Speciale Avventure Grafiche - Quarta Puntata: Tempi Moderni

Gli ultimi anni del punta-e-clicca

Speciale Avventure Grafiche - Quarta Puntata: Tempi Moderni
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Definire quale sia lo stato delle avventure grafiche oggi non è operazione agevole. Se è vero che, nell'ambito della cultura indie, esistano ancora molte software house oltranzisticamente legate alla tradizione punta-e-clicca, più spesso l'eredità di un genere che ha trovato fisionomia a cavallo tra gli anni '80 e ’90 si è dispersa in rivoli che ne hanno reso i confini sempre più labili ed imprecisi, evolvendo in forme ludiche variegate e non facilmente classificabili. Da un lato, dunque, assistiamo a nostalgiche rievocazioni di un passato ormai lontano (forse irripetibile) e, dall'altro, a meccaniche da avventura grafica che si ritrovano, diluite, all'interno di contesti ludici di difficile classificazione. Anziché cercare formule e definizioni che cristallizzino un quadro tanto liquido e disorganico sarà dunque più utile isolare fenomeni e tendenze che si manifestano all'interno dei singoli titoli e provare ad analizzarli. A tal proposito è opportuno compiere un piccolo passo indietro a quella che fu l'origine del fortunato filone degli adventure in soggettiva nate sul modello di Myst. Nonostante questa tipologia di giochi possa apparire datata e anacronistica, essa ha lasciato un solco profondo nella storia del medium videoludico, preparato il terreno alle più avanguardistiche sperimentazioni che - nate in seno alla cultura indie - perseguono forme di narrazione interattiva basate sui cosiddetti "narrative environment".

L'avventura grafica attraverso gli occhi del giocatore

Come abbiamo accennato durante il nostro secondo speciale, il 1993 fu un'annata estremamente proficua per le avventure grafiche. In questa data vennero infatti pubblicati grandi titoli come Day of the Tentacle, Sam & Max Hit the Road, The 7th Guest, Gabriel Knight: Sins of the Fathers. A questi va aggiunto un titolo che segnerà un momento importante nello sviluppo dell'intera industria video ludica, il celebre Myst. Grazie al suo strepitoso successo (rimarrà in vetta alle classifiche dei giochi più venduti di tutti i tempi sino all’arrivo di The Sims), il capolavoro dei fratelli Robyn e Rand Miller contribuisce in maniera sostanziale ad imporre il supporto del CD-ROM come imprescindibile standard. Con visuale in soggettiva, il gioco non è altro che una successione di schermate statiche prerenderizzate ma tanto evocative da riuscire a generare un vertiginoso senso d'immersione nell'onirico mondo creato dagli sviluppatori. I paesaggi, come in un dipinto di Bocklin, palpitano d'un conturbante sentimento d'indefinitezza, di uno spazio familiare ma, al contempo, alieno, che mescola iconografia classica e liberty, gotica e tribale. Così come lo spazio, anche il tempo appare sospeso in una dimensione metafisica avvolta nel mistero sfuggente che si legge nelle opere di de Chirico, ed il senso di solitudine non fa che acuire lo smarrimento di fronte a forme e strutture enigmatiche.

Myst
Il titolo racconta la storia d'una famiglia lacerata da avidità e rancore. Se la narrazione è estremamente esile, di grande suggestione rimane invece la rappresentazione dei libri - e dunque del racconto - come strumenti capaci di creare interi universi affiorati dalle vuote nebbie dell'indefinito. Gli enigmi sono di natura strettamente logica e prevedono l'attivazione di bizzarri marchingegni di cui è necessario comprendere il funzionamento. I rompicapo sono dunque perfettamente integrati con il mondo di gioco e la loro risoluzione implica un'attenta indagine per scoprire la storia di civiltà perdute e comprenderne costumi e tecnologie. La modernità di Myst stava soprattutto nell'essere uno dei primissimi esempi di cosciente utilizzo dell’"environmental narrative" in cui le informazioni vengono veicolate in maniera non gerarchica e quasi esclusivamente attraverso indizi ricavabili dall’ambiente circostante.

Riven
I successivi titoli della saga mantengono la stessa impostazione, narrativa e di gameplay, aumentando il senso d'immersione nell'universo di gioco grazie ad un numero sempre maggiore d'animazioni che rendevano meno statici i paesaggi (anche se quel suggestivo senso di sospensione temporale, caratteristica del capostipite, viene inevitabilmente a mancare). I dettagliatissimi rendering di Riven (1997) hanno ancora oggi il potere di proiettare il giocatore in una dimensione di puro piacere estatico, mentre Myst III: Exile (2001) introduce la possibilità di ruotare lo sguardo a 360 gradi.

Myst 3
Progetto parallelo alla saga di Myst - ma pur sempre ad esso afferente - è Uru: Ages Beyond Myst (2003) con cui gli sviluppatori abbandonano le schermate prerenderizzate per adottare un engine 3D in "real time". Non saremo più "lo Straniero" - il personaggio di cui indossavamo i panni nei precedenti titoli della serie - ma "noi stessi" (come suggerisce il titolo del gioco che, come ha dichiarato Rand Miller, è un acronimo per "you are you"). Il gameplay ruota soprattutto intorno all'esplorazione, implementando persino la possibilità di saltare ed arrampicarsi tra sporgenze e fossati. Ciò che però avrebbe dovuto rappresentare - almeno nelle intenzioni degli sviluppatori - l'elemento di maggior innovazione era costituito dal progetto “Uru Live”, ovvero la proiezione multiplayer dell'universo virtuale di Myst. Sulla carta, i giocatori avrebbero potuto vivere un viaggio in compagnia dei propri amici, risolvendo enigmi che avrebbero richiesto una sinergica collaborazione tra giocatori. Purtroppo l'affascinante progetto (sarebbe stato il primo MMO con un gameplay da avventura grafica) non decollerà mai.

