I cinque migliori giochi dell'anno, secondo me. Sembra facile fare una classifica del genere, soprattutto quando di mezzo c'è una prospettiva squisitamente personale, senza nessuna pretesa di ufficialità: perché in fondo posso metterci davvero tutto quello che mi pare. Però io sono qui di fronte alla pagina bianca e mi agito, scrivo due righe e poi cancello, mi alzo, cammino in cerchio attorno alla scrivania. Il fatto è che mi piacerebbe che ad essere "privata" non fosse solamente la mia selezione, ma in qualche modo anche la maniera in cui ve la racconto. Di solito quando scrivo un articolo "istituzionale" (Todd mi prende sempre in giro quando uso questo termine) evito la prima persona come la peste, e cerco di parlare dei "massimi sistemi" piuttosto che delle piccole cose. E allora stavolta voglio fare il contrario, e raccontarvi i cinque momenti che mi hanno in qualche modo convinto che un videogioco fosse speciale. E visto che prima di partire si tirano le somme dell'anno appena trascorso, anche in questo caso voglio andare fuori dagli schemi. Il 2017 per me è stato importante non tanto per la quantità ed il ritmo delle uscite di rilievo: piuttosto, perché per la prima volta mi sembra di avvertire un senso di appartenenza nuovo, che serpeggia tra la comunità di videogiocatori. I videogame stanno ormai diventando un elemento centrale della cultura popolare, e nonostante qualche sacca di resistenza è sempre più difficile incontrare persone che li considerino "oggetti" completamente alieni al mondo in cui viviamo, sciocchezze da ragazzini. Sarà che le generazioni forgiate dall'Amiga e dal NES sono diventate grandi, sarà che i ventenni di oggi sono quelli che da bambini avevano la Wii (e sì: dieci anni fa ce l'avevano davvero tutti). Fatto sta che siamo finalmente arrivati al punto in cui se ci incontriamo al bar, io ti parlo di Super Mario Odyssey e tu cadi dalle nuvole come se neppure lo conoscessi, possiamo affermare con discreta serenità che in fondo, tra i due, quello che fa la figura del fesso sei tu. Non so voi, ma io la trovo una cosa bellissima.
Il peso delle mele
Ho giocato a Breath of the Wild in preda ad un'insaziabile voracità videoludica, sacrificando il sonno e dedicando tutto il mio tempo libero all'ultima avventura di Link. Un po' per dovere (l'embargo per la review è una scadenza che impone ritmi serrati), un po' per il magnetismo incredibile del grande capolavoro targato Nintendo. Ci ho giocato, tra le altre cose, sospeso in quella "solitudine" surreale in cui di tanto in tanto ci troviamo noi addetti al settore. A poche settimane dall'uscita esisti soltanto tu e il gioco: nessuna "wiki", nessuna condivisione sui social, nessun suggerimento. Mentre provate ad immaginare quali conseguenze possa determinare questa situazione ogni volta che esce un nuovo Souls, devo dire che la trovo una condizione in qualche modo "privilegiata", e forse addirittura indispensabile per il nostro lavoro. È in questi momenti, infatti, che possiamo creare un rapporto con il gioco che sia esclusivamente personale, senza interferenze esterne e influenze critiche: siamo di fronte ad uno spazio bianco da riempire con le nostre sensazioni, il luogo perfetto per concentrarsi su impressioni private.
