The Suffering Ties that Bind recensito su PS2

Un delirante viaggio nella psiche di un uomo...

The Suffering Ties that Bind recensito su PS2
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  • PS2
  • Xbox
  • Pc
  • Chiunque combatta dei mostri deve stare attento affinché egli stesso non diventi un mostro, e tutte le volte che guarda nell'abisso deve sapere che anche l'abisso guarda verso di lui” (F.W.Nietsche)

    Raccontare la sofferenza non è mai una cosa semplice, specialmente per uno strumento d’intrattenimento come il videogioco, che solo da pochi anni ha saputo maturare una certa consapevolezza espressiva e comunicativa.
    Troppo facile è cadere nelle banalità e negli stereotipi di opere che usano il sangue e la violenza come gingillo grottesco per masse bramose di forti emozioni.
    Ma per fortuna ci sono sviluppatori che hanno saputo evitare la retorica efferatezza di certo orrore, avviluppando le loro creazioni in visionarie rappresentazioni del male esistenziale, dove lo strazio della carne partecipa dell’ineffabile dolore della mente, come un intenso ed affascinante dipinto che nella cruenza del sangue ritrae spietato gli agghiaccianti colori della follia.
    Un delirante viaggio nella psiche di un uomo e nella decadente anima della sua città.
    Questo rappresenta il suddetto gioco, secondo capitolo di una storia di psicosi videoludica cominciata nel 2004, con un’opera che, nella complessità di un orrore insieme fisico e psicologico, descriveva la risalita dall’inferno in cui era misteriosamente piombato il criminale Torque, reo di aver ucciso la propria moglie e i suoi due figli, e per questo imprigionato nel carcere di massima sicurezza di Eastern nell’isola di Carnate, dove avrebbe dovuto scontare la pena di morte. Il vero dramma di Torque è che non ricordava assolutamente niente del sanguinoso accaduto, e dopo una serie di strani avvenimenti che sconvolsero il penitenziario di Eastern, con la comparsa di assurdi mostri umanoidi, che la sua già difficile vita prese una piega ancora più problematica ed inquietante.
    Il “male” aveva stabilito il suo ineluttabile dominio nell’isola di Carnate, un “male” terribile e misterioso la cui natura suggeriva un origine soprannaturale, ma dalle radici profondamente umane.
    Il profondo dolore di una realtà carceraria, così intrisa di odio e disagio mentale come quella di Eastern, si era infatti “materializzato” nelle bizzarre forme di inconcepibili abomini di carne, crudeli mostruosità figlie d’un malessere sociale e psicologico radicalmente umano.

