Assassin's Creed Valhalla e l'open world: densità contro vastità

Il mondo di Valhalla sarà più ampio del precedente Odyssey, ma quali sono i pregi che un open world deve avere?

Assassin's Creed Valhalla e gli Open World
Speciale: Multi
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  • Dopo l'annuncio di fine aprile, seguito a ruota da un trailer pubblicato nel corso dell'ultimo Inside Xbox, Ubisoft ha riversato tra le maglie dell'etere internettiano una valanga di informazioni sul nuovo capitolo della saga degli assassini, che trascinerà i giocatori verso le coste del Nord Europa nei panni del condottiero vichingo Eivor. Tra le notizie offerte in pasto alla platea dei fan, ce n'è una in particolare che ha generato qualche ragionevole moto di preoccupazione tra le file degli appassionati. Sembra infatti che il mondo di Assassin's Creed Valhalla sarà perfino più grande di quello di Odyssey, e includerà diversi territori esplorabili tra Inghilterra e Norvegia. Una conferma che, come prevedibile, ha riportato all'attenzione del pubblico una questione ormai annosa, che riguarda la struttura di molte produzioni moderne: parlando di open world, qual è l'aspetto più importante tra vastità e densità?
    Ecco, la risposta è meno scontata di quanto non sembri.

    Regole e origini dell'open world

    Prima di rispondere alla domanda di cui sopra, retorica solo in apparenza, vale la pena di spendere qualche parola sul significato stesso di open world, e sul lungo percorso evolutivo che ci ha condotto agli attuali standard di questa popolare scelta di design. In linea di massima, con queste due parole si identifica un mondo digitale, di dimensioni variabili, in grado di garantire ai giocatori un certo livello di autonomia, sia per quanto riguarda l'esplorazione degli spazi, sia per quel che concerne la struttura della progressione e tutti i sistemi di gioco che confluiscono nella più ampia definizione di gameplay.

    Un nodo, quest'ultimo, che genera un punto di contatto con un altro termine spesso considerato - erroneamente - sovrapponibile al concetto di open world, ovvero sandbox. Questo definisce in realtà un insieme di meccaniche pensate per incoraggiare gli utenti ad affrontare il gioco in maniera creativa, a sfruttare tutti gli strumenti messi a punto dagli sviluppatori per modellare in libertà la propria esperienza e il mondo virtuale, senza necessariamente dover inseguire uno specifico obiettivo.

    L'esempio più celebre di questa impostazione è senza dubbio Minecraft, concepito come un infinito parco giochi a base di voxel, e un altro rappresentante della categoria è sicuramente l'ultimo capitolo di The Legend of Zelda, da molti ritenuto - e a buon diritto - un "sandbox fisico" tra i più brillanti mai concepiti. Di conseguenza non è affatto detto che un titolo open world sia anche un sandbox, e viceversa. The Sims, ad esempio, propone dinamiche sandbox ma non può in alcun modo essere annoverato tra le produzioni open world, mentre per Batman: Arkham Knight vale il discorso opposto. Quando queste due anime si uniscono, spesso assistiamo alla comparsa di elementi di gameplay emergente, situazioni in cui il mondo simulato reagisce all'intervento del giocatore in modi che arricchiscono il valore dell'esperienza, rendendola più immersiva e coinvolgente.

    E mentre aspettiamo di scoprire come si evolveranno gli universi digitali nella prossima generazione, non possiamo fare a meno di tornare con la mente al titolo che - ben quaranta anni fa - gettò le basi per il concetto di open world: l'indimenticabile Adventure.

    Trasposizione grafica dell'avventura testuale Colossal Cave Adventure, il gioco di Atari proponeva un'ambientazione liberamente esplorabile (seppur con limiti molto stringenti) popolata da nemici da sconfiggere per raggiungere infine l'agognato "Calice Incantato", obiettivo finale del nostro eroico avatar (un vigoroso quadrato marrone). Negli anni successivi, titoli come Ultima, Elite, Hydlide, Mercenary, The Legend of Zelda e Wasteland contribuirono a tracciare la rotta per l'evoluzione di un concetto libertario destinato a rivoluzionare l'industria videoludica, fino a quello che viene universalmente riconosciuto come il padre di tutti i moderni open world: GTA III, l'ultimo capitolo della serie sviluppato da DMA Design prima che lo studio diventasse il nucleo fondante di Rockstar North. Il resto, come si suol dire, è storia.

    Densità contro vastità

    Torniamo quindi al quesito in testa a questo articolo che, a onor del vero, propone una dicotomia più sibillina di quanto non sembri. Si tratta quasi di una domanda trabocchetto, perché nessuna delle due caratteristiche, di per sé, offre garanzie circa la qualità finale di un open world.

