Il successo dei videogiochi FromSoftware ha portato alla nascita di diversi altri prodotti che si ispirano a loro. C'è chi ha iniziato a utilizzare il termine soulslike per definirli. Che cosa sia esattamente un soulslike, però, è rimasto un argomento di dibattito. Di seguito verranno prese due delle più strutturate considerazioni su cosa sia un soulslike, per mostrare i punti in comune e le differenze.
Prima, però, bisogna fare un passo indietro, ragionando sui generi videoludici (e non solo). È un passaggio necessario per comprendere diverse problematiche che emergono quando si ragiona con etichette come quelle di genere, soprattutto quando si parla di diciture emergenti, non consolidate nell'uso comune.
Per capire i soulslike bisogna conoscere Doom (e il western)
I generi hanno, da sempre, un insieme di aspettative legate alla loro etichetta. Si può prendere, come esempio, lo sparatutto in prima persona (FPS). Chi ha un minimo di familiarità con i videogiochi, nel sentire questa definizione, si aspetterà di trovarsi nella testa del personaggio e di vedere solo l'arma impugnata (e, al più, le mani), presente nel margine inferiore dello schermo.
Si aspetterà di utilizzare lo stick sinistro per muovere l'avatar e il destro per mirare (se gioca con un controller), oppure di utilizzare i tasti WASD per camminare e il mouse per spostare il puntatore e sparare. Si aspetterà la presenza di indicatori a schermo che evidenziano i punti vita e le munizioni in proprio possesso. Si aspetterà di vedere lo schermo illuminarsi di rosso (o un effetto analogo) quando si viene colpiti, e che possa suggerire la direzione da cui giungono gli attacchi. E avanti così. Non tutti i videogiochi etichettati come FPS contengono ciascun elemento fin qui indicato. Alcuni potrebbero presentare caratteristiche leggermente differenti. Nel complesso, però, l'orizzonte di aspettative sarebbe sicuramente questo. Si noti, peraltro, che non si è parlato di "tutti gli FPS" ma, appunto, di tutti quei videogiochi definiti come tali.
Perché i generi, soprattutto videoludici, non sono entità a priori che trovano una concretizzazione nei singoli titoli. Sono, semmai, delle etichette con cui i parlanti possono capirsi facilmente, e possono generare un orizzonte di attese dinnanzi a un nuovo videogioco.
Ora, la nozione di FPS non genera particolari perplessità, al giorno d'oggi, ma la sua nascita non è affatto scontata. Ed è utile sapere come questa etichetta si sia affermata, per comprendere il successivo discorso sui soulslike. Cercando informazioni sul primo FPS della storia emergono di solito due nomi: Maze War (1973) e Spasim (1974). Nessuno, però, negli anni '70, li avrebbe definiti degli FPS, perché non esisteva ancora una simile etichetta. E se anche qualcuno l'avesse usata, gli altri non lo avrebbero capito, in mancanza di quel bagaglio comune e condiviso di nozioni che sta alla base di un genere.
È un caso unico? No. Ci sono numerosi precedenti, anche esterni al medium videoludico. Un ottimo esempio viene fatto da Rick Altman nel suo libro Film/Genere, quando parla del western cinematografico. Come dice Altman, oggi si tende a considerare The Great Train Robbery (1903) di Edwin S. Porter il primo western della storia del cinema. Alla sua uscita, però, quel film non diede seguito a un filone di western, ma di crime movies, di storie di rapine, furti e ladri.
Perché era quello l'elemento preponderante che veniva percepito nel film. In seguito - prosegue Altman nel suo testo - The Great Train Robbery ottenne una nuova etichettatura di genere, ma non come western. Fu, infatti, inserito nel novero dei film di viaggio, e in particolar modo nel sottogenere railroad. Solo in un periodo ancor più tardo, quando il western cinematografico era ben strutturato e definito, guardando indietro nella storia del cinema si trovarono in questo film le prime tracce di quel genere. Anche con Maze War e Spasim c'è stata un'analoga attribuzione a posteriori. Come ha ben mostrato Dominic Arsenault in un suo articolo sui generi videoludici, il termine FPS ha iniziato ad affermarsi stabilmente solo tra la fine del 1997 e l'inizio del 1998. Prima di allora, per quei videogiochi, si parlava di Doom clones.
Erano i "cloni" di Doom, il popolarissimo titolo pubblicato nel 1993. Questo è un passaggio molto importante, perché potrebbe offrire una potenziale analogia con il discorso che, a breve, verrà fatto per i soulslike. Prima dell'avvento di Doom nessuno si era posto un problema classificatorio legato a quelli che sarebbero divenuti gli FPS. Eppure, senza andare troppo lontano, l'anno prima era stato pubblicato Wolfenstein 3D, dalla stessa id Software che si sarebbe poi dedicata a Doom. Perché, allora, non venivano chiamati Wolfenstein clones? Perché Doom ebbe più successo di Wolfenstein. Il suo esordio fece scuola, portò alla nascita di diversi altri videogiochi che ne riprendevano gli elementi di base. Il termine "clone", nel modo con cui lo utilizza Arsenault, non deve essere inteso in maniera dispregiativa. Identifica semplicemente una fase in cui non si è ancora formata una certa etichetta di genere, ma si riconoscono dei videogiochi che seguono la struttura di un altro prodotto di successo. Giunti al 1998, anno in cui uscirono peraltro due produzioni di altissimo livello (Unreal e Half-Life), il genere si era ormai strutturato.
