Dissonanza Ludonarrativa: una proposta critica

Il concetto di Dissonanza Ludonarrativa è utilizzato spesso e volentieri per criticare molte scelte di game design e non solo. Approfondiamo l'argomento.

Dissonanza Ludonarrativa: una proposta critica
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Nonostante già nei primi anni 2000 esistessero analisi critiche che si occupavano dei "conflitti" fra trama e meccaniche di gioco, la nascita del concetto di Dissonaza Ludonarrativa si fa generalmente risalire al 2007, quando Clint Hocking - all'epoca Game Director in forze negli studi di Ubisoft - pubblicò una critica molto perentoria su Bioshock (a proposito, avete letto la nostra recensione di BioShock The Collection?), individuando una frizione fra la filosofia narrativa e i precetti su cui si fondava invece la progressione ludica. Lucida e ben documentata, la posizione di Hocking risulta ancora oggi affascinante, e deve avere incuriosito chi fa critica di mestiere: quindici anni dopo, il concetto di "Dissonanza Ludonarrativa" è utilizzato spesso e volentieri per criticare molte scelte di game design, o per sottolineare un senso di scollamento fra le azioni del giocatore e quelle del personaggio che si trova a controllare.

Sempre più spesso individuare questa Dissonanza diventa un sistema per valutare le qualità di un prodotto, squalificarne l'approccio, denunciare una brusca interruzione della sospensione dell'incredulità. A mio modo di vedere il significato che ha assunto la terminologia in tempi recenti è però molto diverso rispetto a quello che era stato pensato da Hocking, e finisce per indicare, più che un demerito dei prodotti moderni, una caratteristica fisiologica del medium, una frattura probabilmente inconciliabile tra racconto "regolato" e interazione. Partendo da qualche esempio concreto proverò a spiegare i limiti dell'approccio critico attuale, suggerendo una strada - e una terminologia - alternative.

Sfumature di dissonanza

Con Dissonanza Ludonarrativa s'intende, al giorno d'oggi, un elemento in cui le ragioni del racconto (e quindi anche dei suoi personaggi) entrano in esplicito conflitto con quelle del gioco, più specificatamente della sua componente ludica. Questa stonatura può manifestarsi con modalità molto eterogenee. Prendiamo ad esempio uno dei giochi più discussi degli ultimi mesi: Cyberpunk 2077.

La premessa del racconto imbastito da CD Projekt RED è che nella testa del proprio avatar ci sia un elemento estraneo, un costrutto virtuale che presto sostituirà la sua coscienza con quella di Johnny Silverhand. In pratica Cyberpunk 2077 vi mette nei panni di una protagonista morente, e tutta la parte iniziale dell'avventura trasmette un certo senso di emergenzialità. L'obiettivo di V dovrebbe essere quello di trovare una soluzione il più in fretta possibile, per evitare di sparire completamente, eppure il gioco permette di allungare a dismisura l'esperienza rimandando di ore e ore la risoluzione del problema o gli sforzi per avvicinarsi ad essa. Non c'è nessun motivo per cui V dovrebbe continuare ad accettare i suoi incarichi da mercenaria (non sembra che avere più Eddie in banca aumenti le chance di sopravvivenza), e certe peregrinazioni nei quartieri della città paiono davvero inadeguate per quella che dovrebbe essere un'esistenza "terminale".Ironia della sorte, nel gioco non trovano spazio molte delle attività accessorie che di solito sono legate al genere di appartenenza, altrimenti V avrebbe potuto concentrarsi su chissà quali quisquilie estetiche mentre il suo tempo stava per scadere.

Ed eccola qua, la Dissonanza Ludonarrativa: pur volendo scrivere una storia con temi d'impatto (transumanesimo, consapevolezza e accettazione della fine, ineluttabilità della morte), il team si è poi trovato di fronte alla necessità di sviluppare un gioco aderente ai canoni dell'Open World, riempiendolo quindi di attività secondarie d'ogni tipo.

Le ragioni del gioco e del racconto entrano in conflitto, in questo caso relativamente alla coerenza temporale. Il problema, in verità, sembra comune a molte opere cosiddette "a mondo aperto", quelle in cui l'utente ha un controllo quasi integrale sulla scansione dei tempi dell'avventura. Si potrebbe ad esempio citare un altro prodotto che parla di malattia e di fine vita, Red Dead Redemption 2: quando Arthur Morgan si accorge della sua situazione, le lunghe cavalcate verso Ovest e alcune attività secondarie diventano estremamente ridondanti e poco attinenti all'evoluzione del personaggio.

