Rubrica Play.Again Fallout

Rigiochiamoci: l'origine degli Rpg occidentali

Rubrica Play.Again Fallout
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Play.Again. Un nome sintetico per questa nuova rubrica di Everyeye.it. Che non è, semplicemente, una “rubrica dedicata al retrogaming”. Non solo, almeno.
Quello che cerchiamo di fare in questo spazio è andare oltre i classici “Remember Yesterday” che si leggono ormai da ogni parte. Il taglio di questa rubrica è invece più trasversale e sfaccettato. Da una parte i nostri pezzi inquadreranno i titoli da una prospettiva storica, divertendosi a sorvolare, con taglio personalissimo, il periodo ed il contesto in cui il titolo è uscito. Dall'altra, il nostro sguardo sarà "retrospettivo, per fermarsi a considerare le influenze del prodotto nella produzione che ad esso ha fatto seguito. E infine sarà un colpo d'occhio critico, pronto a ri-analizzare il prodotto nell'ambiente nuovo di una cultura videoludica che oggi risulta allargata quanto mai.
Il tutto per capire come mai ogni tanto un titolo è meritevole di essere giocato ancora. E ancora, e ancora...

Polveri radioattive

Correva l’anno 1997, quando il vocione di Ron Perlman si apprestava a pronunciare per la prima volta quel “War never changes” che sarebbe rimasto indelebilmente stampato nelle menti dei videogiocatori, i quali assistevano all’evoluzione del genere RPG. Mentre lo sguardo sulla ‘ruolata’ videoludica si inclinava di qualche grado, per regalare una suggestiva -almeno per l’epoca- visuale isometrica, e molti degli accaniti sostenitori del tabletop abbandonavano dadi e scartoffie per imbracciare mouse e tastiera, stava per nascere una delle saghe post-apocalittiche più acclamate di sempre.