E, guardando a posteriori la storia del medium, ci si mise a identificare tutti quei videogiochi usciti prima di Doom che avevano almeno alcune caratteristiche degli FPS. Fatte queste premesse, occorre ora provare a capire se i soulslike stiano effettivamente vivendo la fase dei Doom clones, che porterà alla nascita di un nuovo genere meglio definito, o se non siano presenti le basi per costruire un'etichettatura coerente.
Definire un soulslike con Joshua Bycer
Anche il termine soulslike genera un orizzonte di aspettative in chi lo ascolta, ma le risposte definitorie che fornirà saranno molto più differenziate. Per cui quel termine significa qualcosa, per le persone, ma non significa necessariamente la stessa cosa. E questo implica che, almeno per il momento, sarebbe difficile considerarlo un genere ben definito. Potrebbe, al più, diventarlo in futuro. Per muoversi in questa direzione si può partire da un libro di Joshua Bycer: Game Design Deep Dive: Roguelikes, pubblicato nel 2021. Come suggerisce il titolo, questo testo è un'analisi in profondità sul game design dei videogiochi etichettati come roguelike.
È già molto significativo, allora, che un libro del genere contenga un paragrafo dedicato a Demon's Souls e uno intitolato «"Soulslike" Design». I videogiochi FromSoftware (che, per brevità, si possono chiamare "i Souls") e i soulslike sarebbero allora, per l'autore, una declinazione o sottocategoria del genere roguelike. Questo era già stato indicato in un altro suo precedente libro, 20 Essential Games to Study (2019), in cui Demon's Souls viene definito un «Action Rogue-Like». La presenza della stamina separa il gioco dagli action, mentre l'assenza di elementi procedurali e casuali gli permette di prendere le distanze dal roguelike. Ecco perché Demon's Souls si collocherebbe nel mezzo, mantenendo dei legami con queste altre due etichette di genere, senza però che vi sia una piena adesione. Tra gli elementi sottolineati da Bycer c'è ovviamente la difficoltà. La morte è particolarmente punitiva, e questo è un elemento di parentela coi roguelike, ma la progressione nel gioco è differente. Uno dei principali elementi da gestire è la scelta di tornare indietro per mettere al sicuro le proprie anime (sapendo però che si dovranno affrontare di nuovo tutti i nemici sconfitti) o proseguire sperando di raggiungere una shortcut (o un falò, in Dark Souls).
La fissità degli ambienti e dei nemici sembrerebbe una facilitazione, rispetto ai roguelike, ma ogni scontro è potenzialmente mortale per un giocatore alle prime armi, per cui anche i mob generici possono essere un'ardua sfida (spesso più per il loro attento posizionamento che per le loro statistiche, come analizzato in altri filoni di indagine esterni ai testi di Bycer). Demon's Souls avrebbe segnato l'inizio di una svolta nel settore AAA, a proposito dell'approccio alla difficoltà.
Fino al suo avvento (e, ancor più, all'apprezzamento del successivo Dark Souls), molte grandi produzioni avevano abbassato la sfida media offerta dai propri prodotti, con la convinzione che non fosse più di interesse, per la maggior parte delle persone, dover affrontare prove estenuanti e complesse.
Restavano, ovviamente, i livelli di difficoltà più elevati, nei giochi in cui era possibile sceglierla, ma sono spesso modalità in cui i nemici infliggono semplicemente più danni e hanno più punti vita. Cosa che fanno anche i Souls, peraltro, con l'NG+, partendo però da una sfida che, di base, è superiore. Una sfida elevata, ma "onesta", salvo particolari e circostanziate eccezioni.
Di solito uno degli esempi fatti tra queste eccezioni è la Culla del Caos di Dark Souls. Un boss su cui la propria capacità di infliggere danni non impatta lo scontro, con componenti casuali che intervengono nella battaglia e con la necessità di compiere un salto (in un gioco dove si salta pochissimo). Tolte alcune eccezioni, però, la difficoltà è decisamente fair, per tornare alle parole di Bycer.
Fin qui si è rimasti a parlare dei Souls, e in particolare di Demon's Souls. Ora, riprendendo quanto si era detto in precedenza, quando un videogioco ha successo genera dei "cloni". A volte questi "cloni", col tempo, finiscono per produrre un'etichetta definita di genere. Come nel passaggio dai "cloni di Doom" agli FPS. In altri casi no. Grand Theft Auto 3 - considero questo perché è un altro degli esempi di Bycer - ha avuto un grandissimo successo e ha generato più di un "clone" (qui la recensione di GTA Trilogy Definitive Edition), ma non è emerso un genere definito. Con i soulslike, invece, questo dibattito ritorna costantemente.
