Diario di una quarantena indie: 5 giochi per l'isolamento

Come passare il tempo in quarantena? Con una selezione di giochi indipendenti di grande impatto, tutti da (ri)scoprire.

Diario di una quarantena indie: 5 giochi per l'isolamento
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"Come affrontare l'isolamento?", mi sono chiesto di fronte alla prospettiva di restare confinato in casa proprio durante le feste: lontano dagli amici e dalla mondanità natalizia, lontano dalle dirette e dal lavoro. Dal punto di vista ludico - tralasciando quindi letture e "proiezioni" in streaming - il primo approccio che mi è venuto in mente è stato quello di scegliere un mondo virtuale in cui perdermi del tutto. Magari un grande open world da scandagliare minuziosamente, uno spazio ludico da "esaurire" con metodo, affrontando attività secondarie e occasionali fino a diventare un tutt'uno con l'ambientazione; respirando bit e linee di codice, intrecciando profondissimi rapporti digitali con ogni personaggio ausiliario o marginale o addirittura superfluo.

Ci sono però pochissimi universi che riescono a trattenermi così a fondo, ad innescare quel desiderio di non volerli più abbandonare. In questa generazione ce l'hanno fatta solo Breath of the Wild, il secondo Red Dead Redemption e Cyberpunk 2077. Tra le vene frastagliate di Night City mi sono abbandonato esattamente un anno fa, ammaliato dalle architetture cibernetiche e dall'estetica votata al culto dell'apparire. Forse stavolta mi serve qualcos'altro... un gioco puro, matematico, combinatorio: un roguelike in cui ogni partita è uguale e diversa, un generatore infinito di storie e situazioni, di vittorie esaltanti e inevitabili sconfitte. Un gioco che non inizia né finisce ma cambia, vive, si evolve; un gioco da cui ci si può allontanare dopo un attimo oppure dopo settimane, da abbandonare e riprendere a piacimento. Del resto chissà quanto dovrò stare chiuso, chissà se il tempo scorrerà agilmente oppure se i giorni mi appariranno tutti uguali, un continuo andirivieni tra la sveglia e il game over.

No, neppure quest'idea mi piace, forse perché di roguelike (anche "ammorbiditi") ne ho giocati tanti quest'anno, da Returnal fino a Loop Hero. E allora sai cosa si potrebbe fare? Giocare ogni giorno a un gioco nuovo, scegliere solo prodotti "misurati" che si possano finire nell'arco di un pomeriggio. Piccole storie che emergono dal panorama Indie, racconti infinitesimali eppure poderosi, in grado di scuotere l'animo e sconquassare il cuore. Punto tutto sulla diversità, sull'eclettismo, in una rapsodia videoludica che duri fino al prossimo tampone.

Giorno 1: Impostor Factory

Kan Gao l'ha fatto di nuovo: ha scritto una storia toccante e delicata (come testimoniato nella nostra recensione di Impostor Factory) e l'ha messa in scena con pochi strumenti, fedele a quell'estetica che affonda le sue radici nell'indimenticabile RPG Maker. Non saprei come definire esattamente questo tipo di Pixel Art; non è certo "primordiale" come quella a 8bit, ed è tutt'altro che "essenziale" perché non lavora per sottrazione: anzi tende ormai a moltiplicare i dettagli, le sfumature, ad affinare il lavoro sulle animazioni.

La si potrebbe quasi paragonare ad un pezzo d'antiquariato, sofisticato anche se evidentemente antico, forse persino superato. Freebird Games sceglie tra l'altro una vecchia versione del software per dare uniformità visiva alle sue produzioni; eppure ogni volta riesce ad aggiungere un tocco in più, un vezzo stilistico che fa percepire in qualche modo il senso di crescita e maturazione creativa del team. Tutte le volte che metto gli occhi sulle opere di Kan Gao, per altro, mi ricordo di quella stagione mitologica in cui il tool arrivò sul mercato. La versione che davvero riuscì a fare breccia fu quella del 2000; io avevo sedici anni e tanto tempo a disposizione, e mentre provavo a mettere nero su bianco i miei pensieri sui videogiochi avevo cominciato a costruire anche una piccola avventura fantasy. Volevo che fosse piena di personaggi opzionali, reclutabili a piacimento e a seconda della propria disposizione etica. Ovviamente il progetto non è durato che qualche settimana, come tutti i tentativi dei miei compagni dell'epoca di costruire un picchiaduro con il MUGEN, altro software che ha scritto un pezzo di storia dei videogiochi nati "dal basso". A quei tempi, nelle neonate community della rete, serpeggiava davvero l'idea che il mercato potesse essere invaso da una serie di produzioni "popolari", costruite dagli utenti, basate su idee più genuine rispetto a quelle dell'industria mainstream. Fu davvero una bellissima illusione.

