro

    Quando il piccolo Poncho si sveglia da un letargo involontario, il mondo che noi tutti siamo abituati a conoscere ha ormai da tempo cessato di esistere. Di esseri umani non vi è più traccia, e ogni angolo del globo terracqueo è ora abitato soltanto dalle macchine, forme sintetiche che vagano senza scopo apparente tra paesaggi di cui Madre Natura si è ormai totalmente riappropriata. Infine, una voce si fa largo tra i circuiti del buffo cubetto di latta protagonista di questa storia. Appartiene al suo creatore, unico uomo sopravvissuto alla catastrofe, che infine lo supplica di raggiungerlo quanto prima in cima a un'imponente torre di colore rosso. Il robottino è speciale, afferma l'inventore, e dunque c'è bisogno di un suo intervento. Per quale motivo? E perché il pianeta è andato incontro a una sorte così tremenda? Soprattutto: chi è Poncho? Le risposte -per la verità abbastanza intuibili- a questi interrogativi giungeranno una volta completati i nove stage che compongono questa breve avventura. Obiettivo di ciascuno di essi è quello di raggiungere un portale utile a teletrasportare il personaggio verso lo stage successivo, raccogliendo nel mentre una serie di chiavi e piccoli cristalli rossi sparsi lungo l'ambientazione. Le prime sono fondamentali per accedere a zone dello scenario altrimenti sbarrate da particolari cancelli colorati. A seconda del colore della barriera sarà necessario impiegare una chiave della medesima tinta, il che si rivelerà spesse volte problematico, poiché non è affatto detto che chiavi e barricate siano presenti in egual numero e colorazione all'interno dello stesso livello. Ciò comporterà un po' di backtracking tra gli ambienti visitati in precedenza o, più verosimilmente, il giocatore sceglierà di recarsi dai pochi vendor che intercetterà sul suo cammino. Se avrà raccolto un numero sufficiente di cristalli purpurei potrà infatti barattarli con le chiavi possedute dal venditore robotico di turno, pratica che snellisce certamente una ricerca un po' troppo fine a se stessa e, peraltro, non sempre fruttuosa. Oltre a questo, Poncho verrà presto incaricato dal Re della Discarica di raggruppare i suoi sudditi, vecchi androidi inattivi che, se ripristinati in buona quantità, permetteranno al piccolo eroe in abiti sudamericani di usufruire di taluni benefici -altre chiavi, perlopiù. Tutto è in linea con i canoni di molti platformer della vecchia scuola, fino a qui. I meccanismi che muovono PONCHO sono in sostanza quelli della tradizione collectathon, per cui il gioco prevede anzitutto un ripetuto racimolare oggetti di vario tipo al fine di sbloccare gli scenari ancora inesplorati. La particolarità, accennavamo in apertura, risiede invece nell'interpretazione del sidescrolling, per cui al protagonista, per avanzare, non basta spostarsi e saltellare orizzontalmente, ma deve altresì fare i conti con le regole della profondità di campo. Con una meccanica che richiama alla mente LittleBigPlanet, l'utente deve destreggiarsi nello spazio rappresentato lungo tre diversi piani paralleli, proiettando il personaggio da una superficie a quella immediatamente davanti o didietro con la semplice pressione di un tasto. Ogni piano, ovviamente, ospita strutture a se stanti, tra le quali spiccano piattaforme in grado di muoversi non solo lateralmente, ma addirittura da un piano all'altro in modo automatico o secondo criteri specifici. Progredire equivale dunque a saper sfruttare i vuoti tra le costruzioni anti e retrostanti per superare ogni intralcio, quasi come se ciascuno stage fosse un enorme rompicapo in 2.5D da risolvere con colpo d'occhio e buoni riflessi.

    Errori di prospettiva

    L'idea alla base di PONCHO è insomma singolare, e avrebbe di certo meritato una realizzazione più attenta di quanto, controller o tastiera alla mano, sia stato compiuto da Delve Interactive. Il problema più evidente del lavoro del piccolo development team inglese concerne -paradossalmente- proprio il level design, elemento di grande spessore all'interno di un'esperienza che fa del "ragionamento stratificato" la propria bandiera. Quando Poncho si sposta da uno strato della scenografia all'altro la camera virtuale si sposta con lui, inquadrandolo, di fatto, sempre in campo medio rispetto alla scena. Questo fa sì che tutte le architetture poste sul piano a lui dirimpetto vengano visualizzate in semi-trasparenza, il che può creare confusione quando si tratta, per esempio, di eseguire un salto molto preciso tra piattaforme, magari, nel contempo, cambiando all'improvviso livello di profondità per oltrepassare un ostacolo.

    Allo stesso modo, non è sempre immediato intuire quali delle costruzioni sullo sfondo siano effettivamente transitabili, per cui il mancato passaggio da un piano all'altro non compromette la performance quando l'avanzamento non prevede salti concatenati -in tal caso, semplicemente, il comando dato non va a buon fine-, ma diventa inevitabilmente un grattacapo quando l'azione tende a farsi un po' più concitata. Tutto ciò si traduce in un trial & error talvolta molesto, da una parte reso meno temibile dall'impossibilità d'incappare nel game over -la barra della vita, in PONCHO, non esiste-, dall'altra accentuato da un sistema di check point che genera il personaggio ai bordi dell'ultima piattaforma occupata. Inutile dire che esser costretti a compiere per l'ennesima volta una scalata verticale dopo esser caduti a causa di un design poco chiaro e aver toccato una superficie più bassa è un imprevisto in grado di creare attimi di frustrazione altrimenti evitabili con qualche accortezza in più. Purtroppo, e in modo francamente inaspettato, il gioco pecca anche dal punto di vista tecnico. Testato nella sua attuale incarnazione per PC -è già disponibile anche per PS4, e prossimamente lo sarà su Vita e Wii U-, il titolo è ad oggi ammorbato da bug di peso e natura diversi, dei quali il più fastidioso riguarda sicuramente il respawn di Poncho allorché piombi nel vuoto in determinate zone sopraelevate.

    Ci è capitato più volte che il nostro avatar cibernetico ricomparisse forzatamente in punti fin troppo a ridosso del vuoto, costringendoci, di fatto, a riavviare lo stage da principio. Un frame rate qua e là traballante non fa altro che porre l'accento su una programmazione evidentemente frettolosa, che ancor di più affossa un prodotto che poteva avere in effetti qualcosa da dire, ma è obbligato al silenzio in un panorama dove altri progetti di simile foggia sanno farsi valere con molto più vigore.

    Poncho PonchoVersione Analizzata PCPONCHO tenta la strada del gioco di piattaforme atipico, sezionando ogni ambientazione in tre piani spalmati in profondità e sfruttando tale tripartizione per restituire all’utente stage che paiono enormi puzzle ambientali da risolvere passo dopo passo. Ma un buon proposito, da solo, non può affatto essere sufficiente, e la produzione Rising Star rimane tristemente impigliata in una messa in pratica a dir poco sommaria, che inciampa esattamente dove un’esperienza del genere non dovrebbe, vale a dire in un design dei livelli perlopiù dissennato e in un polishing distratto. Al giocatore rimane infine soltanto il pretesto di rimirare una pixel art piacevole e coloratissima, che tuttavia non basta a giustificare i quindici euro richiesti per provare un prodotto che sa incredibilmente di occasione mancata.

    5.2

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