Eppure, una delle grandi magie di Breath of the Wild si è compiuta quando il titolo è stato consegnato all'intera platea di videogiocatori. Sulla rete sono infatti spuntati centinaia di video relativi alle curiosità del gioco, ai colpi di genio scoperti per caso da questo o quell'utente, alle soluzioni più ardite per i puzzle più semplici. È stato solo allora che ho scoperto il peso delle mele. Avete presente le piattaforme a pressione che all'interno dei sacrari servono per aprire porte o attivare meccanismi? Ecco: per tenerle premute bastano dieci mele. Le tiri fuori dall'inventario, le lasci sul pulsantone e il gioco è fatto. Vanno bene anche due o tre spade, qualche corno di Boblin, funghi e durian (!). Insomma, fate un po' voi. Breath of the Wild è un gioco così: deciso ad inseguire il sogno di una libertà integrale in maniera tanto coerente che ti permette di disinnescare un'intera categoria di enigmi. Se non hai voglia di scervellarti per capire come trasportare il blocco che dovrebbe essere posizionato sulla piattaforma a pressione, puoi buttarci sopra un mucchio di frutta e verdura. Che poi, a dirla tutta, anche per pensare ad una cosa del genere c'è bisogno di un po' di ingegno, un pizzico di pensiero laterale e tanta voglia di osare. Anche questa "soluzione alternativa" ha una sua eleganza. Devo ammettere di averla usata un paio di volte, persino nell'ultimo DLC. Nei mesi successivi all'uscita di Breath of the Wild, quando ormai avevo già abbandonato la splendida Hyrule, sono rimasto molto affascinato dalle trovate che esploravano i limiti della fisica di gioco. C'è gente che è arrivata alla fine di un sacrario facendo detonare al momento giusto una bomba, dopo averci rimbalzato sopra con lo scudo (utilizzato a mo' di skateboard), per farsi proiettare in aria dall'esplosione. Breath of the Wild è davvero incredibile. È il punto d'incontro tra il sandbox e l'open world, l'esempio lampante di come inventare una "fisica giocabile" (e non una "fisica estetica") possa riscrivere interi paradigmi videoludici.
L'elefante nella stanza
C'è un momento, in Uncharted: L'Eredità Perduta, in cui tutto si ferma. Si fermano le sparatorie, le corse folli, le trappole e i pericoli, il fango e il sudore; tutto diventa un sottofondo indistinto, impastato e lontano. Quasi intangibile. Chloe e Nadine si trovano all'improvviso sul dorso di un piccolo elefante. La bestia avanza piano, senza fretta. Raccolgono un frutto, lo consegnano al loro inaspettato compagno. È un momento di accordo sottile con la natura e con il mondo, uno di quegli attimi in cui ti trovi a chiederti se le scelte che hai fatto nella vita sono quelle giuste. Se in fondo non sia possibile mandare tutto all'aria e seguire "il segno d'un'altra orbita". Quest'attimo sospeso e surreale mi ha ricordato un'altra scena della saga di Uncharted, del capitolo che resta probabilmente il migliore. Nathan, sopravvissuto per miracolo ad un catastrofico deragliamento, si risveglia in un piccolo villaggio tibetano. Cammina nel freddo pungente del mattino, tra gli schiamazzi delle galline, le case povere, i pozzi e i tempietti votivi costruiti con pochi mattoni. Compare, d'un tratto, la sagoma nera di una bestia enorme e tranquilla: uno Yak. Nathan si avvicina, allunga la mano. E sembra quasi di sentirlo, il pelo ruvido, il respiro caldo e placido.
Così come per le giraffe di The Last of Us, per Naughty Dog l'incontro inatteso con un animale esotico è il momento dell'epifania, l'attimo di una insperata sintonia con un mondo altrimenti violento, spietato, affannoso. Ed è lì per ricordaci, in primis, che raccontare una storia è soprattutto questione di ritmo. Di sbalzi, di frenate improvvise e ripartenze, di corse folli che fanno impazzire il cuore, ma anche di pause e silenzi. Ce ne sono un sacco, di titoli "lineari": di quelli che vengono chiamati "story driven" perché è soprattutto il racconto a portarli avanti. Ma solo pochi riescono a trovare il giusto equilibrio, a tenere un passo sostenuto, stimolante ma naturale. L'Eredità Perduta lo fa con inaspettata maestria, avvicinandosi proprio all'andamento del grandissimo Among Thieves. Rispetto all'ultimo capitolo regolare della serie rivendica un piglio più avventuroso, leggero, ma senza dimenticare una dimensione spiccatamente umana. Continuo a ricordarmelo, quel breve viaggio sul dorso di un piccolo elefante. Mentre scrivo di notte, nel silenzio della casa vuota, e tutto si ferma: il mercato dei day one, gli embarghi improbabili, le partenze improvvise, il chiasso dei forum e dei social; tutto diventa un sottofondo indistinto, impastato e lontano. Quasi intangibile...