Myst IV
Dopo l'ambizioso Uru: Ages Beyond Myst, la Cyan abbassa il tiro con Myst IV: Revelation (2004) ritornando al 3D prerenderizzato con visuale ruotabile a 360 gradi (come in Myst III: Exile). Il nuovo motore grafico (denominato "ALIVE") aggiunge però qualche gradevole effetto come la profondità di campo. Inoltre il carico di animazioni diventava imponente e quasi ogni oggetto sullo schermo appariva in movimento.

Myst V
La saga si è chiusa (sottotono) con il non eccezionale Myst V: End of Ages (2005) che sacrificava il dettaglio del 2D alla libertà di movimento del 3D. Nonostante il suggestivo sentimento di decadenza che pervade un mondo al collasso, il plot non si dimostra all'altezza di dare degna conclusione ad una delle saghe videoludiche più importanti e longeve della storia dell'intrattenimento elettronico.
Enumerare i titoli che furono pubblicati sull'onda del successo della saga di Robyn e Rand Miller rischierebbe di trasformare questo articolo in un lungo e tedioso elenco telefonico. Forse il più affascinante sotto il profilo narrativo ed estetico (anche se poco inquadrabile tra gli epigoni di Myst) rimane The Dark Eye (1995). Il titolo dell'ormai defunta Inscape si proponeva di ripercorrere 3 celebri racconti scritti da Edgar Allan Poe (Il barile di Amontillado, Il cuore rivelatore e Berenice) attraverso due differenti punti di vista: quello dell'assassino e quello della vittima. Il gioco punta ad una estetica smaccatamente antinaturalistica in cui i personaggi vengono rappresentati come maschere grottesche animate in claymation (ovvero attraverso la tecnica di ripresa a "passo uno" di personaggi modellati in plastilina).

The Dark Eye
The Dark Eye rappresenta un'esperienza unica, un “tour de force” visivo che non ha eguali nel mondo dei videogiochi; sospeso tra suggestione espressionistiche e squarci surreali, riesce a cogliere a pieno le inquietudini delle opere del grande scrittore americano. Purtroppo, attualmente, riuscire a reperire una copia del gioco non è impresa facile ed ancor più arduo sarà, eventualmente, riuscire a farla funzionare sugli attuali sistemi.

Return to Zork
Grazie al successo delle avventure grafiche in prima persona, assistiamo alla rinascita d'una saga storica come quella di Zork che con Return to Zork (1993) passa dal “parser” ad un'impostazione soggettiva "alla Myst" ma preferendo un approccio non lineare agli enigmi e la presenza di NPC rappresentati attraverso la tecnica del FMV. Il successivo Zork Nemesis (1996) è decisamente più “tradizionalista” e vicino al modello di casa Cyan. La storia è narrata attraverso ricordi che, nella forma di flashback, sono evocati grazie all’interazione con determinati oggetti.

Zork Nemesis
Le atmosfere sono per lo più cupe e spesso (come nell’episodio ambientato nel conservatorio) straordinariamente ammalianti, mentre il successivo Zork: Grand Inquisitor (1997) prediligerà tonalità umoristiche e persino autoparodiche.
Altro titolo che non può mancare nella videoteca d'ogni appassionato d'avventure grafiche è Amerzone (1999). Splendido esordio del fumettista belga Benoît Sokal che qualche anno dopo ci avrebbe regalato uno dei capolavori del genere, ovvero il celebre Syberia (2002).

Amerzone
L’inizio degli anni Duemila corrisponde probabilmente alla fase di più acuta crisi per le avventure grafiche. Il genere sembra aver esaurito ogni forza propulsiva ma, nel sottobosco delle produzioni indipendenti (molto prima che nel mondo dei videogiochi la cultura “indie” divenisse di moda), fanno capolino piccole avventure la cui visuale in soggettiva e la quasi totale assenza di personaggi tengono bassi i costi di produzione. Sono, per lo più, titoli realizzati da team estremamente ristretti che faticano a trovare dei publisher. All’appassionato lavoro di questi sviluppatori e alla dedizione di una ristrettissima cerchia di affezionati acquirenti si deve la sopravvivenza di questo genere - seppure in uno stato di semi ibernazione - nel suo momento di massima difficoltà. Nonostante la loro impostazione apparentemente tradizionale, questi piccoli giochi mettono a punto strumenti narrativi che verranno riscoperti e valorizzati solo di recente. Ci riferiamo ad interessanti titoli come la serie di Dark Fall di Jonathan Boakes o Darkness Within (2009). Quest'ultimo caratterizzato da trovate di gameplay originali (sebbene non sempre perfettamente implementate) come l'analisi di documenti e un sistema di deduzioni attraverso il quale combinare i pensieri del protagonista con oggetti ed indizi così da svelare frammenti dell'intreccio che sarebbero altrimenti rimasti nell'ombra.
È quando, finalmente, i motori grafici 3D diventano alla portata dei piccoli team di sviluppo che questo sottogenere delle avventure grafiche conosce un profondo processo di rinnovamento linguistico ed espressivo. Gli sviluppi della cultura indie hanno condotto a maturazione le potenzialità della narrazione ambientale, liberandola dai legacci d'astrusi e complicati puzzle. Titoli "avanguardistici" come Gone Home o il recentissimo Ether One non sono altro che la naturale evoluzione di un'impostazione ludica inaugurata da Myst all’inizio degli anni ’90, nella quale le informazioni narrative non sono trasmesse attraverso dialoghi o cutscene ma quasi unicamente tramite la "lettura" d’indizi ambientali.

