We Happy Few, la recensione: l'avventura distopica di Compulsion Games

Dopo tre anni in early access, il survival di Compulsion Games cambia pelle, con risultati tutt'altro che brillanti

We Happy Few, la recensione: l'avventura distopica di Compulsion Games
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  • Pc
  • PS4
  • Xbox One
  • Xbox One X
  • PS4 Pro
  • Dopo più di tre anni passati in Early Access, esce finalmente la versione definitiva di We Happy Few, l'avventura a tinte distopiche di Compulsion Games (uno dei team che di recente è andato a rimpolpare le fila degli studi interni di Microsoft). Il precorso produttivo che ha condotto il gioco sui nostri scaffali digitali è stato accidentato, tutt'altro che lineare ed anzi pieno di brusche virate. L'ultima è arrivata proprio pochi mesi fa, quando si è scoperto che We Happy Few non sarebbe stato quel survival con elementi procedurali che avevamo giocato durante l'acceso anticipato, ma avrebbe assunto la forma di un'avventura con una componente narrativa ben delineata, pronta a strizzare l'occhio ai migliori "immersive sim" (Bioshock in primis).
    Un "cambio di pelle" deciso e inaspettato, eppure necessario per tentare di dare al titolo una personalità ludica più brillante. Purtroppo l'idea che ci siamo fatti è che questa sterzata sia arrivata troppo in ritardo, quando ormai sarebbe stato davvero difficile riportare il progetto in carreggiata. We Happy Few è infatti un titolo con enormi difetti, e problematiche di game design che entrano spesso e volentieri in conflitto con la volontà di raccontare una storia (anzi: di dipingere un mondo) potenzialmente molto interessante. Trascinandosi dietro alcune meccaniche survival che male si integrano con la nuova progressione, e soprattutto presentandosi con problemi tecnici notevoli, We Happy Few rischia di buttare alle ortiche anche i suoi spunti migliori, rappresentati da una scrittura efficace e condensati in un'ambientazione dal fascino esemplare.

    Pochi ma buoni

    We Happy Few si ambienta nella cittadina britannica di Wellington Wells, una trentina di anni dopo la fine della seconda guerra mondiale. Il gioco può essere ascritto di diritto nel filone delle ucronie, al pari del ben più movimentato Wolfenstein: nell'universo narrativo imbastito dai ragazzi di Compulsion Games, infatti, il conflitto è stato vinto dall'esercito tedesco, che è riuscito ad invadere la Gran Bretagna nel 1933. Le cicatrici economiche e sociali di quell'invasione sono ancora ben visibili, ma il racconto di We Happy Few si concentra soprattutto sulle ferite psicologiche della guerra e sulle loro conseguenze. Costretti dai nazisti a compiere un gesto disgustoso e deprecabile come atto di resa incondizionata, i cittadini di Wellington Wells hanno vissuto per anni nel dolore e nel rimorso, finché ad un tratto non hanno scelto di imboccare la strada dell'oblio. Una droga sintetica chiamata "Gioia" ha permesso di nascondere i ricordi troppo dolorosi, trasformandosi ben presto in un'ossessione: perduti nel caleidoscopico girotondo della sostanza allucinogena, i cittadini hanno iniziato a considerarla come il fondamento della società civile. Costretti a sorridere, intrappolati in una smorfia di eterna cortesia, plateali nei gesti e nelle riverenze, i giusti e gioiosi popolani di Wellington Wells hanno dimenticato le proprie colpe, scacciando chi per un motivo o per l'altro era refrattario alla Gioia. Li chiamano "musoni" - downer - e li prendono a manganellate, quelli che si rifiutano di lasciarsi andare all'abbraccio lisergico delle pillole (al gusto di cioccolato, vaniglia o fragola!), in momenti di violenta follia collettiva. Cacciati fuori dalle mura cittadine, questi reietti si trasformano in "straccioni", sospettosi nei confronti di chiunque vesta un elegante "abito ammodo" e costretti a vivacchiare fra le rovine dei bombardamenti.
    We Happy Few, avrete capito, imbastisce un immaginario curioso e interessante, lasciandolo scoprire al giocatore anche grazie ad un attento utilizzo della narrazione implicita e ambientale. Per quanto l'impatto di questo affresco distopico sia in parte sporcato dalle magagne tecniche (e dal riciclo spietato di modelli poligonali), anche stilisticamente il gioco pizzica le corde giuste, impastando alcune suggestioni dell'espressionismo cinematografico dei primi decenni del secolo ai colori ed ai linguaggi (anche architettonici) degli anni '60.Questione di LinguaQuanto sia stata attenta l'operazione di creazione del mondo distopico di We Happy Few lo si capisce anche solo dando un'occhiata al curioso impasto linguistico utilizzato dagli abitanti di Wellington Wells. L'idea di inventare un lessico per caratterizzare un contesto finzionale non è ovviamente nuova nell'ambito della distopia: ad utilizzarla con estremo successo fu Burgess, che per scrivere il suo Arancia Meccanica coniò il Nadsat, uno strano dialetto che mescolava influenze russe, linguaggio giovanile e lessico cockney.
    Nel caso di We Happy Few l'operazione è ovviamente più leggera, ma altrettanto felice. In preda ai deliri della Gioia i cittadini sembrano quasi regrediti ad uno stadio preadolescenziale, utilizzando termini onomatopeici, storpiature e parole semplici ed espressive. Ecco dunque spiegati i "musoni", gli abiti "ammodo" (sic.), gli "sculacciatori" e persino lo stravagante uso di "brello" (al posto di "ombrello", in originale è "brolly").