Proseguendo con la posizione di Bycer - che, come detto, considera il soulslike un sottogenere o perlomeno un parente del roguelike - si possono osservare le caratteristiche che egli attribuisce a questa etichetta. Bycer ragiona principalmente per differenze. I roguelike richiedono circa 30-60 minuti per portare a termine una "run", che verrà ripetuta più e più volte prima di arrivare alla conclusione (e anche in seguito, di solito, per sbloccare ulteriori personaggi, oggetti, finali ecc.).
Un soulslike dura diverse ore e ha una progressione differente, in cui calcolare quando spingersi in avanti e quando tornare sui propri passi. I soulslike sono generalmente open world, i roguelike tendenzialmente non lo sono. Su questo punto bisogna capirsi, perché c'è una questione terminologica da chiarire. C'è chi ha indicato - anche giustamente, per certi aspetti - Elden Ring come il primo Souls open world. Ma, prendendo un'altra definizione del concetto di open world (quella che segue anche Bycer), anche i tre Dark Souls, Bloodborne e Sekiro sono open world, poiché presentano mondi aperti, non suddivisi in livelli a compartimenti stagni. L'unica parziale eccezione nella produzione FromSoftware è proprio Demon's Souls, che presenta comunque delle macroaree piuttosto ampie, sebbene nettamente separate tra di loro. Questa non è una precisazione banale, ma offre un ulteriore esempio dei problemi che si hanno a fare quando si ragiona sulle etichette. E i ragionamenti sui soulslike sono in larghissima misura discussioni sulle proprietà da dare a una certa etichetta.
Ancora, Bycer insiste sull'importanza, per un soulslike, di un attento lavoro architettonico e spaziale: «The design is not about building mazes but attempting to combine a plausible environment with challenging level design» (Game Design Deep Dive: Roguelikes, p. 60). L'architettura e il level design sono effettivamente fondamentali, all'interno dei Souls. Per scrupolo di sintesi, in questa sede ci si può limitare a ricordare la necessità di trovare spazi che siano al tempo stesso credibili e sfidanti. Il Palazzo di Boletaria rimane in questo senso un ottimo esempio positivo: una struttura relativamente coerente, in termini spaziali, con la funzione che quell'edificio va idealmente ad assolvere, ma che al tempo stesso offre una sfida esplorativa di alto livello.
Anche qui, ovviamente ci sono alcuni momenti in cui tutto ciò viene meno. Il Castello di Drangleic di Dark Souls II, per esempio, è interessante a livello di sfida ma molto poco credibile in ottica di funzionalità (banalmente, perché ci sono delle trappole nei passaggi che conducono agli appartamenti dei sovrani?), oltre a essere decisamente spoglio. Vale, però, il principio di fondo: un soulslike privo di questo bilanciamento tra level design e architettura non può definirsi effettivamente tale.
Bycer cita poi la persistence. Gli oggetti ottenuti rimangono. I parametri migliorati rimangono. Si possono perdere le anime (o qualsiasi altra risorsa equivalente) non investite, ma molte altre cose in nostro possesso non spariscono con la morte (e rimangono anche nell'NG+). Anche questa è una differenza coi roguelike, dove la persistence riguarda, generalmente, molti meno aspetti: ci sono parametri potenziabili che restano nel tempo, ma la maggior parte di ciò che si ottiene in una run viene perso nella successiva. Ultimo, ma non per importanza, è l'approccio alla narrazione presente nei Souls. Un approccio che Bycer definisce hands-off.
Lore e backstory sono ampie e dettagliate, ma il videogioco non si interrompe mai per spiegarle al giocatore. Scoprirle è una scelta voluta da parte di chi gioca. Bisogna mettersi, con calma e pazienza, ad analizzare tutti gli indizi sparsi per il mondo, al fine di poter ricostruire un mosaico. Aggiungo che anche questa è una forma di difficoltà. Altrove l'ho definita una "difficoltà ermeneutica", che ha offerto una sfida positiva in cui un gran numero di persone hanno partecipato a una sorta di grande gioco interpretativo, in cui cercare di costruire la più completa, coerente e interessante versione della storia. E questo aspetto, per tornare a Bycer, dovrebbe essere presente almeno in forma embrionale in un soulslike. Altrimenti sarebbe qualcosa di differente.
Definire un soulslike con Tibor Guzsvinecz
In un suo contributo accademico, Tibor Guzsvinecz ha analizzato le recensioni e le meccaniche predilette nei soulslike. Ciò significa, ovviamente, andare a definire che cosa sia un soulslike, per motivare le scelte compiute sui videogiochi selezionati per l'indagine. Guzsvinecz cita due elementi di base: «unforgiving difficulty» ed «environmental/contextual storytelling».
Partendo dal primo punto, Guzsvinecz esordisce citando il noto concetto del flow di Mihály Csíkszentmihályi. Nel medium videoludico, il flow è quella condizione ottimale in cui la sfida offerta è sempre un po' più alta dell'abilità di chi gioca. In questo modo ci si trova in una sorta di stato di grazia, in cui si è totalmente focalizzati sull'esperienza, evitando da un lato la noia (quando la nostra abilità cresce troppo in fretta rispetto alla sfida) e dall'altro l'ansia o la frustrazione (quando la sfida cresce troppo in fretta rispetto alla nostra abilità).