La grande crisi

Ripetendo quanto già detto qualche speciale fa, non è esagerato sostenere che esista un prima ed un dopo Grim Fandango, un'avventura grafica che ha cambiato per sempre lo sviluppo di questo genere. Dopo il flop commerciale del capolavoro di Tim Schafer, la produzione degli adventure incomincia a rarefarsi. I pochi titoli di questo genere che arrivano sugli scaffali dei negozi tentano la strada dell'ibridazione con l'action game o cercano di svecchiare la tradizionale interfaccia punta-e-clicca.

Sanitarium
Quest'ultimo è il caso dell'ottimo Sanitarium (1998, pochi mesi prima dell’uscita di Grim Fandango) in cui il controllo del personaggio viene affidato alla pressione del tasto desto del mouse per direzionare il movimento del nostro alter ego verso otto direzioni (un metodo che si rivela subito assai scomodo). L'impianto estetico, piuttosto spartano e con animazioni grossolane, è caratterizzato da un'insolita e assai poco cinematografica visualizzazione isometrica che fa assomigliare il titolo dei Dreamforge ad un action RPG "alla Diablo". La presentazione del gioco si apre con un filmato in CG nel quale il protagonista subisce un incidente automobilistico; si sarebbe risvegliato in un ospedale psichiatrico senza sapere come né perché fosse finito in quel terribile posto. Il punto di partenza è dunque costituito dal cliché dell'amnesia. Non c'è da stupirsi che siano così tante le opere narrative, cinematografiche e videoludiche ad aver utilizzato questa soluzione narrativa. Essa costituisce infatti un’efficace formula per catturare immediatamente l'attenzione del giocatore (spettatore o lettore) grazie ad un approccio al racconto che Gerard Genette indicherebbe come a "focalizzazione interna". In questa modalità di racconto (per semplificare) personaggio principale e fruitore condividono la medesima conoscenza in relazione all’intreccio che dunque si sviluppa progressivamente attraverso le scoperte del protagonista, agevolando - come è facile intuire - sentimenti d’immedesimazione e coinvolgimento.
Sospeso tra menzogna e realtà, sogno e veglia, il plot di Sanitarium è sapientemente costruito sull'ambiguità dei ricordi e delle percezioni. L’opera dei Dreamforge mette in scena un sofferto viaggio nella mente d'un uomo che fugge dal passato attraverso un mondo di gioco che diviene proiezione della sua contorta coscienza. La profondità narrativa - nonostante qualche dialogo "stonato" ed una confezione estetica sottotono - è ciò che ha reso Sanitarium un titolo degno d'essere posto tra i grandi capisaldi dell'avventura grafica.

Gabriel Knight 3
L'anno successivo (1999) esce l'ultima avventura grafica pubblicata da Sierra Entertainment ed una delle vette assolute nella sterminata produzione della software house californiana: si tratta del terzo capitolo di Gabriel Knight (Gabriel Knight 3: Blood of the Sacred, Blood of the Damned). Dopo la pixel art del primo capitolo, passando attraverso il FMV del secondo ed approdando, con questo terzo episodio, agli impervi lidi del full 3D, Jane Jensen dimostra un costante interesse per ogni nuova tecnologia informatica che possa, di volta in volta, assecondarla nell’esplorazione di forme sempre nuove di gameplay. La formula narrativa rimane invece invariata ed in questo capitolo conclusivo vestiremo i panni di Gabriel e di Grace per vivere un intrigo che, partendo da un caso di rapimento, ci porterà ad esplorare i misteri che avvolgono Rennes-le-Chateau (un piccolo borgo nel sud della Francia). Ispirandosi al controverso saggio Il Santo Graal (lo stesso a cui si è ispirato Dan Brown per il suo Codice Da Vinci), la Jensen mescola - come al solito - leggende e fonti storiche, realtà ed elementi soprannaturali attraverso una ricetta che raggiunge qui il suo equilibrio perfetto.
La grafica completamente 3D rende possibile spostare e ruotare la telecamera con assoluta libertà. Ciò aggiunge possibilità inedite al gameplay, rendendo necessaria l'esplorazione dell'ambiente al fine di risolvere enigmi il cui design sfrutta brillantemente lo spazio tridimensionale. Diviso in blocchi temporali, il giocatore è chiamato a condurre una complicata indagine; molti enigmi prevedono delle vere e proprie ricerche attraverso un laptop, digitando delle parole chiave (elemento che è stato recentemente recuperato dalla serie The Blackwell). Il plot - che tiene insieme il culto di Maria Maddalena, il Santo Graal, i templari ed i vampiri - si regge solidamente attraverso un attento dosaggio della tensione che relega gli elementi soprannaturali allo sfondo.
L'ultimo episodio del "cacciatore d'ombre" è un gioiello di game design che tenta di ridefinire gli standard dell’avventura grafica attraverso meccaniche innovative che si fondono ad un avvincente racconto di mistero ed investigazione. Purtroppo il titolo non ha ricevuto il successo che meritava e la serie è stata - sino ad oggi - accantonata.