Ma torniamo a Kan Gao. To The Moon è uscito nel 2011 ed è stato uno dei pochi giochi che mi ha fatto piangere. Letteralmente, non è un'iperbole. C'è un momento specifico in cui senti un nodo alla gola e non riesci più a deglutire, un momento talmente forte che pure mentre scrivo queste righe gli occhi si inumidiscono un po'. Appena appena, stavolta niente lacrime. Ma insomma To The Moon lo dovete giocare tutti, anche perché poi il progetto si è evoluto, è cresciuto, e Freebird Games ha costruito tutta una mitologia attorno ai dipendenti della Sigmund Corporation, di fatto lavorando ad una cornice in cui collocare racconti di volta in volta diversi.

Impostor Factory è una bestia un po' strana: elimina del tutto la componente ludica, che in To The Moon era appena più percepibile (almeno per quanto mi ricordi adesso, sono passati così tanti anni...). Più che giocare, insomma, Impostor Factory si guarda, attraversando un corridoio in cui sono esposti i momenti salienti di una vita. Quest'idea dell'esistenza intesa quasi come una lunga corsia da percorrere mi ha ricordato molto The Passage, un gioco sperimentale che - fortunatamente - ancora si annida nei meandri di internet. Dura cinque minuti, ed è probabilmente una delle più lucide e sintetiche rappresentazioni digitali della vita umana.

In verità, arrivati alla fine di Impostor Factory si scopre però che Kan Gao non vuole ragionare sul senso della vita, ma semmai su quello delle scelte e dei rimpianti, sul sacrificio e sulla realizzazione personale. Lo fa con un colpo di scena che ho trovato meno penetrante rispetto a quello di To The Moon e forse pure meno incisivo del malinconico Finding Paradise, ma che non può lasciarti indifferente. Alla fine tutta la poetica dell'autore canadese, del resto, parla di ineluttabilità e accettazione. Da una parte c'è la consapevolezza che il passato non si può riscrivere, e si determina istante per istante: ogni decisione genera una catena di eventi che è impossibile percorrere a ritroso. Dall'altra c'è invece il peso di sapere che ogni vita è imperfetta, parziale, e che a dargli un senso saranno semmai le generazioni che verranno.

Impostor Factory non è un sequel diretto dei precedenti capitoli (si chiama infatti "Episodio X"), quanto più una parentesi appassionata, una piccola elegia della famiglia e del sacrificio. In qualche modo - soprattutto perché ultimamente rifletto spesso sul futuro, sulla responsabilità che abbiamo nei confronti delle generazioni che verranno - so che mi resterà dentro per molto tempo.

Giorno 2: Before Your Eyes

Before Your Eyes si basa su una premessa estremamente originale: il tempo di gioco va avanti ogni volta che sbatti le palpebre. Serve ovviamente una webcam, anche quella integrata nel laptop va più che bene. Nonostante fosse stato nominato ai TGA nella categoria Games for Impact (sorvoliamo sul risultato della premiazione, perché il nuovo Life is Strange, per quanto piacevole, affronta con estrema superficialità tematiche di forte impatto sociale), non lo conoscevo affatto, e quando mi hanno raccontato il concept l'ho messo subito nella lista dei compiti per le vacanze.

Anche il titolo di GoodbyeWorld Games è squisitamente narrativo, anche questo è insomma un gioco che... "si guarda". Letteralmente, vista la meccanica alla base. La storia comincia con traghettatore che solca le acque di un fiume tetro, una moderna versione di Caronte che pesca un'anima dalla superficie cupa di questo insolito Stige. E così parte l'avventura: seduto davanti all'anima che il giocatore si trova ad interpretare, il traghettatore la invita a ripercorrere tutte le tappe della sua vita. Before Your Eyes è un gioco fatto di momenti fugaci e inafferrabili: è un insieme di ricordi che si susseguono in rapida successione, di memorie ora dolci ora aspre e dolorose. È un gioco che comunica molto attraverso il suo concept, senza dover spiegare nulla di più. Ci sono alcuni momenti in cui non vorresti mai chiudere gli occhi: steso sulla sabbia umida ad ascoltare il racconto di un'amica e guardare le stelle; oppure sotto le coperte di un letto minuscolo, mentre la voce di tua madre legge una fiaba.