    Non è solo la cornice a risultare efficace, bensì anche le tre storie che ci troviamo a vivere nella ventina di ore della campagna principale. Nel corso del gioco vestiremo i panni di tre diversi protagonisti, il cui viaggio sarà in qualche maniera intrecciato. Per un motivo o per l'altro i tre si sentono estranei al patinato regime di sensazioni sintetizzate chimicamente, intrappolati nei propri ricordi (o nei propri sensi di colpa?) e ancora capaci di sognare un futuro migliore. Per quanto la struttura delle tre mini-campagne non risulti molto sapida (composta di quest non sempre ispirate e spesso ripetitive), la scrittura riesce sempre a distinguersi. I dialoghi sono ottimi, efficaci e pungenti, mescolando la malinconia della caduta e il dramma interiore ad un pizzico di humor che riesce ad abbassare i toni senza mai risultare fuori luogo. Tutti i personaggi sono ben caratterizzati: tormentati, dolenti, fragili. Il racconto, anche al netto di alcune soluzioni al risparmio, resta insomma la parte migliore del gioco: uno dei pochi pilastri integri di una struttura altrimenti cadente.

    Il disastro dello stealth

    Cacciati fuori dal municipio in cui eravamo addetti alla censura dei testi, ci troviamo fin dalle prime battute di gioco in un ambiente ostile. Esplorando l'area circostante il primo titolo che viene alla mente è il già citato Bioshock: sul momento We Happy Few sembra avere molto in comune con il capolavoro di Ken Levine e, più in generale, con le cosiddette "immersive sim". Rovistando in contenitori di ogni tipo e raccogliendo oggetti sparsi per lo scenario si possono costruire bende, grimaldelli e cataplasmi di ogni tipo, indispensabili per scassinare porte chiuse e tenere sempre sotto controllo il nostro stato di salute. Uno degli elementi che il gioco si porta dietro dalla fase Early Access è infatti un'impalcatura da survival, che richiede di nutrirsi, tenersi idratati e riposati, e prevenire infezioni ed altri tipi di ferite, facendo uso delle risorse raccolte in giro.
    Se nelle versioni preliminari non soccombere alla fame ed alla sete era l'obiettivo principale, adesso queste attenzioni sono molto meno urgenti: non potremo morire per essere rimasti troppo tempo a stomaco vuoto, ma avremo delle penalità che ci renderanno molto più difficile combattere, correre e svolgere tutte le altre funzioni.
    Le due anime della produzione, quella survival e quella più avventurosa, non sembrano ben integrate le une con le altre: è come se "non si parlassero", e ben presto le smanie survivaliste di Compulsion Games vengono dimenticate o quasi, senza aggiungere nulla al valore della produzione o alla tensione generale.
    Andando avanti si scopre che We Happy Few, in ogni caso, non è neppure una immersive sim tradizionale: non basta infatti leggere in giro documenti e reperti per avvicinarsi ai grandi del genere, come Prey o Dishonored. Il titolo assomiglia più ad uno stravagante stealth game: fin dal principio ci viene infatti spiegato come mimetizzarci nelle varie comunità che incontriamo. In mezzo agli "straccioni" dovremo vestire di abiti logori, mentre in mezzo agli abitanti "ammodo" dovremo far finta di essere costantemente pervasi dall'esaltazione chimica della Gioia. Nel caso in cui dovessimo trovare difficoltà ad apparire felici e sorridenti, potremmo anche ingurgitare una pillola, che ci garantirebbe di passare inosservati o quasi. Bisogna però stare attenti a non abusare della Gioia, onde evitare spiacevoli amnesie, e ricordarsi che per qualche minuto dopo che è finito l'effetto si mostreranno i segni - ben riconoscibili - dell'astinenza: in quel caso avremmo praticamente addosso gli occhi di tutti i cittadini.