The Longest Journey
Nel 2000, in un momento di particolare penuria di avventure grafiche, la norvegese Funcom pubblica The Longest Journey. Forse più per assenza di concorrenza che per i suoi effettivi meriti (comunque notevoli) il gioco viene immediatamente salutato come un capolavoro, il nuovo messia delle avventure grafiche. Si tratta senza alcun dubbio d'un titolo che ha dalla sua un'eccellente caratterizzazione dei personaggi (particolarmente sottile quella della protagonista, April Ryan) che non appaiono mai come figurine bidimensionali, offrendo tutti un'identità ben definita. A ben guardare, però, il lungo ed articolato intreccio scritto da Ragnar Tørnquist - che si articola in decine e decine di locazioni da visitare - non è che l'ennesima variazione sull'abusatissimo tema del "prescelto" destinato a riportare l'equilibrio in una dimensione parallela in cui esiste un mondo diviso in due parti: Stark (governato dalla tecnologia) e Arcadia (in cui si pratica la conoscenza delle arti magiche). Ogni tentativo di vedere in questo fragile canovaccio narrativo una sorta d'allegorico racconto di formazione appare del tutto forzato. Eppure alcuni episodi - come i ricordi degli abusi subiti dalla protagonista da parte del padre o la telefonata di April alla madre - rimangono impressi nella memoria e lasciano il segno. Qualche enigma sottotono (chi ricorda quello della paperella nelle rotaie della metro?) ed animazioni "legnose" non inficiano il fascino di un viaggio che vale la pena d’essere percorso, giungendo così ad una conclusione che si riconnette, attraverso una struttura perfettamente circolare, al prologo, lasciando però aperta la porta al seguito che giungerà molti anni dopo.

Dreamfall
Dreamfall venne infatti pubblicato solo nel 2006, proponendosi l'ambizioso obiettivo di rivoluzionare le avventure punta e clicca ibridandole all'action adventure (portando alle estreme conseguenze ciò che i Revolution avevano fatto con Broken Sword 3: The Sleeping Dragon). Il risultato non è sempre convincente ma la sceneggiatura, ben orchestrata (sebbene, ancora una volta, "leggera" come un blockbuster hollywoodiano), riusciva a far chiudere un occhio di fronte ad un sistema di combattimento clamorosamente povero e una gestione della telecamera non sempre efficace. Il finale, estremamente aperto, verrà presto colmato (si spera) dall'imminente Dreamfall Chapters.

Syberia
Nel 2002 Benoit Sokal ritorna al mondo dei videogiochi realizzando il suo capolavoro: Syberia. Il titolo, sviluppato dalla Mycroids, vede come protagonista la giovane avvocatessa Kate Walker, inviata dal suo studio legale in un paesino delle Alpi francesi per concludere un affare per conto d'un cliente. Il suo lavoro sembrerebbe molto semplice: provvedere alle pratiche legali per l'acquisizione della fabbrica di giocattoli della famiglia Voralberg. Purtroppo tutti gli eredi sono morti meno uno: Hans Voralberg, un settantanovenne da tutti ritenuto un po' svitato. Fintosi morto sessant'anni addietro, Hans è vivo e vegeto in giro per il mondo. Durante il suo viaggio Kate si farà contagiare dall'entusiasmo di Hans e dallo slancio che l’anziano, nonostante l’età avanzata, dimostra nell’inseguire i propri sogni. La protagonista conosce una profonda trasformazione che la vedrà spogliarsi delle consuetudini borghesi, della sua carriera e della sua vita passata, abbracciando l'ignoto e l'avventura. Questa progressiva metamorfosi fa del personaggio di Kate Walker uno dei più riusciti personaggi femminili della storia dei videogiochi, descrivendo un processo d'emancipazione non votato al carrierismo quanto, piuttosto, ad una profonda conoscenza del proprio "io". La ricerca di Hans risveglia nella protagonista un desiderio d'avventura che, immersa in una vita agiata ma poco appagante, la giovane donna aveva per troppo tempo lasciato sopito nei recessi della propria coscienza. Gli enigmi erano costruiti sul modello rigorosamente logico tracciato da Myst, mentre la grafica abbracciava un 2.5D mai così suggestivo (con ricchissimi sfondi bidimensionali e personaggi poligonali ottimamente modellati).

Syberia II
Il seguito (Syberia II, 2004), benché confermi il talento visivo di Sokal, banalizza i temi abbozzati dal precedente episodio. Accontentandosi d'una pigra mediocrità, questo secondo capitolo sviluppa un intreccio che si trascina svogliatamente e senza picchi memorabili verso la conclusione di quel che - sino ad oggi - rimane un dittico riuscito solo a metà.

Paradise
Più interessante Paradise (2006), in cui Sokal si sposterà dalle fredde lande della Siberia all'assolata Africa ma mantenendo la medesima visionarietà estetica. Il gioco era purtroppo minato da una moltitudine di bug, alcuni di essi tutt'altro che veniali. Ancora una volta la protagonista è una donna: Ann Smith, figlia di un feroce dittatore africano. Nonostante il conflittuale rapporto tra padre e figlia rimanga appena abbozzato, il finale lascia il segno, con suggestioni che riportano alla mente (forse un po' velleitariamente) Apocalypse Now e Cuore di tenebra.

Sinking Island
Con Sinking Island (2007) Sokal gioca la carta del "giallo" in puro stile Agatha Christie. La sceneggiatura è solida ma priva d'elementi d'interesse ed anche se la vittima dell'assassinio (il magnate Walter Jones) rivela qualche lontana somiglianza con la megalomania dell'Orson Welles di Citizen Kane, queste rimarranno solamente di superficie. In generale, la caratterizzazione dei personaggi è estremamente fiacca e priva di mordente. L'impianto visivo, invece, è - come al solito - sapientemente costruito con espliciti richiami all'Art Nouveau.
Con Nikopol: Secrets of the Immortals (2008) la produzione di Sokal tocca il punto più basso. Con una sceneggiatura raffazzonata, dialoghi deboli e pochissima varietà delle locazioni, l'autore belga si dimostra ormai lontanissimo dalla grandezza di aria.