Sei lì, con gli occhi sbarrati tipo Arancia Meccanica, e fai di tutto per non sbattere le palpebre. Giuro che sono andato a cercare il liquido umettante per le lenti a contatto. E invece niente: quei momenti li dovrai perdere per sempre, ingoiati nei foschi meandri della memoria, flebili reminiscenze di un tempo lontanissimo. Proprio come succede - in fondo - con gli sprazzi più dolci della tua vita, quella oltre lo schermo e la quarantena.

Mentre il gioco va avanti mi accordo di quanto sia simile, in fondo, a Impostor Factory. Alle volte mi sembra quasi di vivere la stessa storia, e la parte finale del racconto mi dà ragione: il colpo di scena di Before Your Eyes, il turning point narrativo, è davvero molto simile a quello architettato da Kan Gao. Giocare i due titoli a così breve distanza è una coincidenza strana, e sul momento non capisco se dia forza a questo nuovo racconto oppure lo renda meno affilato.

Mi rendo conto che questa insolita sincronia non spunta le armi di Before Your Eyes proprio quando arriva il nodo alla gola di cui raccontavo sopra. Anche in questo caso è un colpo forte, spietato; pensare che stavo cercando un collirio e a inumidirmi gli occhi ci ha pensato il gioco. Ho passato qualche minuto a camminare in silenzio, dopo i titoli di coda, pensando al ruolo dei ricordi, a come la memoria si possa plasmare per dare un senso agli eventi più grandi di noi. A come la vita ti scorre "davanti agli occhi", a come certe esistenze non durino che un attimo, un istante fugace. Un battito di ciglia.

Giorno 3: No Longer Home

Non è un bel gioco, No Longer Home. Sembra sempre un po' impacciato, trattenuto in tutto quello che fa. Anche in questo caso sono di fronte ad un titolo interamente focalizzato sulla narrazione, con una timida struttura da avventura punta e clicca. Il racconto si concentra soprattutto sui dialoghi, o sui monologhi interiori dei protagonisti, ma gli manca quella capacità - che invece altri giochi story driven hanno dimostrato - di renderli un po' più dinamici, più integrati con la componente interattiva.

Mentre gioco mi viene in mente ad esempio Oxenfree, forse uno dei titoli che più mi ha colpito per come riesce a mettere in scena il "botta e risposta" fra i personaggi. Senza scomodare ovviamente sua maestà Firewatch, che pure viene citato nei titoli di coda come una delle principali fonti di ispirazione. In quel caso però c'erano in ballo ben altre ambizioni e possibilità creative. Fino a dove l'ho giocato (mea culpa, devo ancora arrivare alla fine!) pure Kentucky Route Zero mi è sembrato molto più efficace da questo punto di vista. Eppure da No Longer Home non sono proprio riuscito a staccarmi. Mi ha colpito subito, fin dal prologo, per la sua volontà di essere un dramma teatrale digitalizzato. Lo "spettacolo" è composto da scenografie che cambiano di fronte allo spettatore, come le quinte mobili di un palco, e da attori che si muovono in spazi contenuti, parlando sommessamente di fronte alla platea. E raccontano delle loro paure, di una schiacciante sensazione di instabilità, di un'insicurezza sociale strisciante e pervasiva.

No Longer Home è a tutti gli effetti un inno generazionale (per saperne di più vi rimandiamo alla recensione di No Longer Home), la voce rotta dei ventenni che si trovano proiettati in un nuovo contesto sociale ed economico, forse meno rassicurante di quello in cui hanno vissuto i loro genitori. In questa brevissima pièce si discute della vita universitaria, degli affitti che salgono senza controllo, dei traslochi e della sensazione che ti mettono addosso: quell'ansia di trovarsi improvvisamente... sradicati. Si parla della paura di perdersi per strada, di lasciarsi e non potersi ritrovare, e di quella (un po' più pragmatica) di cominciare la propria vita adulta con un un debito sulle spalle.