Bisogna dire che Cyberpunk 2077 e Red Dead Redemption 2 adottano un approccio estremamente diverso per quel che riguarda la fine del racconto: nell'avventura sci-fi di CD Projekt, di fatto, il finale chiude per sempre il ciclo di V, così che l'unico modo di completare le quest e i contratti sia farlo prima della "resa dei conti" con l'Arasaka; di contro alla fine di Red Dead Redemption 2 si apre un altro ciclo (proprio come succedeva nel primo capitolo), così che tutte (o quasi) le attività opzionali possano essere svolte a posteriori. C'è anche da dire che Rockstar è stata estremamente più abile a dettare i tempi della malattia di Arthur, sottolineando non solo la sua ineluttabilità, ma anche una certa indeterminatezza del decorso, che idealmente permette al protagonista un buon margine di manovra e la possibilità di dedicarsi alle proprie cose prima della fine. Questa scelta dimostra chiaramente che è possibile limitare la divergenza fra le ragioni del racconto e quelle del gioco, riducendo così il rischio che spezzi l'immersione.

Soluzioni ad un annoso problema

La presenza di un "post game" libero in cui dedicarsi a tutto quello che avevamo lasciato indietro, per continuare la propria vita virtuale nel mondo creato dagli sviluppatori, è molto in voga negli open world, e si potrebbe pensare che sia la perfetta risoluzione della Dissonanza Ludonarrativa: il giocatore, idealmente, può completare la trama principale più in fretta possibile, e poi - liberato il personaggio dai propri oneri - può esplorare l'ambientazione con metodo e dedizione per esaurire tutti i suoi stimoli.

Un'altra possibile soluzione al problema è quella di non scrivere un racconto con un obiettivo troppo stringente, lasciare che il protagonista possa prendersi i suoi tempi senza troppi problemi. Questa via è spesso percorsa dai Grand Theft Auto, in cui l'obiettivo è - per semplificare - quello di scalare le gerarchie criminali o di arricchirsi. Resta vero che alcune "questline" innescano invece un senso di urgenza che poi viene completamente smontato dalla possibilità di avviare l'incarico a piacimento.

Ci sarebbe anche un'altra possibilità, cioè quella di fare in modo che l'esplorazione del mondo sia funzionale all'obiettivo del personaggio. In Breath of the Wild, ad esempio, Link deve distruggere la Calamità, eppure stringere alleanze con i quattro popoli di Hyrule, così come aumentare energia e stamina tramite il completamento dei sacrari, è un meccanismo necessario affinché lo scontro con Ganon non sia insormontabile.

Anche in questo caso si tratta di una soluzione parziale, dal momento che durante l'operazione di potenziamento è comunque possibile dedicarsi a faccende che non hanno troppo impatto sullo scontro con Ganon, come la ricostruzione di un piccolo villaggio o la raccolta di un numero improbabile di semi Korogu.

Gli estremi oppositori della Dissonanza Ludonarrativa suggeriscono di rimuovere il problema alla radice, sviluppando open world che siano puramente o principalmente ludici (in cui il racconto sia del tutto accessorio), e di lavorare soltanto su altri generi ludici nel caso in cui si abbia bisogno di raccontare una storia forte, accettando così che l'unico modo per avere un controllo diretto sull'andatura del racconto sia quello di sfruttare forme più lineari. Francamente trovo che questa posizione sia completamente indifendibile. In primis perché limiterebbe in maniera concreta la varietà e la pluralità del medium, risultando egualmente censoria rispetto a quelle voci che vogliono scegliere cosa il videogame debba o non debba essere (mandando al bando i "walking simulator" o tutti i prodotti che non sono animati da una "pura" vibrazione arcade). In secondo luogo, ridurre l'ampiezza dei confini del mondo di gioco non significa affatto eliminare le fonti potenziali della forma di Dissonanza che abbiamo finora descritto.

Pensate, ad esempio, ad un prodotto furioso e feroce come l'ultimo Wolfenstein (qui potete leggere la nostra recensione di Wolfenstein 2 The New Colossus): lo cito come esempio di produzione "vecchio stile", con una struttura a stage e un level design pensato per garantire una buona libertà di approccio, ma chiaramente collocato nei canoni di un incedere inquadrato.