    Divenuta ben presto teatro di una terrificante carneficina, l’isola di Carnate avrebbe dunque costretto Torque non solo a “sopravvivere ad un orrore” apparentemente inspiegabile ed insensato, dal quale sarebbe infine riuscito a sfuggire, ma soprattutto a “vivere un orrore” più intimo e personale, allucinante manifestazione di una profonda psicosi maniacale ed omicida che sembrava perseguitarlo nei momenti più bui dell’esistenza.
    Quel mostro spaventoso nel quale occasionalmente si trasformava, sintomo di una sofferenza psichica sempre più insostenibile, sembrava forse la chiave più adatta a svelare il mistero che si celava dietro tutto quell’orrore, quel devastante “male” di cui non riusciva a capacitarsi ma nel quale si sentiva, in qualche modo, coinvolto.
    Sono trascorsi esattamente cinque anni, cinque maledettissimi anni da quella disperata fuga dall’inferno di Eastern, un tempo lunghissimo che non ha saputo colmare la sete per una verità sconvolgente, non ancora pienamente compresa.
    Una verità forse scomoda, che vede ancora coinvolta l’inquietante figura di Blackmore, boss della malavita di Baltimora, le cui oscure vicende si erano già in passato più volte incrociate con l’infausto destino di Torque, e che adesso vede il nostro protagonista alla sua estenuante ricerca, per riscoprire, ancora una volta, la verità su quel “male” che ha brutalmente investito lui, la sua famiglia, nonché l’amata città natia di Baltimora.
    Il ritorno a quella stessa città che ha visto crescere lui, la sua compagna ed i suoi figli, gli richiama alla memoria sofferenze dimenticate, fantasmi sopiti, atroci ricordi, che gli suggeriscono l’avvento di un nuovo drammatico inferno, che non si nasconde più fra le sbarre di uno squallido penitenziario, ma che rivive beffardo nel caos e nel degrado di una realtà che non perdona le colpe dell’uomo.
    Un inferno di visioni apocalittiche ed allucinazioni perverse, che sembra consumare continuamente la già fragile psiche del protagonista, ma anche la nostra, sconvolta dinanzi a tanto orrore così follemente vero e reale, così morbosamente umano. Le strade sporche e disastrate di una Baltimora quanto mai credibile, offrono lo scenario per una cruda ed angosciante rappresentazione di un inferno terreno, metafisicamente concretizzato, che scaturisce vivo dalle inconsce nefandezze di una società che respira ansimante il consumato benessere dell’ipocrisia moderna.
    Un inferno nel quale adesso Torque dovrà lentamente e dolorosamente discendere, e noi con lui, verso l’abisso più profondo della coscienza e della disperazione, aiutati da una meccanica di gioco che non offre particolari distrazioni avventurose o deliranti seghe enigmistiche, ma che si esprime esclusivamente con un concentrato devastante di purissima azione, irrazionale ludogodimento di incontrollata distruzione.
    Annichilire tutto quello che respira: questo sarà il nostro unico obiettivo e la nostra vera missione.
    Un vortice infinito di combattimenti che, per fortuna, affronteremo adeguatamente preparati, con la possibilità di reperire in giro una notevole vastità di strumenti di morte, fra armi da lancio (bombe a mano, stordenti, infiammanti), armi bianche (coltelli, spranghe, mazze, asce), e soprattutto armi da fuoco (pistole, fucili, mitra, lanciarazzi, doppiette, lanciagranate e molto altro!). Purtroppo potremo portarci appresso soltanto due armi (escluse le armi da lancio, trasportabili senza problemi di spazio), anche se in giro, fra le strade di Baltimora, non mancherà mai l’occasione di trovarne tante altre, oltre alla nuova facoltà di impugnarne contemporaneamente due uguali.
    Complice un ottimo sistema di controllo, flessibile e personalizzabile, avremo pure la possibilità di intercambiare due diverse impostazioni visuali, una in soggettiva ed una in terza persona, scelta questa non semplicemente estetica ma assolutamente funzionale alle esigenze del giocatore, che magari potrà sfruttare liberamente l’impostazione soggettiva per gli scontri (più adatta, nonché assimilabile al feeling dei First Person Shooter tipo Doom), mentre potrà optare per l’impostazione oggettiva in terza persona durante le fasi di esplorazione degli scenari.
    Qualche piccolo enigma sparso qua e là non aiuta purtroppo a diversificare più di tanto un’esperienza ludica sicuramente appassionante, ma abbastanza lineare e non particolarmente varia, laddove la generale difficoltà del gioco, sebbene decisamente elevata, appare spesso mal bilanciata e caratterizzata da nemici con un’intelligenza artificiale limitata, ma quanto meno confortata dalla numerosità degli stessi. La presenza di tre livelli di difficoltà (facile, normale e difficile) aiuta a gestire la situazione, ma vi assicuro che già a livello normale la vostra vita si complicherà non poco!
    Gli scenari, abbastanza interagibili, offrono l’interessante possibilità di colpire alcuni oggetti, come bombole di gas, contenitori infiammabili od automobili, che esplodendo possono uccidere i nemici sparsi nelle vicinanze (ma anche il nostro personaggio), unica velleità tattica, questa, concessa nei frenetici e convulsi scontri che sottolineano un’avventura dai toni marcatamente arcade.