Come sottolinea Guzvienecz, i soulslike sono «more about perseverance than are about Flow» (p. 4645). Costituiscono, in tal senso, un'eccezione? Dipende. Bycer ha indicato la loro difficoltà come elevata ma equa. Questo è in opposizione all'unforgiving di cui parla Guzsvinecz? Vediamo come quest'ultimo va a suddividere la questione della difficoltà. Sono citati tre sottopunti, in merito: il combattimento, il sistema di checkpoint coi falò e il level design. A proposito del combattimento viene elencata la prevalenza del corpo a corpo, la stamina e la possibilità di utilizzare multiple strategie e, spesso, evocare alleati almeno in certe situazioni (di solito prima di un boss).
Questi ultimi elementi andrebbero a ribilanciare la sfida: ci sono strategie migliori di altre, e per alcuni sceglierle significa quasi barare. Come la scelta di una certa classe iniziale, o di una particolare build. Proseguendo, il sistema di checkpoint coi falò è per Guzsvinecz la parte più importante dei cosiddetti soulslike. È il sistema che ha a che fare con il respawn dei nemici, con l'investimento o la perdita delle proprie anime, con la distanza da percorrere e con la scelta di ritornare sui propri passi o proseguire. Il sistema è unforgiving? Rende questi giochi troppo difficili? Di nuovo, dipende. Alcuni videogiochi di FromSoftware, al fianco di vari soulslike, sono stati proprio criticati per un eccesso di falò (o di qualsiasi loro equivalente). Per cui è possibile esplorare senza paura, con la consapevolezza che emergerà in tempo breve un checkpoint. Un caso come Demon's Souls è molto diverso, visto che è possibile raggiungere un checkpoint solo dopo aver sconfitto un boss. Al massimo, quel che si può qui sperare, è di sbloccare uno shortcut che possa far tagliare parte della strada.
Sul level design, Guzsvinecz presenta diverse variabili, tra cui i cosiddetti «Souls-like Metroidvania» in presenza di videogiochi 2D con un open world interconnesso. Ora, va anche detto che - nuovamente - in base alla definizione fornita, non ci sarebbe un assoluto accordo sulla componente metroidvania che cita. Perché per alcuni non basta avere un mondo 2D con aree progressivamente sbloccabili per parlare di metroidvania. Sulla difficoltà, comunque, non viene detto molto in relazione al level design, se non che il mondo di gioco è solitamente difficile da conoscere, nella sua struttura generale.
Viene citato come esempio l'inizio di Dark Souls, quando viene detto che bisogna suonare due campane in due punti differenti, e nient'altro. Lo spaesamento sulla direzione da seguire è effettivamente un punto ricorrente nei Souls, ma è una caratteristica fondante dei soulslike? Alcuni videogiochi che hanno quest'etichetta sono molto più chiari e precisi, nell'indicare la direzione da seguire. Non necessariamente con mappe e indicatori a schermo, ma offrono comunque obiettivi più espliciti e maggiori suggerimenti. Al fianco della difficoltà, l'altro elemento citato da Guzsvinecz è l'environmental/contextual storytelling. Il primo si verifica quando l'ambiente stesso rivela informazioni narrative. I Souls sono effettivamente pieni di paesaggi "parlanti", che devono essere osservati con attenzione per cogliere importanti dettagli sulla lore e sul passato di quei mondi. Il contextual storytelling trova un'ottima esemplificazione nelle descrizioni degli oggetti. Anch'esse sono ricche di elementi fondamentali per comprendere il mondo di gioco. Elementi che, senza lo studio di questi oggetti, non sarebbe possibile conoscere, visto che non sono indicati da nessun'altra parte.
Ora, tutti i videogiochi etichettati come soulslike contengono environmental e contextual storytelling? Non sempre. Probabilmente anche perché è una delle componenti più iconiche, ma anche più difficili da replicare in modo funzionale, dei prodotti di FromSoftware. In molti casi ci si limita a una generale vaghezza di fondo, che però non è la stessa cosa. Bisognerebbe allora escludere diversi videogiochi dal novero dei soulslike? Bisognerebbe trovare una nuova etichetta? Volendo partire da qui per trarre le conclusioni, anche solo da queste due definizioni - che sono alcune delle più complete e ragionate - non emerge una direzione così precisa.
Le posizioni di Guzsvinecz e di Bycer sono in accordo su alcuni punti, ma non su altri aspetti. E prendendo in considerazione ulteriori definizioni si introdurrebbero ulteriori differenze. Esistono, è ovvio, dei videogiochi che si ispirano ai Souls. Probabilmente, però, è ancora prematuro dar loro un'etichetta di genere che sia ben definita (qui invece lo speciale sulle regole della difficoltà di Elden Ring e God of War Ragnarok).
Perché in quel termine, soulslike, diverse persone ritrovano cose differenti. Per cui si arriva spesso alla tautologia: un soulslike è un videogioco che viene etichettato come tale. Se volete, lasciate un commento con la vostra definizione di soulslike, come ulteriore esperimento. Probabilmente usciranno diverse considerazioni, diversi focus.