La rinascita parte dal mondo indie

È nella seconda metà degli anni 2000 che assistiamo ad un timido risveglio delle avventure grafiche dal lungo letargo d'inizio decennio. Questa - ancora debole - ripresa è principalmente attribuibile all'affermarsi di un embrionale mercato indie che riesce a sostenersi grazie alla domanda di un pubblico di nicchia che chiede a gran voce avventure dal sapore nostalgico. Proprio alla "vecchia scuola" - eliminando ogni elemento estraneo alla tradizione punta-e-clicca - si ispira la produzione di Pendulo Studios. Se il primo successo giunse già nel 1996 con Hollywood Monsters (un piacevole omaggio ai classici dell'horror Universal), è con la saga di Runaway - iniziata nel 2001 e conclusasi nel 2009 - che la software house spagnola ottenne grande risonanza nel mondo delle avventure grafiche. Nessuno dei lavori di Pendulo Studios spicca però per forte personalità o per trovate di design particolarmente innovative. Persino la serie di Runway, per quanto curata e ben confezionata, appare poco più che un corretto compitino copiato dai grandi capisaldi del genere (primo fra tutti, Broken Sword), mentre il recente Yesterday (2012), con un intreccio assai farraginoso, insegue lo stile di Jane Jensen nei territori dell'occulto senza però riuscire ad evitare le trappole del sensazionalismo.

The Shivah
Di ben altro peso è la produzione dei Wadjet Eye, software house fondata da Dave Gilbert nel 2006, lo stesso anno in cui il talentuoso game designer pubblica il suo primo progetto: The Shivah. Il titolo riesce subito a catturare l'attenzione per il suo singolare contesto narrativo totalmente immerso nella cultura ebraica. Il protagonista è infatti un rabbino dalla fede malferma che dovrà risolvere un caso d'omicidio. La scrittura dei dialoghi è sempre intelligente, toccando temi inusuali nel mondo dei videogiochi senza scadere in banalità. Gli enigmi non prevedono combinazioni d'oggetti, concentrandosi unicamente sui dialoghi e sullo sviluppo delle indagini. Nonostante alla sua uscita sia passato quasi inosservato, The Shivah è gemma grezza di rara bellezza che meriterebbe d'essere riscoperta.

The Blackwell
L'opera più celebre di Dave Gilbert è la saga di The Blackwell, composta da 5 episodi che l'autore porta a termine nell'arco di otto anni (dal 2006 al 2014). Capitolo dopo capitolo la serie maturerà progressivamente, affinando racconto e gameplay. Le meccaniche di gioco, da Legacy sino ad Epiphany, non mancano d'arricchirsi, aggiungendo nuove possibilità ludiche come quella di switchare dal personaggio di Rosangela (o Lauren in Unbound) e lo spettro Joey: la prima può interagire con gli oggetti mentre il secondo grazie alla sua forma ectoplasmatica può attraversare le porte chiuse ed esplorare luoghi inaccessibili alla sua compagna. Inoltre, taccuino e smartphone (o PC, nei primi 3 episodi) ci daranno la possibilità di effettuare ricerche e combinare indizi al fine di dedurre nuovi elementi d'indagine.
Il canovaccio narrativo è estremamente semplice, quasi banale: una medium ed il suo spirito guida hanno il compito - ineludibile - di accompagnare le anime smarrite nel nostro mondo verso un "altrove" che il gioco ha l'intelligenza di lasciare sempre sul vago, senza sovraccaricare l'opera d'inutile zavorra metafisica. La sceneggiatura non ha alcun timore d'abbracciare quasi ogni singolo cliché sulle storie di fantasmi per rielaborarli in forme estremamente personali. L'autore tratteggia sempre con tenerezza e simpatia i suoi spettri, donando, ad ognuno di essi, “verità” umana: non esistono né buoni né cattivi nelle storie narrate in The Blackwell, soltanto individui con debolezze e sogni infranti. Ogni spettro ha una storia da raccontare e la scrittura sembra accarezzare compassionevolmente - e senza alcun preconcetto - le sofferenze dei personaggi. Una ragazza che si trascina da un lavoro precario all'altro, attraverso agenzie interinali, trova un uomo che diventa il suo punto di riferimento prima d'essere schiantata dal dolore nel constatare la meschinità e gli inganni da parte di colui che era tutto il suo mondo; un'attrice, i cui sogni si sono infranti contro il cinismo di un giudizio affrettato, fugge unendosi ad un gruppo di derelitti per poter dimenticare la "vergogna" d'un fallimento che crede di meritarsi: sono solo alcuni dei ritratti tratteggiati con estrema delicatezza dalla scrittura di Dave Gilbert.
In una perfetta commistione di toni ora tragici ora comici, la saga delle Blackwell è un affresco sul dolore della morte e del distacco da giocare assolutamente nell'ordine previsto dall'autore.

