Rubrica Play.Again System Shock 2

Rigiochiamoci: lo Shock nel sistema dei generi.

Rubrica Play.Again System Shock 2
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Siamo onesti, pochi degli autodefinitisi ‘accaniti videogamer’ riuscirono a vivere nella piena lucidità il boom produttivo degli ultimi anni ’90. Un periodo particolarmente convulso, nel quale, vista la mole di materiale degno di nota, in uscita su tutte le piattaforme, anche il consolaro più fedele al proprio nipponico apparecchio cercava disperatamente dritte per far girare le ultime uscite sugli obsoleti PC di casa, e anche i più schivi PC gamer iniziarono a nascondere una console in un cassetto sotto la TV. Mentre la comunità internettiana si affacciava con un certo inspiegabile timore al nuovo millennio, lo spazio lasciato negli armadi dalle camicie di flanella, ormai fuori moda, era stato prontamente riempito dalle voluminose scatole in cartone, le stesse che sarebbero apparse in sogno, a distanza di circa due decadi, ad eccentrici collezionisti ammalati di nostalgia cronica. Tempi duri per i giocatori, che avrebbero dovuto trovare il tempo per scoprire nuove ed inaspettate IP -divenute poi storiche-, sviscerare sequel riuscitissimi, leggere le esaltanti anteprime sulle promettenti uscite future, tenere un occhio fisso sulla finestra di Ultima Online in background, per il costante timore dell’ennesimo macro test, e magari concedersi anche qualche minuto per autoinfliggersi un sano e corposo ‘get a life’.

Polito is a Lie

Il background sci-fi del primo System Shock (1994) attingeva a piene mani dalle ben note aberrazioni della robotica asimoviana e alle facili variazioni sul tema del “qualcosa è andato storto”, alle quali fu sapientemente aggiunta la figura dell’eroico hacker perseguitato dalle istituzioni -tanto di moda negli anni ’90. Il risultato, una volta inclusi elementi -come il mondo persistente- presenti in Ultima Underworld, fu un profondo first person RPG (per anni erroneamente etichettato come clone di Doom) in grado di strappare un discreto successo, con ben 170.000 copie vendute. Qualche anno dopo, i diritti di Shock finirono nelle mani di Irrational Games (e quindi del genio indiscusso di Ken Levine), già al lavoro su un titolo analogo, tale Junction Point. Il progetto, con le dovute modifiche sulla trama, fu adattato per fare da seguito a System Shock, lavoro dell’ormai scomparsa software house Looking Glass (già in stretta collaborazione coi colleghi di Irrational dal 1997).
E’ curioso notare come, proprio negli anni in cui i generi videoludici si fecero sempre più definiti e stereotipati, il mercato abbia registrato uno dei successi tutt’ora ricordati con un rispetto quasi religioso con un azzardato -ma riuscitissimo- ibrido action-FPS-RPG-survival horror, che, di fatto, rifiutava categoricamente qualsiasi classificazione per genere.
Il nuovo Shock apparve sugli scaffali nell’estate del 1999, tempi in cui la più vicina interpretazione sul tema del sonno criogenico apparteneva al faceto immaginario groeninghiano. Al risveglio sulla nave spaziale Von Braun, ci saremmo ritrovati nei panni del soldato G65434-2, anonimo sopravvissuto all’immancabile ecatombe a gravità zero, con tanto di equipaggio infetto e strane uova dall’aspetto preoccupantemente familiare; ignari di tutto avremmo riposto ogni speranza nella voce della dottoressa Janice Polito, che ci avrebbe presto tratti in salvo dall’imminente depressurizzazione della cabina. La trama sarebbe proseguita in un intricato crescendo di indizi discordanti, menzogne e tradimenti, fino alla ricomparsa della nemesi storica della serie, l’IA SHODAN (Sentient Hyper-Optimized Data Access Network), sopravvissuta nonostante gli sforzi del già citato hacker di System Shock. La malefica cyberdonna, doppiata dalla stessa game designer (Terri Brosius) che le diede vita, divenne ben presto una figura indimenticabile nella storia dei videogame, al punto da ispirare Valve -inutile negarlo-, otto anni dopo, nella creazione dell’IA GLaDOS.
Quello che possiamo definire uno dei più riusciti sequel dell’intera storia videoludica stupì subito il pubblico e la critica, sia per la solidità del gameplay che per l’opprimente atmosfera horror, supportata da alcuni indiscreti riferimenti all’arte visionaria di H.R. Giger (a partire dal faccione di SHODAN in copertina).