Da Wasteland a Fallout

In principio c’era Wasteland, un innovativo RPG prodotto da Interplay, che annoverava fra i designers proprio il suo storico fondatore Brian Fargo, responsabile del successo di molte delle pietre miliari videoludiche degli anni ’80 e ’90, fra cui Bard’s Tale, Neuromancer e l’indimenticabile Battle Chess. Dietro una palette cromatica sgargiante e innumerevoli, fastidiosissimi, combattimenti con roditori di ogni tipo (presenti, purtroppo, anche in Fallout), il titolo Interplay dava la possibilità di creare un team da zero, con tanto di stat randomizzate dal classico lancio di dadi virtuali e un numero impressionante di skill. Ma soprattutto metteva il giocatore di fronte a dilemmi morali che avrebbero influenzato l’andamento delle quest.
A circa 9 anni di distanza, Interplay irruppe sul mercato con il primo Fallout, seguito spirituale dell’ormai preistorico Wasteland, che già compariva già nelle classifiche dei migliori RPG di tutti i tempi, pubblicate sulle più diffuse riviste del settore. Fallout si mostrò sin da subito come un prodotto di qualità, grazie all’utilizzo di full motion video -che tanto piacevano ai giocatori del tempo- e un voice casting d’eccezione, che, oltre al già citato Ron Perlman, vedeva coinvolti nomi del calibro di Keith David e Richard Dean Anderson. Ambientato poche decine di anni dopo un quanto mai realistico conflitto mondiale per la corsa alle risorse non rinnovabili, Fallout narrava le vicende di un anonimo abitante di uno dei rifugi anti-atomici (Vault), inviato all’esterno per recuperare un chip indispensabile per il funzionamento dell’impianto di decontaminazione dell’acqua. 150 giorni per completare una main quest incastonata in un vasto open world, che ci avrebbe distratti in più di un’occasione dalla ricerca del chip; così, mentre un ansiogeno post-it, in bella mostra sulla mappa del nostro dispositivo ultratecnologico per la sopravvivenza, ci ricordava i giorni residui per portare a termine la missione principale, infinite distese di deserto, rottami e città fantasma ci spingevano verso l’esplorazione forsennata.
Abbandonata l’idea iniziale di basare la componente ruolistica sul sistema “G.U.R.P.S” (Generic Universal Role Playing System) ideato da Steve Jackson, alla Interplay si decise di creare da zero un sistema che gestisse le caratteristiche del personaggio che il giocatore avrebbe interpretato. Nacque così lo S.P.E.C.I.A.L. (Strenght Perception Endurance Charisma Intellect Agility Luck), che avrebbe aggiunto alle canoniche stat presenti in gran parte degli RPG l’elemento fortuna, ad alterare ogni lancio del dado virtuale in gioco, nonché a favorire la possibilità di successi critici. Oltre alle normali skill (attive e passive) già viste in titoli analoghi, lo SPECIAL prevedeva l’acquisizione, al level-up, dei cosiddetti “perks”, privilegi da scegliere fra una ricca e dettagliata lista; per rendere ogni playthrough unico, vennero introdotti dei tratti specifici da scegliere nella compilazione della scheda virtuale del personaggio, chiamati “traits”, che garantivano incrementi su alcune stats e skills, al costo di altrettanti malus, oppure vantaggi di carattere prettamente scenico, come il celeberrimo Bloody Mess, che rendeva più cruente le svariate scene di morte alle quali avremmo assistito.
Così, oltre i successi stilistici come la Power Armor che capeggiava in copertina, o il cartoonoso Vault Boy, la Nuka-Cola e i suoi preziosi tappi, che divennero icone della saga e frequente oggetto di omaggi nella storia videoludica a venire, il pubblico ebbe modo di apprezzare un sistema ruolistico ben strutturato, nonché una massiccia libertà d’azione: volendo ridurre all’osso il concetto, sarebbe stato possibile semplicemente ammazzare tutti gli NPC del gioco e farsi strada fra i cadaveri fino a raggiungere il tanto agognato Water Chip. Almeno in teoria. Molto ben strutturato apparve anche il sistema di combattimento, rigorosamente a turni, che permetteva l’utilizzo di attacchi semplici o attacchi mirati, destinati ad invalidare determinate parti del corpo del malcapitato, o a colpire le escrescenze più disgustose dell’abominio di turno.

Sai dove posso trovare del Jet?

La fine degli anni ‘90 vide un boom dell’utilizzo di contenuti maturi nei videogiochi, con una forte spinta verso l’eccesso (come dimenticare Portal e Carmageddon), ovviamente anche il nuovo nato in casa Interplay non fu da meno. Oltre al disinvolto utilizzo di scene violente e sanguinose -che, a conti fatti, non avrebbe infranto alcun tabù-, Fallout annoverava anche sesso e droga nella lista delle ‘trasgressioni’. Se il sesso era relegato ad un paio di verdognole linee di testo, l’uso degli stupefacenti era parte integrante del gameplay. Il gioco lasciava la libertà di imbottire il malcapitato alter ego delle più disparate sostanze raccattate qua e là in un mondo devastato, neanche fosse l’ultimo residuo radioattivo della beat generation. Le conseguenze del gesto si sarebbero manifestate in un immediato incremento (temporaneo) delle stat, mentre l’abuso avrebbe fatto si che il personaggio si trascinasse in preda a malori di ogni tipo fino all’assunzione della dose successiva. Unica via d’uscita dalla devastante spirale, la sopportazione di tutti i malus dovuti all’astinenza per un lungo, faticosissimo, periodo di disintossicazione.

Always Nuka Cola!