    Come nel precedente capitolo (di cui questo gioco riprende pedissequamente le meccaniche ludiche, con poche piccole aggiunte) Torque potrà liberare il proprio “demone” interiore, ovviamente previo riempimento (a suon di legnate inferte) della solita barra, permettendo di trasformarci temporaneamente in un mostro spaventoso e potentissimo, ma dalle limitate abilità. L’aspetto e le abilità speciali di questo mostro cambieranno, a sua volta, secondo il nostro comportamento “morale” durante il gioco, indirizzandoci verso una linea malvagia, neutrale oppure buona.
    Durante le nostre tribolate peregrinazioni incontreremo, infatti, numerosi individui (ma anche animali) assolutamente non offensivi, che potremo liberamente aiutare in caso di pericolo (per esempio sterminando i nemici vicini), oppure uccidere nella maniera che più ci aggrada, e questo comporterà l’aumento (o il decremento) di una precipua barra della “moralità”, divisa in più tacche, che secondo l’inclinazione scelta (e le tacche raggiunte) ci consentirà di assumere sembianze ed abilità sempre diverse. Non solo, anche la stessa trama assumerà sfumature sensibilmente differenti al variare del nostro atteggiamento etico, determinando alla conclusione del gioco un’adeguata molteplicità di finali.
    Il più grande difetto di The Suffering: TTB rimane comunque l’incontrollabile sensazione di “caos” che si respira, a volte, durante i combattimenti, una sensazione che risulta senz’altro utile a farci perdere il “controllo” di una situazione che un arsenale portentoso avrebbe garantito (dopotutto è proprio questa l’idea di “sopravvivenza” insita nel genere), ma che alla fine potrebbe risultare un tantino fastidiosa e seccante, portandoci alla morte fin troppe volte.
    Uno scrolling di per sé incerto e tendente al facile rallentamento complica il tutto, macchiando in un certo senso, un’esperienza di gioco che, pur nella sua semplicità e linearità, riesce comunque ad essere molto coinvolgente, affascinante, e moderatamente longeva.
    Il resto della grafica non si discosta molto dal primo episodio, offrendo delle scenografie abbastanza varie e complesse, ricche di dettagli e condite da texture altalenanti, ma comunque più che buone per cromatismi e resa atmosferica, il tutto impreziosito da un’ottima gestione dell’illuminazione.
    Uno splendido monster design, per opera di Stan Winston (La Cosa, Predator), che per ispirazione ricorda molto le creature infernali di Hellraiser, fa da contraltare ad un character design sicuramente ottimo per il protagonista, ma piuttosto modesto per gli altri personaggi, che peraltro assieme ai mostri non godono di animazioni particolarmente fluide e brillanti.
    Ma bisogna pure ammettere che la generale atmosfera, suggerita da tutta l’impalcatura estetica, è assolutamente sublime nella sua cruda rappresentazione del decadimento umano e dell’orrore psico-fisico, che Torque e la città di Baltimora vivono e manifestano. Una regia veramente straordinaria suggerisce sempre le giuste inquadrature (anche se avremo comunque la libertà di orientare a nostro piacimento la visuale) e inframmezza l’esperienza ludica con continue visioni, allucinazioni, e flash spaventosi che gridano follia e disperazione.
    Un inferno di sangue e di corpi dilaniati riempie il nostro schermo con preoccupante intensità, mentre splendidi effetti grafici (come il motion blur e filtri vari) accompagnano le nostre trasformazioni così come le nostre frequenti allucinazioni visive, in un delirio di morte, pazzia e desolazione che non ricade mai nel banale gore, ma che anzi scava nelle viscere d’una concezione artistica ed espressiva matura ed intelligente.
    E poi le voci, i lamenti, le urla...tutta la nostra avventura è immersa nel continuo susseguirsi di voci incontrollate (in un doppiaggio italiano molto buono), che in parte originano dalla mente psicotica di Torque ed in parte provengono dallo strazio di persone sconvolte dalla paura, che chiedono aiuto, che lamentano indicibili sofferenze, mentre le urla disumane di mostri simbolicamente umani ci ossessionano con un’efficacia raramente sentita in un videogioco.
    Una colonna sonora ambientale-rumorista sottolinea con una certa atmosfera i passaggi più drammatici, ma lascia gran parte dell’esperienza di gioco in balia degli eccellenti effetti sonori e di quel “commento vocale” che, insieme all’estetica perversa e schizoide del titolo, nonché alla bellissima ed intricata trama, rappresenta sicuramente lo strumento più utile alla “difficile” comprensione di un’opera che, nonostante la linearità ed il caos imperante, si “vive” con grande passione ed intenso trasporto.