RUN

Gli ‘infetti’ coi quali avremmo avuto a che fare erano ben lontani dagli zombie decerebrati degli universi Capcom e Konami; a terrorizzare il giocatore non erano i segni degli innesti cibernetici sulla carne viva degli ‘ibridi’, né la loro abitudine di spuntare all’improvviso da un angolo buio, prendendoci a colpi di chiave inglese sulle tempie. La vera mostruosità risiedeva nel fatto che i corpi dei malcapitati restassero coscienti per tutto il tempo, al punto da invitare il giocatore -con la giusta dose di urla strazianti- a scappare il più lontano possibile, o di scusarsi ogniqualvolta fossero riusciti a colpirlo. A quello che rese System Shock onnipresente nelle classifiche dei giochi più spaventosi di sempre, si unì l’estrema vulnerabilità del protagonista -specie nelle fasi iniziali-, che di certo non avrebbe potuto contare sulla rigenerazione automatica dei punti ferita, né tantomeno su sofisticati apparecchi in grado di tracciare raggi luminosi dai palmi delle mani, ad indicare esattamente la strada da seguire. Si parla, ovviamente, di un’epoca in cui il backtracking -massiccio in System Shock 2- non era ancora malvisto, ed era, anzi, incoraggiato dalla possibilità di prendere appunti sulla mappa riguardo le zone da riesaminare in seguito.
La possente componente ruolistica studiata da Levine e soci finì per dominare il gameplay, a partire dalle importantissime scelte iniziali riguardo la ‘formazione’ del personaggio; dietro ogni upgrade c’era sempre una scelta ben ponderata, opportunamente supportata da savegame strategici, da riprendere dopo l’incauto utilizzo dei pochissimi cyber moduli a disposizione. Fondamentale perno del gameplay fu anche l’esplorazione: solo cercando in ogni singolo anfratto della VonBraun si sarebbero potuti accumulare cyber moduli necessari per rendere il protagonista un tantino meno vulnerabile, preziosissime risorse offensive e tessuti organici da esaminare in laboratorio, prodotti chimici alla mano.
L’uso delle armi da fuoco all’interno del gioco, coerentemente con il numero esagerato di sparatutto in soggettiva in circolazione in quegli anni, non tardò a generare le stesse approssimazioni critiche di cui fu vittima l’originale System Shock. Sebbene le vendite si attestarono ben al di sotto delle aspettative, di lì a dieci anni il numero dei fan della serie salì alle stelle, tanto che, all’apertura del celebre gog.com, System Shock 2 figurava fra i titoli più richiesti dal pubblico.
Il miscuglio di generi diede vita ad un prodotto che non temiamo di definire quasi perfetto, un titolo senza veri eredi (compreso quel Bioshock che vendette il decuplo rispetto a SS2, e sul quale si tende a forzare l’etichetta di “seguito spirituale”), unico nel suo (non)genere.

Ho deciso, lo reinstallo.

Sappiamo che molti di voi stanno già rovistando nei cassetti, fra i vecchi CD, in cerca di quel disco con su stampato lo sguardo minaccioso di SHODAN. E’ giusto, a tal proposito, segnalare la recente uscita, su good old games, di quella che ha tutta l’aria di una collector’s edition interamente digitale. Oltre all’immancabile supporto per gli ultimi sistemi operativi, che eviterà infiniti smanettamenti con patch e fix di vario genere, il pacchetto offre succosissimi contenuti extra: la colonna sonora del gioco, una raccolta di artworks e bozzetti, la mappa della Von Braun e una curiosa intervista radiofonica in cui lo stesso Kevin Levine anticipa le features del gioco, all’epoca ancora in beta.
Segnaliamo inoltre, per i più esigenti, la disponibilità in rete delle mods Rebirth e Texture Upgrade (SHTUP) che miglioreranno, rispettivamente, i modelli poligonali e le texture del gioco.

Play.Again Il rispetto mostrato per System Shock 2 da nostalgici, giovani videogamer e non, integralisti dell’era 8-bit e intenditori part-time è quindi del tutto giustificato: parliamo di un titolo decisamente avanti coi tempi, oggetto di reinstallazioni compulsive, invecchiato neanche fosse una bottiglia del miglior Barolo. Mai come in questi casi, parlare di retrogaming potrebbe sembrare addirittura un insulto.