Che cosa sono i Soulslike e il problema delle definizioni dei generi
Che cosa si intende esattamente per Soulslike? Come per gli FPS, non basta una parola per descrivere un genere piuttosto sfaccettato.
Il successo dei videogiochi FromSoftware ha portato alla nascita di diversi altri prodotti che si ispirano a loro. C'è chi ha iniziato a utilizzare il termine soulslike per definirli. Che cosa sia esattamente un soulslike, però, è rimasto un argomento di dibattito. Di seguito verranno prese due delle più strutturate considerazioni su cosa sia un soulslike, per mostrare i punti in comune e le differenze.
Prima, però, bisogna fare un passo indietro, ragionando sui generi videoludici (e non solo). È un passaggio necessario per comprendere diverse problematiche che emergono quando si ragiona con etichette come quelle di genere, soprattutto quando si parla di diciture emergenti, non consolidate nell'uso comune.
Per capire i soulslike bisogna conoscere Doom (e il western)
I generi hanno, da sempre, un insieme di aspettative legate alla loro etichetta. Si può prendere, come esempio, lo sparatutto in prima persona (FPS). Chi ha un minimo di familiarità con i videogiochi, nel sentire questa definizione, si aspetterà di trovarsi nella testa del personaggio e di vedere solo l'arma impugnata (e, al più, le mani), presente nel margine inferiore dello schermo.
Si aspetterà di utilizzare lo stick sinistro per muovere l'avatar e il destro per mirare (se gioca con un controller), oppure di utilizzare i tasti WASD per camminare e il mouse per spostare il puntatore e sparare. Si aspetterà la presenza di indicatori a schermo che evidenziano i punti vita e le munizioni in proprio possesso. Si aspetterà di vedere lo schermo illuminarsi di rosso (o un effetto analogo) quando si viene colpiti, e che possa suggerire la direzione da cui giungono gli attacchi. E avanti così. Non tutti i videogiochi etichettati come FPS contengono ciascun elemento fin qui indicato. Alcuni potrebbero presentare caratteristiche leggermente differenti. Nel complesso, però, l'orizzonte di aspettative sarebbe sicuramente questo. Si noti, peraltro, che non si è parlato di "tutti gli FPS" ma, appunto, di tutti quei videogiochi definiti come tali.
Perché i generi, soprattutto videoludici, non sono entità a priori che trovano una concretizzazione nei singoli titoli. Sono, semmai, delle etichette con cui i parlanti possono capirsi facilmente, e possono generare un orizzonte di attese dinnanzi a un nuovo videogioco.
Ora, la nozione di FPS non genera particolari perplessità, al giorno d'oggi, ma la sua nascita non è affatto scontata. Ed è utile sapere come questa etichetta si sia affermata, per comprendere il successivo discorso sui soulslike. Cercando informazioni sul primo FPS della storia emergono di solito due nomi: Maze War (1973) e Spasim (1974). Nessuno, però, negli anni '70, li avrebbe definiti degli FPS, perché non esisteva ancora una simile etichetta. E se anche qualcuno l'avesse usata, gli altri non lo avrebbero capito, in mancanza di quel bagaglio comune e condiviso di nozioni che sta alla base di un genere.
È un caso unico? No. Ci sono numerosi precedenti, anche esterni al medium videoludico. Un ottimo esempio viene fatto da Rick Altman nel suo libro Film/Genere, quando parla del western cinematografico. Come dice Altman, oggi si tende a considerare The Great Train Robbery (1903) di Edwin S. Porter il primo western della storia del cinema. Alla sua uscita, però, quel film non diede seguito a un filone di western, ma di crime movies, di storie di rapine, furti e ladri.
Perché era quello l'elemento preponderante che veniva percepito nel film. In seguito - prosegue Altman nel suo testo - The Great Train Robbery ottenne una nuova etichettatura di genere, ma non come western. Fu, infatti, inserito nel novero dei film di viaggio, e in particolar modo nel sottogenere railroad. Solo in un periodo ancor più tardo, quando il western cinematografico era ben strutturato e definito, guardando indietro nella storia del cinema si trovarono in questo film le prime tracce di quel genere. Anche con Maze War e Spasim c'è stata un'analoga attribuzione a posteriori. Come ha ben mostrato Dominic Arsenault in un suo articolo sui generi videoludici, il termine FPS ha iniziato ad affermarsi stabilmente solo tra la fine del 1997 e l'inizio del 1998. Prima di allora, per quei videogiochi, si parlava di Doom clones.
Erano i "cloni" di Doom, il popolarissimo titolo pubblicato nel 1993. Questo è un passaggio molto importante, perché potrebbe offrire una potenziale analogia con il discorso che, a breve, verrà fatto per i soulslike. Prima dell'avvento di Doom nessuno si era posto un problema classificatorio legato a quelli che sarebbero divenuti gli FPS. Eppure, senza andare troppo lontano, l'anno prima era stato pubblicato Wolfenstein 3D, dalla stessa id Software che si sarebbe poi dedicata a Doom. Perché, allora, non venivano chiamati Wolfenstein clones? Perché Doom ebbe più successo di Wolfenstein. Il suo esordio fece scuola, portò alla nascita di diversi altri videogiochi che ne riprendevano gli elementi di base. Il termine "clone", nel modo con cui lo utilizza Arsenault, non deve essere inteso in maniera dispregiativa. Identifica semplicemente una fase in cui non si è ancora formata una certa etichetta di genere, ma si riconoscono dei videogiochi che seguono la struttura di un altro prodotto di successo. Giunti al 1998, anno in cui uscirono peraltro due produzioni di altissimo livello (Unreal e Half-Life), il genere si era ormai strutturato.