Mi rendo conto che per certi versi sono temi un po' distanti da me, dalla mia situazione: dicono tutti che non li dimostro ma ho quasi quarant'anni, e per fortuna una certa stabilità. Penso anche di rappresentare - come molti dei miei coetanei - uno strano anello di congiunzione tra la generazione dei boomer (inteso nel senso più pieno del termine, quello legato alle possibilità economiche di quarant'anni fa) e i nati nel nuovo millennio, per cui è cambiato veramente tutto.

Forse è perché sono continuamente in contatto con chi è più giovane di me che No Longer Home mi sembra un gioco incredibilmente prezioso: credo ci sia bisogno di raccontare queste nuove prospettive, di condividere certe paure anche al fine di esorcizzarle. È bello che qualcuno abbia deciso di farlo attraverso il videogioco, il medium che trovo più adatto a questi tempi e alle nuove esigenze di affabulazione del pubblico.

No Longer Home è un titolo ricercato, pieno di sfumature. Attraverso il suo ritmo lento, persino pedante, e con un sottofondo musicale distante e monocorde, trasmette una sensazione di apatia, di immobilità. E finisce così per rappresentare pure i sintomi della derealizzazione, di un'inerzia emotiva "spiegata" in maniera sensazionale.

Essendo un amante di tutte quelle correnti espressive che fanno capo al Realismo Magico la cosa che ho apprezzato di più di No Longer Home è però la grande quantità di dettagli surreali, disseminati in giro per le stanze dell'appartamento. Da una parte gli indizi di una catastrofe imminente, nascosti nelle descrizioni: la muffa ancestrale che spunta dietro un poster male appiccicato, le crepe che dal muro si allungano fino alle fondamenta dell'edificio e forse più oltre; e ancora i funghi, le ragnatele titaniche, il marciume primordiale che dai rifiuti contamina ogni cosa. È la rappresentazione di una situazione insalvabile, come se tutte le piccole storture di un appartamento fossero state trascurate fino a diventare sistemiche, immanenti. Ecco: da una parte c'è questo sconquasso, nascosto ma avvertibile, e dall'altra invece la purezza e la perfezione del cosmo, del cielo stellato che si intravede oltre le finestre, nelle ore serene prima del sonno. Uno spazio vasto e immutabile, meraviglioso eppure troppo distante, e muto.

Questo sottile intreccio di opposizioni è l'elemento per me più stupefacente di No Longer Home: non un bel gioco, ma il gioco di cui ho finito per scrivere di più.

Giorno 4: Exo One

Ho davvero bisogno di qualcosa che sia più ludico. Non proprio una roba arcade, ma un prodotto che mi metta alla prova almeno un po'. Mi lancio su Exo One (voi potete invece lanciarvi sulla recensione di Exo One): un gioco stravagante, alternativo, in cui si controlla una malleabile sonda spaziale. È una sfera che può cambiare a piacimento la gravità con cui viene attratta dai pianeti, aumentandola a dismisura oppure riducendola fino a diventare un oggetto etereo, leggerissimo.

In pratica, per esplorare le superfici aliene di corpi celesti lontanissimi, bisogna scivolare lungo i declivi di dune extraterrestri, incrementando il peso per farsi trascinare verso il basso, e poi lasciare il tasto al momento giusto, così da prendere a tutta velocità i rilievi del terreno e proiettarsi verso il cielo. Exo One, se vogliamo, è un gioco di biglie in salsa Sci-Fi. Non fosse che poi, una volta preso il volo, ci si può trasformare in un disco sottile, un frisbee interspaziale in grado di planare per chilometri e lasciarsi sollevare dalle correnti ascensionali. Si compiono così trasvolate psichedeliche nell'atmosfera di strani mondi, prima di precipitarsi a rotta di collo verso il suolo desertico o roccioso. Ben presto capisco che quello di Exo One è un viaggio allucinato e allucinante, verso i margini inosservabili dell'universo. Una gita cosmica in direzione della singolarità, di una salvifica anomalia spaziotemporale: un po' come Interstellar, con intuizioni non dissimili sulla ciclicità del tempo e sulla necessità del sacrificio in ambito scientifico.

Quando riesci a prendere dimestichezza con i comandi e con le regole fisiche del gioco, Exo One diventa letteralmente inebriante: ti esalta con la sua velocità, tra tuffi a perdifiato e risalite vertiginose. Immagino stormi di queste sfere spaziali, microscopiche astronavi che scendono in picchiata, atterrano - meglio di aeroplani - cambiano le prospettive al mondo. E compiono voli imprevedibili e ascese velocissime, tratteggiando - con traiettorie impercettibili - codici di geometria esistenziale.