    Sebbene i passaggi in cui si è forzatamente costretti ad assumere una dose di Gioia sia uno dei più riusciti dell'intera avventura, dal momento che possiamo osservare in prima persona gli effetti dell'alterazione psicotropa, ben presto si capisce che questa meccanica è totalmente secondarie nell'economia di gioco, e che in fondo basta non agitarsi, correre e saltare per superare la maggior parte delle situazioni nei distretti "dabbene".
    Discorso diverso quando dovremo infiltrarci nelle comunità di straccioni, nelle caserme dei poliziotti, in qualche area privata o in qualunque altra zona il gioco si sentirà di spedirci. In questo caso sarà bene procedere in silenzio, nascondersi nella vegetazione attirare le guardie con il lancio di oggetti. Una serie di soluzioni a dirla tutta poco originali, che comunque sarebbero potute bastare a confezionare uno stealth game tutto sommato classico. Il problema vero di We Happy Few è l'Intelligenza Artificiale letteralmente disastrosa, probabilmente una delle più disfunzionali nel contesto del genere. Le scene a cui è possibile assistere sono letteralmente surreali. Intere schiere di avversari che si allertano tutti assieme per motivi inspiegabili, nemici che di colpo smettono di avercela con noi, sentinelle che interrompono la ricerca solo perché ci siamo accucciati nell'erba, pur sotto il loro sguardo vigile. We Happy Few, sul fronte dell'IA, è un concentrato di bug, comportamenti incomprensibili, scene al limite del ridicolo, che sfociano spesso in una serie di morti frustranti e inique.
    Non vanno meglio le cose quando si passa alle mani: il combattimento è legnoso, poco "fisico" ed ancor meno stimolante, capace di far andare su tutte le furie anche il più paziente dei giocatori. La colpa è in parte delle animazioni, rivedibili anche quando si tratta di assaltare alle spalle e stordire gli avversari.
    I problemi di We Happy Few, tuttavia, non finiscono qui. Ad essere traballante è tutta la struttura ludica imbastita dal team di sviluppo: la struttura delle quest è concettualmente molto ripetitiva, e persino quelle secondarie si assomigliano tutte. Alcune di queste missioni opzionali ci vengono assegnate dal gioco secondo un criterio di prossimità: basta avvicinarci ad una zona per sbloccare un incarico secondario: per poi imbattersi, magari diverse ore dopo, nell'NPC che avrebbe dovuto farci la richiesta.

    La morte prematura, inoltre, non ha penalità o quasi: a meno che non si sia impegnati in una missione principale (in quel caso è possibile dover ripetere una specifica sequenza), il risveglio dopo una sonora bastonata potrebbe addirittura giovarci. Nel caso in cui fossimo deceduti a causa di una trappola particolarmente insidiosa, ad esempio, scopriremmo che la nostra morte l'ha di fatto innescata e quindi rimossa dal mondo di gioco, dandoci un vantaggio non da poco. Gli errori grossolani nella gestione del flusso di eventi e missioni si sprecano: We Happy Few assomiglia ad un gioco messo in piedi in fretta e furia, non bilanciato e lanciato senza un'opportuna fase di testing.
    Un altro aspetto discutibile è la volontà di conservare quell'algoritmo di generazione procedurale degli ambienti che avrebbe dovuto generare una mappa diversa ad ogni partita (la modalità "sopravvivenza", in ogni caso, verrà pubblicata più avanti: una scelta strana visto che era l'unica presente nei tre anni di Early Access). Quando si passa da un personaggio all'altro alcune aree della mappa in cui si ambienta l'intera avventura vengono di fatto "ricombinate".