    Approfondimento #1: Delirio di sangue, tormento dell’anima

    The Suffering: Ties That Bind rappresenta il perfetto crocevia delle due principali interpretazioni ludiche dell’orrore umano. Il suo approccio così meticolosamente fisico e “carnale”, esageratamente cruento ed esplicitamente violento, lascia comunque abbastanza spazio anche a parentesi psicologiche profondamente simboliche e suggestive, nei cui lineamenti si nasconde un’anima orrorifica molto meno banale di quello che si può inizialmente pensare.
    Una storia sconvolgente e disorientante, capace di trattare tematiche “forti” e difficili come l’omicidio, la droga, l’abuso e la violenza urbana, racconta la follia di un uomo e della sua società servendosi di un linguaggio espressivo apparentemente esplicito, ma dalle marcate connotazioni metaforiche.
    Così per esempio i vari mostri, per quanto orridi e cattivi nelle intenzioni, non sono altro che “incarnazioni” allegoriche di soggetti criminali o disagiati, ed appaiono sempre legati al contesto scenico nel quale si trovano e si muovono.
    In una particolare situazione ci troveremo ad accompagnare un tossicodipendente che, in piena crisi di astinenza, ci chiederà di scortarlo presso la dimora dove lui ed altri tossici disadattati si drogano e vivono, nella speranza di recuperare qualche dose.
    Questo losco individuo, peraltro, ci scambierà inizialmente per suo padre, alimentando in noi un senso di colpa e di responsabilità impressionanti, derivate non solo dall’assurdo crimine commesso, ma anche dal duro trattamento che il nostro protagonista sembra aver riservato al figlio Cory.
    Descrivere tutta la “scena”, assolutamente paranoica ed incredibile, è praticamente impossibile, ma vi basti sapere che ad un certo punto, raggiunta assieme al ragazzo la stanza dove si trova la droga, assisteremo ad uno spettacolo raccapricciante ma significativo: il ragazzo si accascerà per terra ed inizierà a bucarsi, mentre qualche secondo dopo comparirà, da una strana chiazza sul pavimento (presumibilmente soluzione liquida ed iniettabile di eroina), un mostro dalle chiare fattezze umane ma completamente ricoperto di siringhe!
    Il “disagio” e la “sofferenza” di questo particolare contesto emotivo e sociale sembrano così aver generato la loro più intima e segreta “incarnazione”, la spaventosa sublimazione materiale di un devastante male psicologico.
    Non è una questione di luci od ombre, di scorgere l’orrore dietro l’angolo o di trovarselo di fronte, di vedere il sangue rappreso sui muri o di assistere a sbudellamenti vari!
    In The Suffering: Ties That Bind l’orrore si esprime con tutti i mezzi possibili, sfruttando molto bene il coraggio della luce ma anche il terrore del buio, lo spavento improvviso e repentino, ma anche la tensione sottile e strisciante, i fiumi di sangue e le membra che volano dappertutto, ma anche le visioni, le grida, i lamenti, le lacerazioni della mente di Torque, nonché di tutte quelle persone che stanno per morire (o che sono già morte) e che non vediamo, ma di cui percepiamo lo strazio infinito, l’incommensurabile dolore.
    Non è un’opera semplice da capire, l’ultima creazione dei Surreal Software, come non lo era certamente il precedente capitolo. Come Silent Hill (da cui questa serie ne ha tratto una felice ispirazione), The Suffering va “vissuto” in un certo modo, consapevoli d’assistere non ad un normalissimo gioco d’azione in salsa horror, ma ad un’esperienza orrorifica intensa che usa la struttura action soltanto come un possibile, nonché efficace, strumento comunicativo ed emozionale.
    Introdurre divagazioni avventurose ed investigative, oppure rendere la meccanica dei combattimenti meno caotica e più meditata, avrebbe certamente offerto dei tempi morti ad un’esperienza che invece va consumata istintivamente e compulsivamente, nell’impulso irrazionale di una fenomenologia orrorifica incontrollata ma soprattutto incontrollabile, e per questo ancora più terrorizzante.
    Solamente andando “oltre” l’idea preconfezionata di un’analisi tecnicamente fredda, che indaga le falle d’una veste grafica e d’una struttura ludica non particolarmente sofisticate e complesse, ci può consentire di apprezzare la sensibilità artistica di un’opera che fonde bene i suoi elementi costitutivi di videogioco moderno, in un racconto di sangue e dolore nelle cui forme di codice binario non convenzionale si nasconde l’anima della sua più autentica maturità intellettuale.

    The Suffering: Ties that Bind The Suffering: Ties that BindVersione Analizzata PlayStation 2GRAFICA: 7,5 su 10 - Uno scrolling troppo incerto, le animazioni modeste ed alcune texture non proprio brillanti, limitano un impianto estetico che gode comunque di un’ottima cura per i particolari, ricco di grande atmosfera e d’affascinanti suggestioni artistiche. SONORO: 9 su 10 - Uno splendido labirinto di voci, suoni, musiche alienanti, lamenti e grida di disperazione, commentano un’esperienza uditiva gratificante e ludicamente ansiogena. GIOCABILITA’: 8 su 10 - Azione tendenzialmente caotica e svolgimento lineare ritraggono una meccanica di gioco sicuramente semplice e poco pretenziosa, ma nel complesso piuttosto appagante e coinvolgente. LONGEVITA’: 7,5 su 10 - I diversi finali, l’elevata difficoltà e la criptica nonché stupenda trama, potrebbero allungare i tempi di permanenza del gioco nella vostra PS2 ed invogliare a rigiocarlo. GLOBALE: 8 su 10 The Suffering: Ties That Bind è, di fatto, un geniale racconto dell’orrore travestito da buon videogioco d’azione, forse limitato nelle sue possibilità ludiche e minato da incertezze tecniche non indifferenti, ma comunque decisamente appassionante nella sua particolarissima rappresentazione della sofferenza umana, nel suo descrivere così intensamente un’assurda follia che non smette mai di stupire, sorprendere...sconvolgere. Non un gioco destinato a tutti, sicuramente, ma estremamente consigliato a chi da un survival horror pretende qualcosa in più di un action-adventure con un po’ di sangue e qualche minuto di paura.

    8.0

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