Gemini Rue
Wadjet Eye non ha prodotto soltanto i titoli di Dave Gilbert ma ha anche assunto il ruolo di publisher per alcune opere di grande interesse. Prima tra tutte Gemini Rue (2011) che, in ambito indie, ha beneficiato d’un buon riscontro di vendite. Titolo interamente sviluppato da Joshua Nuernberger, si tratta d'un racconto di fantascienza distopica avvolto da atmosfere noir in cui le vite di due personaggi - Azriel Odin, in cerca di un misterioso individuo e, dal lato opposto della galassia, Delta-Six, un uomo che si risveglia privo di memoria in una struttura di "rieducazione" - s’intersecano inaspettatamente. Con gusto smaccatamente retrò, Gemini Rue attinge a piene mani ai grandi classici del genere (da Beneath a Steel Sky a Blade Runner). Le locazioni, pregne d'un atmosfera plumbea ed opprimente, erano purtroppo assai poco varie e tendevano spesso a ripetersi (è necessario tenere conto della matrice semi-amatoriale del progetto). La vera forza del titolo di Nuernberger sta in una narrazione serrata e coesa, ricca di colpi di scena architettati con estrema cura. Il racconto sfiora alcune profonde tematiche (come quella dell'identità e della coscienza) senza però riuscire ad approfondirle; le filosofiche riflessioni dell’autore risultano dunque un po’ pretestuose ed affidate unicamente ad un finale troppo repentino. Nonostante queste piccole mancanze, Gemini Rue si è pienamente meritato l'ingresso nell'olimpo delle avventure grafiche, mettendo in mostra le doti narrative di Nuernberger, senza dubbio un autore da tenere d'occhio.
Se Gemini Rue giocava tutte le sue carte sulla qualità del racconto, Resonance (2012), realizzato dai XII Games, privilegia un gameplay innovativo che implementa una gestione sinergica di ben 4 personaggi - ognuno dei quali definito in relazione alla propria specifica professione - ed un sistema che tiene conto delle conoscenze accumulate e della possibilità di combinarle tra loro per ottenere ulteriori deduzioni (alla maniera di Discworld Noir). Com'è evidente, nessuna delle trovate ludiche dei XII Games è inedita ma certamente fresco è il risultato della loro combinazione. Piuttosto fiacco risulta, al contrario, il plot, poco coinvolgente e penalizzato da dialoghi anonimi e privi di mordente.

Primordia
Di tutt'altra caratura sono, invece, le premesse narrative di Primordia (2012). Il titolo sviluppato dai Wormwood Studios ci racconta d'un pianeta desolato, abitato solo da robot. L'uomo è scomparso da tempo e gli automi hanno fondato una sorta di religione che guarda ad i loro costruttori in carne ed ossa come divinità. Nella mente di Horatio, il protagonista, riecheggiano le medesime domande poste dall’uomo nel corso di millenni: “Chi mi ha creato?” e “Perché esisto?”. Quesiti senza risposta che il titolo smarrisce ben presto preferendo, nel finale, soluzioni assai più banali. I personaggi risultano però tratteggiati con cura ed i dialoghi ben scritti. Dal punto di vista estetico, Primordia si presenta immediatamente come uno dei migliori esempi d'utilizzo della pixel art, in cui la decadenza in cui versano città ipertecnologiche non riesce del tutto a cancellare il fascino di un antico splendore perso per sempre.

Se Wadjet Eye, con la sua pixel art, ammiccava esplicitamente agli amanti del retrogaming, i Daedalic Entertainment mostrano immediatamente di puntare più in alto, tentando di recuperare l'ampio respiro delle avventure grafiche Lucas e Sierra. Esteticamente curatissimi, i prodotti della software house tedesca perdono qualcosa sotto il profilo narrativo, soprattutto se confrontati con quelli della "rivale" Wadjet Eye.

The Whispered World
Il primo successo dei Daedalic arriva con The Whispered World (2009), raggiungendo risultati artistici e narrativi altissimi e mai più replicati; forse solo la macabra e spassosa commedia nera Edna & Harvey: Harvey’s New Eyes (2011) riesce a reggere il confronto, grazie ad un umorismo grottesco decisamente gustoso. La produzione della compagnia teutonica è estremamente varia e spazia dalla comicità demenziale della serie Deponia (Fuga da Deponia e Caos a Deponia, entrambi del 2012) alla fantascienza catastrofica ed ambientalista di A New Beginning (2010), passando per il fantasy della saga di The Dark Eye (Chains of Satinav, 2012 e Memoria, 2013).

The Night of the Rabbit
Titoli come The Night of the Rabbit (2013) rappresentano lo stato dell'arte delle moderne avventure grafiche 2D. Purtroppo lo splendido incipit narrativo della fiaba creata da Matt Kempke perde presto forza nel proseguo dell'avventura, annacquandosi nelle tonalità melliflue d'un insipido racconto di formazione. Di rado, nei titoli Daedalic, al lussureggiante impianto tecnico corrisponde un’altrettanta attenzione al racconto, sprecando spesso buone idee con caratterizzazioni non sempre all'altezza o con intrecci raffazzonati che tendono a dilatare il ritmo. Il design degli enigmi, poi, sebbene spesso brillante, non contribuisce a sviluppare l’intreccio ma, piuttosto, ad ostacolarlo.

La storia della ceca Amanita Design è interamente ed orgogliosamente inscritta nella più autentica cultura indie. Esordendo con Samorost (2003), un browser game freeware, si guadagnano l'attenzione di pubblico e critica con Machinarium (2009), un autentico gioiello di stile, caratterizzato da una direzione artistica d’altissimo livello. Il titolo, realizzato in flash ed interamente disegnato a mano (Samorost prediligeva invece uno spiazzante connubio tra disegni e fotografie), trasuda amore e cura per il dettaglio da ogni scorcio di gioco e le animazioni riescono sempre nell'intento d'esprimere i sentimenti dei personaggi grazie ad un'efficacissima pantomima.