E lo cito perché si tratta, a mio avviso, di uno dei migliori esempi di allostoria virtuale: è un titolo che ha caratterizzato in maniera eccellente la sua idea di "storia alternativa", attraverso una serie di testi, di immagini, di locandine, di brani musicali (qui trovate tutte le canzoni della Neumond Records, compreso un pezzo dei Die Kafer, versione "germanizzata" dei Beatles). Ecco, vi invito a immaginare un Blazkowicz che nel bel mezzo dell'azione si ferma ad ascoltare un vinile, ad osservare un cartellone pubblicitario, a leggere la futile lettera di un generale del Reich.

Non lo farebbe, probabilmente, neppure la Jesse Faden di Control, o il Morgan Yu di Prey (ignaro di essere il soggetto di un elaborato test comportamentale). Non cito questi prodotti a caso, così come voluta è l'enfasi su elementi squisitamente videoludici come i collectible, molto spesso preziosissimi per caratterizzare i mondi di gioco. La domanda che vorrei porvi è se sia giusto rinunciare a questi elementi, che rivelano in maniera esplicita l'esistenza di una cornice ludica, di una sovrastruttura che va oltre quella narrativa, per poter favorire una supposta coerenza del racconto.

Sarebbe giusto rinunciare ai mondi creati da Bethesda, Remedy, Naughty Dog (critiche asprissime sono piovute sulle lettere disseminate in giro per Seattle), perché la loro presenza può creare delle situazioni irrealistiche per il personaggio che controlliamo? Sia chiaro che chi professa le ragioni della "narrazione implicita" o "ambientale" non risolve affatto il problema: possiamo suggerire che le storie del mondo di gioco siano soltanto "silenziose" - che emergano dai dettagli dello scenario, dalle architetture, dal posizionamento di corpi e oggetti - ma allora dobbiamo accettare che i protagonisti che controlliamo possano restare fermi per lunghi minuti ad osservare i microscopici dettagli di un palazzo, oppure la splendida facciata di un edificio, anche mentre stanno vivendo la loro personale discesa agli inferi, mentre l'epidemia dilaga, mentre altri personaggi sono in pericolo. Si tratta ovviamente di un'estremizzazione, ma penso che sia necessaria per far capire il nucleo centrale del mio discorso.

L'assonanza non è un valore assoluto

Credo che la possibilità di realizzare, durante una sessione di gioco, situazioni che rompono l'immersione sia connaturata al videogioco stesso, un medium il cui elemento centrale è quello dell'interazione. L'interazione prevede, appunto, che l'esperienza si realizzi solo nel momento in cui incontra un fruitore: un utente che la trasforma da esperienza potenziale a esperienza concreta, singolare e personale. Sviluppando un videogioco qualsiasi autore deve considerare questa caratteristica del medium, e rinunciare ad avere un controllo integrale sui tempi (e alle volte anche sul contenuto) del racconto.

Le ragioni del racconto classicamente inteso e quelle dell'interazione sono, nella maggior parte dei casi, divergenti. Scrivere un racconto significa appunto gestire il passo della storia, scrivere un videogioco significa lavorare ad una storia dal passo "incerto": un aggettivo che qui va inteso alla lettera - non come claudicante, indeciso, ma come parzialmente inconsapevole.

L'autore non sa come il giocatore realizzerà il suo racconto, quali saranno le azioni che compirà nel percorso che lo porterà da uno snodo narrativo all'altro. Ci sono strutture più controllate e controllabili di altre, ma l'autore deve giocoforza rinunciare ad una parte della sua... autorità.
E per tanto deve anche rinunciare a scrivere personaggi che siano totalmente determinati. Jesse Faden, ad esempio, è un'avida indagatrice delle dinamiche interne al Bureau of Control (avete letto il nostro speciale sulle bizzarre ispirazioni di Remedy per Control?), pronta a curiosare in ogni fascicolo, oppure è una donna d'azione completamente disinteressata alle questioni d'archivio?