Mi è piaciuto quasi tutto, di Exo One: persino il racconto che resta sempre sottotraccia per poi "esplodere" sul finale; eppure senza strepiti, restando ermetico e interpretabile. Avrei preferito soltanto che il tessuto musicale fosse appena più incisivo, perché solo a tratti l'incontro fra musica e composizione riesce a sublimarsi.

Troppo spesso a farsi sentire è il rumore del cosmo, afono, rotto appena da suoni metallici e gracchianti. In altri momenti invece si alza una musica sintetica, pulsante: e mentre la sonda-piattello rimbalza sulla superficie crespa di un oceano siderale, oppure è avvolta dal pulviscolo di nubi eliotropiche, Exo One raggiunge la sua ora di perfezione, lambisce la criptica purezza del finale di 2001 Odissea Nello Spazio, ed esalta le sue Space Oddities.

Giorno 5: TOEM

Esiste un filone di giochi che potrebbero chiamarsi... escursionistici. Sono titoli che raccontano di un piccolo pellegrinaggio vacanziero, di un'esperienza che comincia e finisce nell'arco di un'estate o di una stagione in villeggiatura. L'esponente perfetto di questa "corrente" narrativa è A Short Hike, una gemma indie che ritengo imprescindibile per chi cerchi un po' di gioiosa leggerezza. Mi viene in mente anche The Touryst, "estivo" persino nell'estetica e capace di mescolare al senso di scoperta un pizzico di nostalgia arcade.

Sono giochi che dal punto di vista del racconto aderiscono ad un archetipo antico quanto il mondo: quello del viaggio dell'eroe. Il protagonista si imbarca in un cammino avventuroso che lo cambierà per sempre, alla ricerca di una rivelazione che lo renderà finalmente consapevole o adulto. Nei titoli a cui mi riferisco questa prova viene però "demitizzata". O meglio: ricondotta ad una dimensione meno prodigiosa e più umana, anzi addirittura intima e personale. Tutti quanti abbiamo vissuto un'esperienza che ci ha insegnato ad essere più autonomi, in quel tempo perduto che è l'adolescenza. La prima notte in campeggio, il primo viaggio da soli con gli amici... A Short Hike e i suoi congeneri vogliono digitalizzare queste esperienze, trasformarle in favole interattive; spiegare che certe avventure, per quanto ordinarie, possono contribuire alla creazione di una "mitologia privata", individuale.

TOEM è uscito qualche mese fa ed è sgattaiolato sotto al mio radar, eppure durante la quarantena è arrivato un provvidenziale suggerimento via Instagram. Lo scarico e vengo rapito dall'estetica semplice ma deliziosa. TOEM è un gioco in bianco e nero, in un mondo tridimensionale ma interamente disegnato a mano. L'incipit è sempre lo stesso: il personaggio principale parte, spronato dalla nonna, per raggiungere la vetta del monte che troneggia sull'area, e osservare un meraviglioso fenomeno magico.

TOEM è un punta e clicca fotografico: ci si muove con un rapido tocco del mouse in scenari con visuale isometrica ("dall'alto", per intenderci), ma in ogni momento è possibile afferrare la nostra fidata macchina fotografica, passare alla prima persona e guardarsi intorno. E fotografare oggetti, piccoli animaletti, passanti, spettri, piante, edifici.

Tutte gli incarichi da superare per passare da una zona all'altra, nelle tappe di un viaggio che attraversa foreste, arcipelaghi e città bituminose, riguardano la fotografia. Bisogna aguzzare la vista, interpretare indizi misteriosi, curiosare in giro.

Nel mio percorso fino alla vetta ho aiutato un'aspirante influencer a raggiungere i 100 iscritti, ho accettato di accompagnare una donzella-fantasma ad un appuntamento romantico (cercando un angolo isolato in una metropoli confusionaria), ho aiutato due vecchi amici a ritrovarsi e ascoltato un coro di capre tibetane. Alla fine l'ho visto, il prodigio sulla sommità del monte. L'ho visto, l'ho fotografato, e in qualche modo lo conserverò nella memoria. Sapendo che, come spesso, conta più il viaggio della meta.