E, guardando a posteriori la storia del medium, ci si mise a identificare tutti quei videogiochi usciti prima di Doom che avevano almeno alcune caratteristiche degli FPS. Fatte queste premesse, occorre ora provare a capire se i soulslike stiano effettivamente vivendo la fase dei Doom clones, che porterà alla nascita di un nuovo genere meglio definito, o se non siano presenti le basi per costruire un'etichettatura coerente.
Definire un soulslike con Joshua Bycer
Anche il termine soulslike genera un orizzonte di aspettative in chi lo ascolta, ma le risposte definitorie che fornirà saranno molto più differenziate. Per cui quel termine significa qualcosa, per le persone, ma non significa necessariamente la stessa cosa. E questo implica che, almeno per il momento, sarebbe difficile considerarlo un genere ben definito. Potrebbe, al più, diventarlo in futuro. Per muoversi in questa direzione si può partire da un libro di Joshua Bycer: Game Design Deep Dive: Roguelikes, pubblicato nel 2021. Come suggerisce il titolo, questo testo è un'analisi in profondità sul game design dei videogiochi etichettati come roguelike.
È già molto significativo, allora, che un libro del genere contenga un paragrafo dedicato a Demon's Souls e uno intitolato «"Soulslike" Design». I videogiochi FromSoftware (che, per brevità, si possono chiamare "i Souls") e i soulslike sarebbero allora, per l'autore, una declinazione o sottocategoria del genere roguelike. Questo era già stato indicato in un altro suo precedente libro, 20 Essential Games to Study (2019), in cui Demon's Souls viene definito un «Action Rogue-Like». La presenza della stamina separa il gioco dagli action, mentre l'assenza di elementi procedurali e casuali gli permette di prendere le distanze dal roguelike. Ecco perché Demon's Souls si collocherebbe nel mezzo, mantenendo dei legami con queste altre due etichette di genere, senza però che vi sia una piena adesione. Tra gli elementi sottolineati da Bycer c'è ovviamente la difficoltà. La morte è particolarmente punitiva, e questo è un elemento di parentela coi roguelike, ma la progressione nel gioco è differente. Uno dei principali elementi da gestire è la scelta di tornare indietro per mettere al sicuro le proprie anime (sapendo però che si dovranno affrontare di nuovo tutti i nemici sconfitti) o proseguire sperando di raggiungere una shortcut (o un falò, in Dark Souls).
La fissità degli ambienti e dei nemici sembrerebbe una facilitazione, rispetto ai roguelike, ma ogni scontro è potenzialmente mortale per un giocatore alle prime armi, per cui anche i mob generici possono essere un'ardua sfida (spesso più per il loro attento posizionamento che per le loro statistiche, come analizzato in altri filoni di indagine esterni ai testi di Bycer). Demon's Souls avrebbe segnato l'inizio di una svolta nel settore AAA, a proposito dell'approccio alla difficoltà.
Fino al suo avvento (e, ancor più, all'apprezzamento del successivo Dark Souls), molte grandi produzioni avevano abbassato la sfida media offerta dai propri prodotti, con la convinzione che non fosse più di interesse, per la maggior parte delle persone, dover affrontare prove estenuanti e complesse.
Restavano, ovviamente, i livelli di difficoltà più elevati, nei giochi in cui era possibile sceglierla, ma sono spesso modalità in cui i nemici infliggono semplicemente più danni e hanno più punti vita. Cosa che fanno anche i Souls, peraltro, con l'NG+, partendo però da una sfida che, di base, è superiore. Una sfida elevata, ma "onesta", salvo particolari e circostanziate eccezioni.
Di solito uno degli esempi fatti tra queste eccezioni è la Culla del Caos di Dark Souls. Un boss su cui la propria capacità di infliggere danni non impatta lo scontro, con componenti casuali che intervengono nella battaglia e con la necessità di compiere un salto (in un gioco dove si salta pochissimo). Tolte alcune eccezioni, però, la difficoltà è decisamente fair, per tornare alle parole di Bycer.
Fin qui si è rimasti a parlare dei Souls, e in particolare di Demon's Souls. Ora, riprendendo quanto si era detto in precedenza, quando un videogioco ha successo genera dei "cloni". A volte questi "cloni", col tempo, finiscono per produrre un'etichetta definita di genere. Come nel passaggio dai "cloni di Doom" agli FPS. In altri casi no. Grand Theft Auto 3 - considero questo perché è un altro degli esempi di Bycer - ha avuto un grandissimo successo e ha generato più di un "clone" (qui la recensione di GTA Trilogy Definitive Edition), ma non è emerso un genere definito. Con i soulslike, invece, questo dibattito ritorna costantemente.