Machinarium
In Machinarium, infatti, non esiste dialogo, e le interazioni tra personaggi avvengono attraverso balloon animati, servendosi dunque d'un linguaggio esclusivamente visuale. Il protagonista dell'esile intreccio è Josef, un robot destinato allo smaltimento e gettato in una squallida discarica. Nel corso della nostra avventura dovremo scoprire il perché di questa crudele condanna e salvare la città - e la fidanzata - da una malintenzionata confraternita di robot chiamata Black Cap Brotherhood.
Sebbene gli enigmi di Machinarium rendano il gioco più vicino ad un puzzle game che ad un’avventura punta-e-clicca, il titolo del 2009 mantiene una - seppur vaga - relazione con la tradizione degli adventure (con diverse assonanze rispetto alla serie Gobliiins di casa Sierra) che salterà del tutto con il successivo Botanicula (2012). L'impostazione rimane però la medesima: assenza di dialogo, eccezionale direzione artistica e narrazione tanto evanescente da sfiorare l'inconsistenza.
A ben guardare, i titoli della software house ceca dimostrano più stile che sostanza e spesso viene da pensare che gli sviluppatori, come gli afasici personaggi da loro creati, non abbiano assolutamente nulla da dire e celino, sotto un ammaliante impianto estetico, le loro carenze narrative.
La scoperta di un mercato di nicchia costituito da appassionati di adventure "vecchia scuola" è stata, per software house come Wadjet Eye e Daedalic, un'occasione per far rivivere una categoria ludica non troppo in salute ma, al contempo, ha paradossalmente rappresentato un grosso limite per lo sviluppo dell’intero genere. Infatti le piccole case di produzione che in quegli anni hanno coraggiosamente sostenuto il vessillo dei punta-e-clicca sono state, al contempo, costrette a sclerotizzare le scelte di game design per non allontanarsi mai troppo da una specifica forma, ovvero quella delle vecchie avventure Lucas e Sierra; pena la perdita del pubblico di riferimento.
Telltale Games, con le loro ultime produzioni, sono stati gli unici che, appoggiandosi al modello di "interactive drama" messo a punto dal David Cage, abbiano tentato di liberare il genere dell'avventura grafica dall'angusto spazio di mercato in cui si era volontariamente appartato. Per aprirsi al grande pubblico i Telltale Games - gruppo costituito da molti transfughi della Lucas tra cui Dave Grossman - si sono mossi attraverso due principali direttive: 1 - l'acquisizione di licenze che potessero attrarre l'attenzione anche di coloro i quali non erano necessariamente dei cultori dei punta-e-clicca; 2 - la distribuzione episodica attraverso digital delivery in modo da pianificare al meglio tempi e costi di sviluppo; 3 - la progressiva semplificazione delle meccaniche proprie degli adventure classici (come rompicapo e gestione dell'inventario). Se il terzo processo ha richiesto del tempo, il primo ed il secondo sono sempre stati parte integrante della politica di questa software house: da Bone a Sam & Max (il loro più grande successo prima di The Walking Dead), da Tales of Monkey Island a Back to the Future.

Jurassic Park
É solo con Jurassic Park che l'approccio dei Telltale Games cambia repentinamente, rifacendosi (per loro stessa ammissione) ai lavori dei Quantic Dream (seppur, per ovvi motivi di budget, non siano stati implementati bivi e diramazioni narrative). Stroncato dalla critica e snobbato dal pubblico, il tai-in tratto dal film di Spielberg è stato forse messo da parte con troppa superficialità. Infatti, seppur tra molti problemi e con una scrittura ancora acerba, non manca qualche interessante idea. L'approccio al film interattivo dei Telltale Game è infatti assai differente da quello di Cage: se in Farenight o Heavy Rain controllavamo uno o più personaggi, in Jurassic Park il giocatore controlla la "messa in scena". In parole povere l’utente è il regista che, attraverso i QTE, può modificare "l'umore" della scena o cambiare l'angolazione della camera attraverso cui vediamo i nostri "attori". Ai Telltale Game va dunque reso il grande merito d’aver insistito nel perseguire una visione personale di ciò che è oggi un’avventura grafica nonostante i risultati infelici del loro primo esperimento. Se, infatti, si fossero arresi The Walking Dead non sarebbe mai esistito.

Battitori liberi

Prima di concludere cogliamo l'occasione per menzionare due titoli realizzati da grandi autori che non rientrano (o non più) tra le “scuderie” di software house particolarmente rinomate nel campo delle avventure grafiche, trovandosi, al momento, a muoversi come "battitori liberi". La prima è un'autrice che qualunque appassionato di videogiochi conosce: Jane Jensen; l'altro è il meno noto Remigiusz Michalski (anche fondatore della software house indipendente Harvester Games).