    Questo perché tutti gli elementi coinvolti nel game design, a prescindere dalla loro natura, devono rispondere a una singola, inalienabile necessità, tanto scontata quanto essenziale: contribuire coralmente al valore dell'esperienza in maniera coerente e bilanciata, assecondando in pieno la visione del team di sviluppo, che ovviamente deve a sua volta rivelarsi solida perché un progetto possa aspirare all'eccellenza.

    Può quindi succedere che un mondo incredibilmente vasto, magari benedetto da una notevole direzione artistica, diventi la bella cornice di un gioco povero di stimoli, destinato a perdere mordente già dopo poche ore, e lo stesso può accadere in un titolo straordinariamente denso di attività, ma sempre uguali a sé stesse e banalizzate da un contorno di scarso impatto. Se proprio fossimo costretti a dare una risposta all'interrogativo di partenza, diremmo che la densità è un probabilmente il valore col maggior potenziale, sebbene sia fuorviante considerare esclusivamente l'accezione spaziale del termine.

    Questo perché non è tanto importante che lo scenario di un gioco sia fitto di strutture, insediamenti, personaggi, storie o mansioni, quanto che ognuno di questi elementi offra al pubblico un flusso costante di stimoli e incentivi al divertimento (in senso ampio), con l'ausilio di un gameplay capace di sostenere questa abbondanza e in conformità con le prerogative della produzione. In buona sostanza, non esiste un metro assoluto per valutare il pregio di un open world: deve solo "funzionare" bene in relazione alla formula scelta. A partire da queste coordinate critiche potremo perfino azzardare un confronto tra due mondi aperti totalmente agli antipodi, basandoci esclusivamente sulla loro capacità di adattarsi alle esigenze della ricetta ludica nel suo insieme. Il caotico open world di Just Cause 2 (il migliore della serie), costruito come un grande parco giochi sandbox votato alla distruzione creativa, può dunque essere paragonato a quello di un action survival come Dying Light, nella misura in cui entrambi si dimostrano in grado di fornire il giusto supporto alle peculiarità delle due esperienze, modellate anche in base ai gusti del pubblico di riferimento.

    In fondo parliamo dell'ABC del game design, un processo fatto di delicati equilibri e necessari compromessi, a maggior ragione quando entrano in ballo aspetti cardine come vastità e densità di un open world. Di fatto sono pochissimi gli sviluppatori che, ad oggi, si sono dimostrati in grado di far convivere senza inciampi queste due qualità, specialmente nel panorama degli open world "narrativi", un ambito nel quale si corre sempre il rischio che le dimensioni dello scenario e la moltiplicazione delle attività vadano ad intaccare il ritmo del racconto e diluire eccessivamente la progressione.

    Su questo fronte, e con modalità molto diverse, studi come CD Projekt RED e Rockstar North hanno dato prova di poter raggiungere risultati eccezionali, proponendo con The Witcher 3 e Red Dead Redemption 2 mondi tanto ampi quanto avvolgenti, capaci di mantenere alto l'interesse della platea per decine e decine di ore.

    L'epopea dello strigo offre un dedalo di scelte morali di grande impatto, che si snoda lungo un percorso narrativo costellato di missioni caratterizzate da una scrittura fenomenale, tanto trascinante da minimizzare i difetti del gameplay e rendere esaltanti perfino le odiate "fetch quest", nell'abbraccio di un ambientazione ricca di fascino. Se però i Regni Settentrionali di The Witcher 3 sono concepiti per essere l'inebriante palcoscenico delle gesta del Lupo Bianco, cardine centrale di tutto ciò che avviene sullo schermo, i panorami selvaggi che fanno da sfondo alle vicende di Arthur Morgan rendono palese un approccio al world design e alla narrazione ambientale molto differente rispetto a quello dello studio polacco.

    Quello di Red Dead Redemption 2 è un mondo che pare vivere di vita propria, stracolmo di personaggi pronti ad allontanarci dalla via maestra e di storie nascoste: un crogiolo pulsante di "micronarrativa" che premia la curiosità e invoglia alla scoperta, progettato per promuovere il gameplay emergente lungo un viaggio intriso di poesia di frontiera. In questo senso, la linearità della campagna principale assume tutto un altro sapore, perché scandisce le tappe di un'esperienza totalizzante, che non smette mai di sorprendere e incantare.

    Volendo quindi tirare le fila di questo discorso, non possiamo fare a meno di sperare che gli sviluppatori di Assassin's Creed Valhalla seguano la rotta già segnata da produzioni come quelle appena citate, e rispettino alla lettera le regole auree dell'open world, calando i giocatori tra le maglie di un mondo commisurato alle caratteristiche del gameplay e capace di stimolarli continuamente.

    Qualcuno ha detto "non importa quanto è grosso, importa come lo usi", ed è una massima straordinariamente versatile.

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