Non sta all'autore deciderlo, ma al giocatore, e ogni giocatore avrà per le mani una Jesse Faden parzialmente diversa, perché proietterà una parte di sé (dei suoi usi e delle sue abitudini) sul personaggio. Ci sono sistemi per ridurre lo spazio di manovra concesso al giocatore: ad esempio non inserire nessun documento opzionale è una scelta che implicitamente delinea il grado d'interesse del personaggio per la lettura e l'indagine. Ma di nuovo la domanda è la stessa di prima: vale la pena, per un autore, avere questo grado di controllo ulteriore, rimuovendo un elemento che potenzialmente arricchisce il cotesto di gioco e amplifica il valore creativo di altre figure all'interno del team di sviluppo (non chi scrive la sceneggiatura, ma chi lavora al processo di World Building)? Solitamente chi risponde di sì a questa domanda lo fa per sostenere le ragioni di un'immersività totale.

Ogni volta che si crea una situazione potenzialmente dissonante con le ragioni del protagonista, ogni volta che un elemento rivela la presenza di un'infrastruttura ludica in cui è racchiuso il racconto, si spezza l'illusione di essere in un mondo altro, coerente e regolato, e si capisce di essere di fronte ad un prodotto, un'opera. Si apre qui un altro spunto di dibattito, ovvero quale sia l'effetto che la "grammatica dell'interazione" ha sull'immersione del giocatore.

Parlo di grammatica dell'interazione perché i collectible, i documenti, le missioni secondarie, sono elementi che sono stati canonizzati negli anni con la finalità di rendere l'ambiente più interattivo. Si tratta di un'interazione spesso quantitativa (più cose da fare/leggere/vedere ci sono, più si può interagire con il mondo virtuale), ma nei titoli già citati come esempi virtuosi questa "lingua dell'interazione" viene usata anche per raccontare storie preziose, per "condire" il mondo di gioco. Credo che i giocatori vecchi e nuovi siano ormai abituati alla presenza di questi elementi e sappiano contestualizzarli senza fatica, accettandoli anche quando hanno più valore per l'utente che per il personaggio.

L'illusione dell'oggettività

La pretesa che il flusso del racconto non debba essere mai interrotto, per altro, non è avanzata in nessun altro medium. In un romanzo, addirittura, si accetta senza problemi la presenza di elementi extradiegetici: il lettore sa bene che una descrizione non necessariamente esplicita il modo in cui i protagonisti percepiscono paesaggi, personaggi e oggetti; anzi avverte che il narratore, in quel momento, si sta rivolgendo direttamente a lui, per dargli delle informazioni aggiuntive utili ad approfondire la conoscenza del mondo o delle relazioni fra personaggi.

La presenza di questi elementi non ha nessun effetto sulla sospensione dell'incredulità: il lettore capisce che tipo di prodotto ha davanti, ne intuisce le regole, comprende le scelte stilistiche dell'autore, le accetta.
Questo meccanismo - la sospensione del dubbio - può attivarsi non solo quando leggiamo ma anche quando giochiamo ad un videogame; anzi, proprio il contatto pregresso con altre forme di narrazione permette pure a chi è solitamente estraneo al mondo videoludico di comprendere rapidamente la funzione degli elementi appartenenti appunto alla grammatica dell'interazione, sia quando si tratta di paratesti (l'equivalente di approfondimenti e descrizioni) che quando si tratta di incarichi secondari (l'equivalete di digressioni e storie parallele).

Voglio comunque che sia chiara una cosa: la Dissonanza Ludonarrativa, nell'accezione che ha preso in tempi recenti, esiste. Credo però che sia importante, per chi fa critica, non vederla sempre e comunque in quei prodotti che utilizzano gli strumenti di cui sopra. La sola presenza di collectible, testi aggiuntivi, missioni secondarie, non indica che siamo al cospetto di un prodotto che male amalgama le ragioni del gioco e quelle della narrazione.

Ci sono titoli, anzi, che lavorano per cercare un buon equilibrio fra i due impulsi, e riescono a bilanciare due istanze apparentemente divergenti. Ci sono invece prodotti che eccedono in un senso o nell'altro: giochi in cui il racconto diventa quasi "oppressivo" e lascia troppo poco spazio al gioco (mi viene in mente Guns of the Patriot), altri in cui la scrittura non riesce a giustificare la presenza asfissiante di meccaniche ed elementi opzionali (Assassin's Creed Odyssey). Sono questi i casi in cui si manifesta la Dissonanza Ludonarrativa, e sia chiaro che il confine da non superare non è mai oggettivo: trattandosi di un disequilibrio che rompe la sospensione dell'incredulità ciascun giocatore, sulla base delle proprie esperienze, traccerà il segno dove meglio crede. Ogni utente sentirà o meno la disarmonia fra racconto e struttura ludica a seconda della propria sensibilità, e ogni utente (così come ogni critico) racconterà l'esito della propria esperienza.
L'errore di una certa critica è quello di trasformare la Dissonanza Ludonarrativa in un criterio oggettivo, squalificando a priori i prodotti che sfruttano strutture ludiche ormai consolidate. Certo, si può sempre sperare in un rinnovo di queste strutture, alcune soluzioni si possono considerare vetuste o superate, ma tali impostazioni non sono dissonanti "per natura".