Certo, non si trattava di un titolo perfetto, colpa di alcune imprecisioni nell’IA degli alleati e di un sistema di gestione dell’inventario fin troppo macchinoso, ma la perfetta commistione fra il post-apocalittico, lo sci-fi puro, e l’inconfondibile stile dei pulp magazine anni ’50, insieme alla maturità dei contenuti, conquistarono il pubblico e la critica, il cui entusiasmo fu premiato, l’anno successivo, con l’inevitabile seguito della saga.
Nei panni di un discendente dell’eroe del primo Fallout, avremmo indossato la mitica tuta blu e gialla, ormai promossa a reliquia, per tornare nella devastazione del mondo esterno al vault, alla ricerca del G.E.C.K. (Garden of Eden Creation Kit). Il suddetto aggeggio, dovutamente pubblicizzato attraverso i tipici spot dal carattere tutto vintage, altro non era che una piccola valigetta contenente tutto il necessario per creare un insediamento stabile fuori dal vault: semi, fertilizzanti, e, ovviamente, un comodo reattore nucleare portatile a fusione fredda. I già numerosi fan dell’RPG post-apocalittico si ritrovarono fra le mani, invece di una patch che risolvesse i problemi legati all’IA e le altre piccole imperfezioni, un titolo tutto nuovo, che oltre a risolvere i succitati problemi, arricchiva la saga con un mondo più vasto, nuove quest, e un engine perfezionato. Nonostante la carenza di modifiche sostanziali nel gameplay, il seguito fu accolto con critiche decisamente positive, proprio per aver riproposto un sistema di gioco efficace, arricchito da una storyline più complessa ed articolata, che vedeva complotti politici, pericolosi esperimenti scientifici su larga scala, e l’apparizione di alcune vecchie conoscenze; la possibilità di costruire un’automobile a fusione nucleare e scorrazzare liberi per la mappa, faceva il resto.
Insomma, mentre una Electronic Arts agli inizi della sua inarrestabile crescita lanciava il titolo che avrebbe sconquassato il mondo dell’ intrattenimento creando l’immortale genere MMORPG, Interplay segnava la storia del single player con una saga poi divenuta un punto fermo, il metro di paragone per ogni tentativo futuro di toccare l’argomento post-apocalittico in campo video ludico.
Sebbene meno appetibili, sul piano tecnico, del seguito affidato al lavoro di Bethesda (come testimonia l’altisonante punteggio di metacritic), i primi due capitoli della saga resteranno tappe imprescindibili dell’esperienza di ogni amante di RPG che si rispetti.
Certo, si farà fatica a digerire l’interfaccia spigolosa e le fasi iniziali non proprio esaltanti, ma la totale immersione è assicurata.

A proposito di Wasteland...

Una notizia che ha scaturito un’ondata di isometrico giubilo fra i fan del vecchio Wasteland riguarda l’annunciato seguito, il cui sviluppo vedrà coinvolto lo stesso Brian Fargo, con la sua inXile Entertainment. Superata la battaglia legale con Konami per il marchio “Wasteland” legato al franchise di Yu Gi Oh (!), il buon Fargo ha pensato bene di ricorrere, come già fatto da molti developers e designers storici (Tim Schafer in primis), al potente strumento Kickstarter, ricavando oltre il triplo dei fondi necessari per lo sviluppo del titolo, previsto per il prossimo ottobre.

Play.Again Nel pieno di un irrispettoso vaneggiamento nostalgico potrebbero volare pesanti sentenze sull’intero genere ruolistico occidentale così come si mostra ai giorni nostri, con i suoi automatismi e le sue semplificazioni. Ma forse è meglio limitarsi a ricordare gli ultimi esemplari della golden age videoludica con devoto rispetto. Titoli in cui si respirava ancora l’odore di carta e grafite, e la crescita dei personaggi mostrava ancora i segni delle correzioni fatte a mano; titoli che costringevano a riempire la scrivania di nevrotici appunti e a ricorrere all’ormai perduta consuetudine della lettura del manuale cartaceo; titoli che hanno lasciato il posto agli esponenti di un genere ormai irriconoscibile, allontanatosi anni luce dall’idea iniziale.