Rubrica Neon Bible - Vol 9

Come si rapportano i videogame con l'industria delle armi?

Rubrica Neon Bible - Vol 9
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Il prode Francesco Fossetti ha recentemente pubblicato un articolo molto particolare, che analizza la comunicazione e il marketing dell’industria dei videogiochi nel periodo a cavallo tra la commercializzazione della prima e seconda Playstation.
Furono anni in cui Sony scelse di parlare ai propri utenti e ai non giocatori in toni criptici, di frontiera: una scelta che non ha avuto un seguito, con le proposte attuali che spesso ricadono nella mera banalità.
Ci sono però altre strade per promuovere i videogiochi e, addirittura, i videogiochi possono diventare il veicolo per pubblicizzare altri oggetti e brand, esattamente come accade nel mondo del cinema grazie a quel fenomeno che in gergo è chiamato product placement.

Questione di armi

L’ultima strage in ordine di tempo avvenuta a Dicembre negli Stati Uniti ha riacceso le polemiche, in particolare sulla diffusione delle armi da fuoco ma anche su un argomento spinoso spesso dibattuto a più livelli: l’impatto dei videogiochi violenti sulla psiche e sul comportamento dei videogiocatori di tutte le età.
Il vicepresidente americano Joe Biden ha incontrato la scorsa settimane sia i vertici della National Rifle Association, la celebre NRA, sia alcuni degli esponenti di spicco dell’industria dei videogiochi statunitense: dal CEO di Electronic Arts John Riccitello a rappresentanti di tutti i publisher statunitensi più importanti, inclusi anche membri dell’ESA e di catene commerciali quali GameStop.
E' un dato di fatto che non ci sono dimostrazioni scientifiche che legano l’uso di videogiochi violenti agli atti di follia che sempre più spesso si manifestano sul territorio americano. Ma dove si incontrano le armi vere e il mondo dei videogiochi? Un esempio è proprio il product placement.
La campagna di marketing del recente Medal of Honor Warfighter denota ben più di un punto di contatto tra i videogiochi e la vendita di armi da fuoco: il celebre colosso dell’intrattenimento, infatti, ha stretto numerosi accordi per la commercializzazione del prodotto, due dei quali hanno subito dato adito a numerose proteste.
La partnership con Magpul, il cui motto è Unfair Advantage, è solo un esempio: si tratta di una società che produce accessori quali caricatori maggiorati, impugnature gommate e altri gadget di grande successo proprio tra gli appassionati delle armi da fuoco, che vogliono modificare la propria pistola o fucile per renderli davvero personali.

McMillan, invece, è un’azienda specializzata in mirini e munizioni di vario genere e anch’essa ha chiuso un accordo con Electronic Arts per far comparire i propri prodotti all’interno del gioco.
I loghi di entrambe le società comparivano sul sito ufficiale di Medal of Honor, con tanto di link per raggiungere i rispettivi store online; fattore che ha fatto montare le proteste e che ha spinto il reparto marketing al lavoro sul gioco ad aggiustare il tiro, promuovendolo quindi su canali più tradizionali e con in mente il classico target dei videogiocatori, non quello dei possessori di armi.

Dai videogiochi al cinema

In realtà Medal of Honor ha rappresentato un caso interessante nell’ambito del marketing dei videogiochi anche per quanto riguarda l’episodio precedente, quello che a tutti gli effetti viene considerato come il reboot della serie.
In svariate interviste risalenti al 2010, infatti, Sean Decker di Electronic Arts dichiarò che Medal of Honor non sarebbe stato un gioco sulla guerra in genere ma si sarebbe avvicinato a film come The Hurt Locker, pellicola del 2008 diretta da Kathryn Bigelow che ha vinto ben sei Oscar.
La particolarità di The Hurt Locker è che si tratta di un film che parla di guerra senza mostrarla apertamente, utilizzando invece l’argomento per mettere in scena la vita, i sentimenti e i pensieri di militari che si ritrovano a fare un lavoro pericolosissimo, logorante e sempre al limite, con tutti gli strascichi che una vita del genere può avere sulle persone che la conducono.
In quest’ottica, quindi, Medal of Honor sarebbe dovuto essere un gioco ben più emozionale e personale di quanto si è dimostrato. Insomma i bersaglio non è assolutamente stato centrato e il prodotto di EA non si è differenziato particolarmente dal campione di incassi della concorrenza, quel Call of Duty di Activision che, uscita dopo uscita, è spesso stato bollato da più parti come un prodotto di pura propaganda, fattore che però non ne ha frenato il successo commerciale.

La storia si ripete

Se quindi Medal of Honor era stato accostato ad un film di Kathryn Bigelow, senza però alcun accordo tra le parti, Warfighter fa altrettanto, spingendosi anche più in là.
L’ultimo episodio della serie, infatti, ha offerto ai propri utenti un pacchetto di mappe aggiuntive legato a Zero Dark Thirty, nuovo film della regista statunitense, e pubblicato a metà Dicembre, proprio in concomitanza con la distribuzione della pellicola nelle sale americane.
La nuova fatica della Bigelow, in uscita anche in Italia, tratta nuovamente l’argomento guerra, ma in maniera tangenziale, narrando la storia della caccia a Osama bin Laden, iniziata all’indomani degli attacchi al World Trade Center dell’11 Settembre 2001 e terminata formalmente il 2 Maggio del 2011, con l’operazione coordinata dalla CIA che ne ha decretato la morte.
Le mappe sono ambientate in Pakistan, nei luoghi nei quali Laden si è nascosto a lungo prima di venire individuato, e ricostruiscono aree come la città di Chitral e Darra, centri urbani che l’intelligence ha tenuto sotto stretta osservazione a lungo, come narrato anche nel film.
Stupisce quindi l’accostamento di Zero Dark Thirty a Medal of Honor Warfighter, in quanto Kathryn Bigelow non ha mai fatto un film di guerra per sottolinearne la spettacolarità fine a sé stessa. Mentre il gioco, anche in questa nuova uscita, non è stato in grado di portare su schermo una trama capace di trattare l’argomento in maniera adulta e ragionata, calcando quindi la mano su argomentazioni molto meno ricercate, a base di esplosioni e tonnellate di proiettili.
L’unico dettaglio positivo, quindi, è rappresentato dalla decisione da parte di EA di devolvere parte del ricavato ottenuto con la vendita del map pack al Project HONOR, campagna per la sensibilizzazione e la raccolta di fondi per le famiglie dei militari caduti in missione sotto l’esercito, la marina e i corpi speciali.

Neon Bible I videogiochi e le armi da fuoco, volenti o nolenti, continuano a rappresentare un matrimonio riuscito, che ogni anno genera una moltitudine di titoli, facenti parte di alcune delle serie di maggiori successo in assoluto e che da sole rappresentano una buona fetta degli introiti annuali dell’industria. Ora però che la vendita di armi sul territorio americano potrebbe essere messa in dubbio, anche i videogiochi si ritroveranno sul banco degli imputati? Non vogliamo sostenere che ci sia una connessione fra videogiochi e violenza reale. Anzi: crediamo che sia una posizione miope e parziale. Ma se i videogame sono stati accusati più volte, la colpa potrebbe essere della leggerezza con cui spesso trattano l'argomento "guerra", addirittura avviando iniziative di marketing congiunto con aziende che producono armi e accessori per guerrafondai?