    Nonostante questo intervento sia necessario per cercare di vivacizzare un po' le cose, a livello di coerenza narrativa una scelta del genere non ha nessun senso, visto che le storie dei tre protagonisti si intrecciano e tutti agiscono, idealmente, nello stesso ambiente.
    Si conti infine che in We Happy Few ci sarebbe anche uno skill tree grazie al quale potenziare le doti dei personaggi, ma che l'impatto delle varie abilità sulle situazioni di gioco resta praticamente nullo. Dall'inizio alla fine del gioco ci si trova a fare le stesse cose, tra goffe scazzottate e impacciate infiltrazioni. Solo quando ci troviamo di fronte ad aree più elaborate e interessanti, costruite a mano dal team di sviluppo invece che lasciate al caso della proceduralità, il gioco sembra ingranare. Quando We Happy Few decide di fare davvero l'immersive sim, insomma, ci regala qualche momento interessante. Peccato che questa decisione si stata presa fuori tempo massimo.

    Mai una Gioia

    Neppure dal punto di vista grafico We Happy Few riesce a brillare. Il titolo sfrutta l'Unreal Engine 4 senza riuscire a trarne il meglio, presentandosi con ambienti interni comunque ben costruiti e sufficientemente ricchi di dettagli, ma risultando ben meno ispirato quando si passa agli ambienti esterni, abbastanza generici e derivativi.
    Un uso regolare dell'illuminazione e degli effetti speciali rende le prospettive di Wellington Wells abbastanza triviali, senza quei guizzi artistici che i primi momenti di gioco lasciano intravedere.

    Il problema principale di We Happy Few riguarda in ogni caso il riuso indiscriminato di asset grafici: le cittadine sono popolate da una manciata di personaggi ripetuti fino all'ossessione, e lo stesso si può dire gli elementi architettonici e ambientali.
    Insalvabile il lavoro sulle animazioni, che possiamo definire ingessate nel migliore dei casi, ma che in qualche occasione sono addirittura non pervenute: non c'è ad esempio l'animazione con cui il protagonista si nasconde sotto al letto, e l'azione viene gestita con una poco elegante transizione al nero. E pensare che in uno stealth game nascondersi dovrebbe essere all'ordine del giorno.
    Va fatta menzione, infine, di tutta una gestione delle collisioni a tratti imbarazzante, che sfocia in una serie di compenetrazioni che possiamo definire fantasiose.
    Sul fronte tecnico è invece il doppiaggio originale (ottimamente contrappuntato da una ispiratissima traduzione italiana dei testi) a staccare tutto il resto di diverse lunghezze.

    We Happy Few We Happy FewVersione Analizzata PCNonostante sia rimasto così tanti anni in Early Access, We Happy Few avrebbe avuto bisogno di altro tempo. L'idea che ci siamo fatti è che i ragazzi di Compulsion Games abbiano deciso solo tardivamente di aggiungere una componente narrativa, trasformando in un'avventura tripartita a quello che inizialmente avrebbe dovuto essere un semplice survival. La transizione non è stata indolore, anche perché alcuni elementi "trascinati" dalla vecchia impostazione (come la gestione della fame e della sete e la generazione semi-procedurale delle mappe) mal si amalgamano con la nuova natura del gioco. A "metter fretta" al team, imponendogli di chiudere l'ultimo progetto multipiattaforma, potrebbe essere stata anche l'acquisizione da parte di Microsoft. Sia quel che sia, ad oggi le poche cose che funzionano, in We Happy Few, sono la scrittura e l'ambientazione. Mentre l'efficacia dell'aspetto stilistico viene smussata da un colpo d'occhio con alti e bassi, dialoghi, racconto e contesto distopico sono a loro modo riusciti e affascinanti. Con un altro po' di lavoro ed una direzione meno sfumata, il titolo Compulsion Games avrebbe potuto conquistarsi un posto dignitoso nel genere di appartenenza. Allo stato attuale dei fatti, invece, è una produzione da dimenticare.

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