Proseguendo con la posizione di Bycer - che, come detto, considera il soulslike un sottogenere o perlomeno un parente del roguelike - si possono osservare le caratteristiche che egli attribuisce a questa etichetta. Bycer ragiona principalmente per differenze. I roguelike richiedono circa 30-60 minuti per portare a termine una "run", che verrà ripetuta più e più volte prima di arrivare alla conclusione (e anche in seguito, di solito, per sbloccare ulteriori personaggi, oggetti, finali ecc.).
Un soulslike dura diverse ore e ha una progressione differente, in cui calcolare quando spingersi in avanti e quando tornare sui propri passi. I soulslike sono generalmente open world, i roguelike tendenzialmente non lo sono. Su questo punto bisogna capirsi, perché c'è una questione terminologica da chiarire. C'è chi ha indicato - anche giustamente, per certi aspetti - Elden Ring come il primo Souls open world. Ma, prendendo un'altra definizione del concetto di open world (quella che segue anche Bycer), anche i tre Dark Souls, Bloodborne e Sekiro sono open world, poiché presentano mondi aperti, non suddivisi in livelli a compartimenti stagni. L'unica parziale eccezione nella produzione FromSoftware è proprio Demon's Souls, che presenta comunque delle macroaree piuttosto ampie, sebbene nettamente separate tra di loro. Questa non è una precisazione banale, ma offre un ulteriore esempio dei problemi che si hanno a fare quando si ragiona sulle etichette. E i ragionamenti sui soulslike sono in larghissima misura discussioni sulle proprietà da dare a una certa etichetta.
Ancora, Bycer insiste sull'importanza, per un soulslike, di un attento lavoro architettonico e spaziale: «The design is not about building mazes but attempting to combine a plausible environment with challenging level design» (Game Design Deep Dive: Roguelikes, p. 60). L'architettura e il level design sono effettivamente fondamentali, all'interno dei Souls. Per scrupolo di sintesi, in questa sede ci si può limitare a ricordare la necessità di trovare spazi che siano al tempo stesso credibili e sfidanti. Il Palazzo di Boletaria rimane in questo senso un ottimo esempio positivo: una struttura relativamente coerente, in termini spaziali, con la funzione che quell'edificio va idealmente ad assolvere, ma che al tempo stesso offre una sfida esplorativa di alto livello.
Anche qui, ovviamente ci sono alcuni momenti in cui tutto ciò viene meno. Il Castello di Drangleic di Dark Souls II, per esempio, è interessante a livello di sfida ma molto poco credibile in ottica di funzionalità (banalmente, perché ci sono delle trappole nei passaggi che conducono agli appartamenti dei sovrani?), oltre a essere decisamente spoglio. Vale, però, il principio di fondo: un soulslike privo di questo bilanciamento tra level design e architettura non può definirsi effettivamente tale.
Bycer cita poi la persistence. Gli oggetti ottenuti rimangono. I parametri migliorati rimangono. Si possono perdere le anime (o qualsiasi altra risorsa equivalente) non investite, ma molte altre cose in nostro possesso non spariscono con la morte (e rimangono anche nell'NG+). Anche questa è una differenza coi roguelike, dove la persistence riguarda, generalmente, molti meno aspetti: ci sono parametri potenziabili che restano nel tempo, ma la maggior parte di ciò che si ottiene in una run viene perso nella successiva. Ultimo, ma non per importanza, è l'approccio alla narrazione presente nei Souls. Un approccio che Bycer definisce hands-off.
Lore e backstory sono ampie e dettagliate, ma il videogioco non si interrompe mai per spiegarle al giocatore. Scoprirle è una scelta voluta da parte di chi gioca. Bisogna mettersi, con calma e pazienza, ad analizzare tutti gli indizi sparsi per il mondo, al fine di poter ricostruire un mosaico. Aggiungo che anche questa è una forma di difficoltà. Altrove l'ho definita una "difficoltà ermeneutica", che ha offerto una sfida positiva in cui un gran numero di persone hanno partecipato a una sorta di grande gioco interpretativo, in cui cercare di costruire la più completa, coerente e interessante versione della storia. E questo aspetto, per tornare a Bycer, dovrebbe essere presente almeno in forma embrionale in un soulslike. Altrimenti sarebbe qualcosa di differente.
Definire un soulslike con Tibor Guzsvinecz
In un suo contributo accademico, Tibor Guzsvinecz ha analizzato le recensioni e le meccaniche predilette nei soulslike. Ciò significa, ovviamente, andare a definire che cosa sia un soulslike, per motivare le scelte compiute sui videogiochi selezionati per l'indagine. Guzsvinecz cita due elementi di base: «unforgiving difficulty» ed «environmental/contextual storytelling».
Partendo dal primo punto, Guzsvinecz esordisce citando il noto concetto del flow di Mihály Csíkszentmihályi. Nel medium videoludico, il flow è quella condizione ottimale in cui la sfida offerta è sempre un po' più alta dell'abilità di chi gioca. In questo modo ci si trova in una sorta di stato di grazia, in cui si è totalmente focalizzati sull'esperienza, evitando da un lato la noia (quando la nostra abilità cresce troppo in fretta rispetto alla sfida) e dall'altro l'ansia o la frustrazione (quando la sfida cresce troppo in fretta rispetto alla nostra abilità).