Gray Matter
La creatrice di Gabriel Knight, dopo più di dieci anni d'assenza dal mondo delle avventure grafiche (anche se si era occupata, come designer, di alcuni "casual game”) torna con un titolo dalla forte impronta autoriale: Gray Matter (2010). Titolo, in buona misura, sottovalutato che ci fa conoscere il lato intimo dello stile narrativo di Jane Jensen. Mettendo da parte leggende e pseudo ricostruzioni storiografiche, l’autrice americana costruisce una storia di rimpianti, ossessioni e perdite, regalandoci due ottimi personaggi.
Samantha Everett, artista di strada e apprendista illusionista, si ritrova, per una singolare combinazione d'eventi, a bussare alla porta del neurobiologo David Styles divenendone l’assistente. Lo scienziato ha inventato una macchina per rivivere i ricordi ed è grazie ad essa che spera di potersi riunire alla moglie recentemente defunta, incontrandola nella propria mente. L'intelligente sceneggiatura della scrittrice riflette sull'inafferrabilità della realtà e (proustianamente) sui ricordi come vita autentica da contrapporre al pallido ed incolore “esistere nel presente”. Al tema della realtà come risultato di percezioni potenzialmente ingannevoli e manipolabili si connette un gameplay che prevede spesso l’uso di meccaniche legate ai giochi di prestigio: percezioni come “verità” (nel caso del dottor Syles) e, al contempo, come menzogna (attraverso i trucchi illusionistici di Samantha).
L'intrigo investigativo che viaggia parallelo alle intime storie di David e Samantha appare, però, slegato e francamente poco convincente, dando tutta l'impressione d'essere un mero pretesto per lo sviluppo dell'intreccio (l'interesse dell'autrice è senza dubbio altrove e, questa volta, al cuore del racconto stanno unicamente i suoi personaggi). Raffazzonato e deludente è anche il finale che purtroppo non riesce a chiudere le storie personali dei protagonisti, lasciando un senso d’incompletezza che avrebbe potuto essere colmato dal seguito (il quale, con tutta probabilità, non arriverà mai dal momento che la rete pur avendo la possibilità di scegliere se finanziare Gray Matter 2, Anglophile Adventure o Moebius ha scelto quest'ultimo con larga maggioranza).

The Cat Lady
Nel 2012 viene pubblicata, quasi in sordina, un'avventura grafica che è riuscita come poche altre a conquistarsi lo status di "cult". Alludiamo all'indimenticabile The Cat Lady di Remigiusz Michalski che qualche anno prima (2009) si era fatto conoscere con l'interessante (per quanto in parte acerbo) Downfall.
Nel suo ultimo lavoro, l'autore polacco ci accompagna per mano nel devastato mondo di Susan Ashworth; con uno stile visivo folgorante ci racconta del tentato suicidio della quarantenne protagonista e della solitudine che si trasforma in depressione, insinuandosi subdola in giornate vuote, tra paure e sbalzi d'umore. Nonostante i toni cupi, The Cat Lady è anche una toccante storia d'amicizia tra due donne unite dal medesimo “male di vivere”, un dolore che affrontano con atteggiamenti diametralmente opposti. La raffinata scrittura di Michalski unisce tenerezza ad improvvise esplosioni di violenza, la speranza all'apatia. Il gioco degli Harvester Games è un kammerspiel dentro il quale irrompono timbri grotteschi da grand-guignol ed in cui lo spietato scavo psicologico delle opere di Bergman si combina alla brutalità stilizzata del cinema di Tarantino. Disturbante ma senza mai scadere nel sensazionalismo gratuito, il titolo dell'autore polacco finalizza ogni scelta ludica e narrativa al tratteggio del controverso ritratto d'una donna che ritrova la speranza e la voglia di vivere nella vendetta. Come in una versione distorta e malsana del dickensiano Canto di Natale, 5 killer faranno visita alla protagonista e, nell'omicidio, Susan ritroverà la forza per rialzarsi e combattere nonostante l'angoscia d'un passato che non può dimenticare.
Michalski prende le distanze dall'approccio dei Telltale Games, in The Cat Lady l'autore è, infatti, assoluto demiurgo. Il plot, magistralmente orchestrato attraverso flashback e flash forward, non offre bivi o "scelte morali" ma solidità e coerenza (senza quelle piccole sbavature che, inevitabilmente, per via delle complesse ramificazioni narrative, facevano qui e lì capolino in The Walking Dead). In attesa di vedere ultimati Broken Age e Kentucky Route Zero, quella realizzata da Remigiusz Michalski è, senza mezzi termini, la più importante avventura grafica dai tempi di Grim Fandango, mostrando una via autoriale alla scrittura dei videogiochi, consapevole della necessità d'esprime una visione personale sull'uomo e sulla vita, senza facili scorciatoie.

Cronistoria: Avventure Grafiche In questo nostro viaggio durato quattro speciali abbiamo cercato di dimostrare come l'avventura grafica non soltanto sia oggi viva e vegeta ma goda anzi d’ottima salute. Lo prova non tanto la cospicua pubblicazione di titoli dal sapore nostalgico quanto, soprattutto, la capacità che questo genere ha dimostrato nel mutare pelle e trovare nuove declinazioni a meccaniche ormai farraginose. In appoggio a questa tesi è sufficiente prestare attenzione a quanto in profondità i Telltale Games o i Cardboard Computer (con il loro strepitoso ma ancora incompleto Kentucky Route Zero) abbiano modificato la concezione dei tradizionali punta-e-clicca, così come Gone Home ed Ether One quella delle avventure in soggettiva. Ciò che possiamo augurare a questo glorioso genere è che i game designer sappiano fare tesoro delle considerazioni formulate da Ron Gilbert 25 anni fa nel già citato saggio "Why Adventure Games Suck": "There is nothing more frustrating than solving pointless puzzle after pointless puzzle. Each puzzle solved should bring the player closer to understanding the story and game". Se gli adventure non sono mai morti ciò è dovuto alla qualità delle storie che hanno saputo donarci. Sino a quando questo genere saprà raccontare della complessità umana ed a dirci qualcosa che sappia muovere profonde corde emotive esisterà sempre un pubblico pronto ad accogliere nuove avventure e, come il sultano Shahriyar de Le mille e una notte, a concedere loro salvezza in cambio di un'altra storia.