Di oggettivo, semmai, c'è un'altra cosa: quella che potrebbe chiamarsi Divergenza Ludonarrativa, la frattura inconciliabile di cui dicevo all'inizio dell'articolo. Come spiegavo, le ragioni del gioco sono quelle del fruitore, mentre le ragioni del racconto sono quelle dell'autore; persino chi gioca per vivere una storia, in verità, "pretende" di vivere la sua versione della storia, richiede un certo grado di libertà e quindi vuole che l'autore, ad un certo punto o in qualche misura (anche infinitesimale), si faccia da parte.

I limiti di un medium in crescita

Quella che abbiamo analizzato finora è soltanto una specifica forma di Dissonanza Ludonarrativa. Con questo termine si intendono oggi tipologie di contrasto fra racconto e componente ludica molto diversificate. Luke Arnott, nel suo saggio "Mapping Metroid", utilizza il concetto di Dissonanza Ludonarrativa per indicare lo straniamento generato dalle scene d'intermezzo di Other M (già che ci siete, date un'occhiata alla recensione di Metroid Other M). Queste hanno la colpa di interrompere il flusso trascinante dell'azione, ma anche quella di associare una certa componente emotiva ad un personaggio che nelle fase di gioco appare distaccato e neutrale.

Oltre a questo utilizzo che non esito a definire improprio, ogni concessione al realismo viene additata come Dissonanza Ludonarrativa: Nathan Drake uccide centinaia di avversari risultando di fatto un pluriomicida dalla battuta facile, immune a qualsiasi giurisdizione? Ecco la nostra Dissonanza. In questo caso il concetto è molto più pertinente: di fatto le regole di un certo genere videoludico, ovvero quelle dello sparatutto in terza persona (che in Uncharted sono mescolate a quelle dell'avventura dinamica), si mettono di traverso alla possibilità di scrivere un protagonista più credibile o anche solo più normale.

È il segno di un medium ancora in fase di crescita, in cui gli strumenti espressivi si sono evoluti ad una velocità impressionante. Una trentina di anni fa, di fronte a personaggi squadrati e inespressivi, iper-semplificati e caratterialmente stilizzati, forse sarebbe stato impossibile avvertire le problematiche che oggi è giusto considerare. Nel processo di sviluppo del medium c'è stata un'evidente disparità fra il progresso degli strumenti narrativi (aspirazione al fotorealismo, performance capture) e quello delle formule di gioco (rimaste troppo spesso cristallizzate anche per una certa pressione da parte del pubblico). La saga di Uncharted è nata proprio nella generazione che più rappresenta questo "scollamento", un'epoca che ha spesso riproposto rodate meccaniche ereditate dal passato, senza curarsi di ammodernarle per accordarle alla maturità che andavano acquisendo le storie e i protagonisti del videogioco. Ironia della sorte è proprio il quarto capitolo della serie, La Fine di un Ladro, che in qualche modo si chiede se sia possibile riportare il racconto avventuroso su un piano più umano, "normalizzare" i protagonisti invece di puntare sul furioso superomismo.

Resta vero che questo Straley e Druckmann svolgono questo discorso senza rinnegare la formula del brand, ma comunque provando ad arginarla in tutti i modi: con lo stealth che potrebbe ridurre la conta dei corpi, con ampie sezioni puramente investigative o esplorative (pensate alla scoperta di Libertalia), con un combattimento finale che è un'integrale rinuncia all'epica delle armi da fuoco. Restano ancora tante limitazioni, ma anche una dichiarazione di "poetica" che arriva proprio sul finale, quando gli occhi della figlia di Drake si spalancano di fronte ad una foto in cui il padre imbraccia un fucile a pompa: quell'arma è una cosa anomala, fuori posto; le nuove generazioni - e i nuovi giochi - avranno bisogno di altri strumenti.