Come sottolinea Guzvienecz, i soulslike sono «more about perseverance than are about Flow» (p. 4645). Costituiscono, in tal senso, un'eccezione? Dipende. Bycer ha indicato la loro difficoltà come elevata ma equa. Questo è in opposizione all'unforgiving di cui parla Guzsvinecz? Vediamo come quest'ultimo va a suddividere la questione della difficoltà. Sono citati tre sottopunti, in merito: il combattimento, il sistema di checkpoint coi falò e il level design. A proposito del combattimento viene elencata la prevalenza del corpo a corpo, la stamina e la possibilità di utilizzare multiple strategie e, spesso, evocare alleati almeno in certe situazioni (di solito prima di un boss).
Questi ultimi elementi andrebbero a ribilanciare la sfida: ci sono strategie migliori di altre, e per alcuni sceglierle significa quasi barare. Come la scelta di una certa classe iniziale, o di una particolare build. Proseguendo, il sistema di checkpoint coi falò è per Guzsvinecz la parte più importante dei cosiddetti soulslike. È il sistema che ha a che fare con il respawn dei nemici, con l'investimento o la perdita delle proprie anime, con la distanza da percorrere e con la scelta di ritornare sui propri passi o proseguire. Il sistema è unforgiving? Rende questi giochi troppo difficili? Di nuovo, dipende. Alcuni videogiochi di FromSoftware, al fianco di vari soulslike, sono stati proprio criticati per un eccesso di falò (o di qualsiasi loro equivalente). Per cui è possibile esplorare senza paura, con la consapevolezza che emergerà in tempo breve un checkpoint. Un caso come Demon's Souls è molto diverso, visto che è possibile raggiungere un checkpoint solo dopo aver sconfitto un boss. Al massimo, quel che si può qui sperare, è di sbloccare uno shortcut che possa far tagliare parte della strada.
Sul level design, Guzsvinecz presenta diverse variabili, tra cui i cosiddetti «Souls-like Metroidvania» in presenza di videogiochi 2D con un open world interconnesso. Ora, va anche detto che - nuovamente - in base alla definizione fornita, non ci sarebbe un assoluto accordo sulla componente metroidvania che cita. Perché per alcuni non basta avere un mondo 2D con aree progressivamente sbloccabili per parlare di metroidvania. Sulla difficoltà, comunque, non viene detto molto in relazione al level design, se non che il mondo di gioco è solitamente difficile da conoscere, nella sua struttura generale.
Viene citato come esempio l'inizio di Dark Souls, quando viene detto che bisogna suonare due campane in due punti differenti, e nient'altro. Lo spaesamento sulla direzione da seguire è effettivamente un punto ricorrente nei Souls, ma è una caratteristica fondante dei soulslike? Alcuni videogiochi che hanno quest'etichetta sono molto più chiari e precisi, nell'indicare la direzione da seguire. Non necessariamente con mappe e indicatori a schermo, ma offrono comunque obiettivi più espliciti e maggiori suggerimenti. Al fianco della difficoltà, l'altro elemento citato da Guzsvinecz è l'environmental/contextual storytelling. Il primo si verifica quando l'ambiente stesso rivela informazioni narrative. I Souls sono effettivamente pieni di paesaggi "parlanti", che devono essere osservati con attenzione per cogliere importanti dettagli sulla lore e sul passato di quei mondi. Il contextual storytelling trova un'ottima esemplificazione nelle descrizioni degli oggetti. Anch'esse sono ricche di elementi fondamentali per comprendere il mondo di gioco. Elementi che, senza lo studio di questi oggetti, non sarebbe possibile conoscere, visto che non sono indicati da nessun'altra parte.
Ora, tutti i videogiochi etichettati come soulslike contengono environmental e contextual storytelling? Non sempre. Probabilmente anche perché è una delle componenti più iconiche, ma anche più difficili da replicare in modo funzionale, dei prodotti di FromSoftware. In molti casi ci si limita a una generale vaghezza di fondo, che però non è la stessa cosa. Bisognerebbe allora escludere diversi videogiochi dal novero dei soulslike? Bisognerebbe trovare una nuova etichetta? Volendo partire da qui per trarre le conclusioni, anche solo da queste due definizioni - che sono alcune delle più complete e ragionate - non emerge una direzione così precisa.
Le posizioni di Guzsvinecz e di Bycer sono in accordo su alcuni punti, ma non su altri aspetti. E prendendo in considerazione ulteriori definizioni si introdurrebbero ulteriori differenze. Esistono, è ovvio, dei videogiochi che si ispirano ai Souls. Probabilmente, però, è ancora prematuro dar loro un'etichetta di genere che sia ben definita (qui invece lo speciale sulle regole della difficoltà di Elden Ring e God of War Ragnarok).
Perché in quel termine, soulslike, diverse persone ritrovano cose differenti. Per cui si arriva spesso alla tautologia: un soulslike è un videogioco che viene etichettato come tale. Se volete, lasciate un commento con la vostra definizione di soulslike, come ulteriore esperimento. Probabilmente usciranno diverse considerazioni, diversi focus.
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