Da Dissonanza ad Accordo

Il modo migliore per chiudere questo articolo è recuperare il significato originale del concetto di Dissonanza Ludonarrativa, molto più sfumato e sottile rispetto a quelli esposti finora. Originariamente, nelle parole di Clint Hocking, il senso di straniamento non riguardava questioni di gestione dei tempi o concessioni alla credibilità delle situazioni. Era invece una questione di filosofia. Era un conflitto ineliminabile fra il messaggio del gioco e la struttura attraverso cui questo messaggio veniva diffuso.

La tematica centrale di Bioshock, agli occhi di Hocking, è la necessità di rinunciare all'egoismo sociale su cui si fonda la società americana, quel minarchismo liberale teorizzato da Ayn Rand ed esplicitato nelle opere che Ken Levine cita apertamente e altrettanto apertamente rifiuta.

La ricerca spasmodica del proprio interesse privato, l'accumulo di ricchezza e potere, l'individualismo sfrenato, secondo l'autore di Bioshock, non possono che portare alla sconfitta: a quella Rapture irrimediabilmente corrotta e cadente che vediamo sotto i nostri occhi. Eppure, dice Hocking, le meccaniche di gioco dicono il contrario: è la ricerca del potere che permette di uscire da Rapture, l'accumulo di plasmidi e di risorse, la violenza, persino lo sfruttamento delle innocenti Sorelline. Lo scarto fra quello che il gioco vuole comunicare e quello che il gioco impone di fare: è questa la Dissonanza Ludonarrativa.

Questo punto di vista, a mio modo di vedere, è molto interessante e sfaccettato, estremamente arguto e proprio per questo importante. Non si può negare che questa Dissonanza, in qualche misura, sia avvertibile e concreta, ma bisognerebbe anche chiedersi se produca davvero lo straniamento raccontato da Hocking.

Francamente io trovo questa posizione poco fondata: in Bioshock il giocatore si trova in una situazione d'emergenza, bloccato fra i resti di un'utopia fallita. Anche quando viene liberato dall'incantesimo ipnotico del "Would You Kindly?" si trova a dover sopravvivere in un ambiente irrecuperabile, dimenticato, ostile. Nessun giocatore si sognerebbe di estrapolare qualche insegnamento sulla vita o sulla società dalle azioni di Jack, mentre proprio dalla vista della carcassa urbana che è Rapture si potrebbe desumere quali sono i valori da rifiutare, come società, per non fare la stessa fine.Dello stesso tipo di Dissonanza Ludonarrativa che stiamo descrivendo (definiamola dissonanza concettuale) è stato "accusato" anche The Last of Us Part II. Un gioco che invita a rifiutare la violenza e la vendetta, in cui per circa trenta ore si massacrano impunemente i sopravvissuti dello schieramento opposto (tralasciando ovviamente la presenza degli invasati e dei fanatici).

Ebbene proprio l'avventura di Ellie e Abby (avete letto la nostra prova di The Last of Us 2 su PS5?) mi sembra l'esempio perfetto di come questa discrepanza fra azione e messaggio possa essere persino voluta. Alla fine del gioco l'utente sarà portato ad ascoltare il messaggio dell'autore proprio perché, come le protagoniste del racconto, avrà sentito sulla propria pelle le conseguenze di una violenza logorante, faticosa, spersonalizzante. "Vivere" quella violenza, perpetrarla, è atto necessario a comprenderla e, grazie a questa comprensione, rigettarla.

In tal senso gli spazi virtuali del videogioco, che siano quelli di Rapture o quelli di una Seattle post-pandemica, possono avere davvero un'utilità pratica, "sperimentale". Nel suo Playing Distopia, Gerald Farca, professore specializzato in Game Design all'Università di Augusta, si chiede se l'esplorazione di mondi ostili non possa trasformarsi, per il giocatore, in un processo persino didattico.

L'ambiente virtuale diventa un territorio "empirico", uno spazio in cui sperimentare le conseguenze più sgradevoli della svalutazione dei valori umani e delle proprie azioni. Il videogioco si trasforma così, se non in un incentivo etico a cambiare il mondo reale, quanto meno in uno strumento atto a riconoscerne e arginarne gli aspetti problematici. Se dovessimo vederla così, fra il messaggio e l'azione non ci sarebbe Dissonanza, ma invece un incredibile e poderoso Accordo.