Tesori nascosti
Curiosando fra le email e le comunicazioni di servizio dell'equipaggio di Talos-I ho trovato davvero di tutto. Intrecci amorosi, insubordinazioni, progetti segreti, diari privati. E anche le indicazioni per una imprevista caccia al tesoro. Pare che ci fosse un gruppo ben assortito di nerd, sulla stazione spaziale, che regolarmente si incontrava per giocare di ruolo, ad una versione cartacea di Arx Fatalis (uno dei primi progetti videoludici di Arkane Studios). La creativa Abigail Foy, dungeon master di grande esperienza, organizzava però anche attività di altro tipo. Aveva ad esempio consegnato ai suoi compagni di gioco quattro mappe disegnate a mano, indispensabili per trovare dei numeri "nascosti" nelle stanze della stazione, coi quali il gruppo avrebbe dovuto ricomporre un codice segreto. Dopo l'attacco dei Typhoon, tocca ovviamente al giocatore recuperare le mappe e scovare la combinazione, in una delle missioni secondarie più ispirate di Prey. Quando, durante la mia avventura nei panni di Morgan Yu, ho trovato la prima mappa, sono rimasto semplicemente estasiato. Un po' perché tutta la storia di Abigail mi ha riportato con la testa alle vecchie sessioni di D&D organizzate ai tempi del liceo.
Anche nell'ottimo Life is Strange: Before the Storm è possibile dedicarsi ad un Gioco di Ruolo "Pen & Paper", impegnandosi in una partita "sceneggiata" in maniera eccezionale. Nel contesto di Prey, tuttavia, trovo che dettagli del genere assumano un valore ben diverso. La stazione Talos-I è letteralmente costellata di documenti, libri, trascrizioni, che rappresentano una miniera inestinguibile di informazioni sul mondo e sui personaggi di gioco. Trovarne uno che per qualche motivo cattura la nostra attenzione ha l'effetto di esaltare ancora di più il lavoro di caratterizzazione operato dal team di sviluppo, e ci fa intuire quanto sia prezioso questo "sottofondo invisibile" distribuito nelle ambientazioni. Pensiamo che in fondo sarebbe bastata una disattenzione per perderci quell'elemento che abbiamo trovato così interessante, siamo portati a leggere più attentamente il resto dei documenti, ad esplorare le ambientazioni con più impegno. Hermen Hulst, il direttore di Guerrilla Games, durante un'intervista relativa ad Horizon: Zero Dawn, mi diceva che quando crei un mondo di gioco il 90% di quello che scrivi esiste soltanto per dare valore al 10% che entrerà effettivamente in contatto con il giocatore. La sfida delle Immersive Sim (come vengono chiamate le avventure sul modello di Bioshock e affini) è quella di riuscire ad infilare nel gioco anche il 90% di "paratesti" che di solito resta "sommerso", distante dal prodotto. Creare uno spazio di "iperlink", una rete di connessioni, di rimandi, di elementi che indichino qualcosa che va oltre i confini dello spazio ludico. Prey non inventa questo concept: semplicemente lo recupera da grandi capolavori come Thief, Deus Ex, System Shock, e lo applica ad uno dei più affascinanti universi sci-fi che la storia del videogame ricordi. E ribadisce, così, quanto sia importante l'attenzione per i dettagli, soprattutto in rapporto con la loro moltitudine.
Reazioni (s)composte
Senua è uno di quei personaggi che ti si incollano addosso fin dai primi momenti di gioco. L'interpretazione di Melina Juergens è esplicitamente fisica, eccezionalmente comunicativa: tutta concentrata su sguardi penetranti e inquisitori, su gesti espliciti e plateali, intrisi di una "naturale teatralità". Nelle fasi introduttive di Hellblade Senua guarda il giocatore per condividere con lui l'orrore del mondo che esiste nella sua testa, l'ansia del fallimento, la paura costante della morte. Si accascia a terra, schiacciata da una forza invisibile. Sullo schermo compare un messaggio, spiega che se il giocatore morirà troppe volte la piaga nera che infetta il cervello di Senua avrà il sopravvento, e i dati di salvataggio verranno cancellati per sempre. Quando mi sono trovato di fronte a questa schermata per la prima volta un sorriso di meravigliata adorazione mi si è stampato sul volto. Ho trovato la scelta del team di sviluppo semplicemente perfetta, intelligente e ardita. Inserire un sistema di permadeath significava soprattutto due cose: chiedere al giocatore una partecipazione più attiva, un livello di attenzione maggiore rispetto a quello che in tanti sono soliti investire nei racconti interattivi, e al contempo mettere l'utente nella stessa condizione della protagonista. La sceneggiatura di Senua's Sacrifice è stata scritta dopo aver raccolto testimonianze di pazienti affetti da gravi forme di psicosi e schizofrenia. Uno degli elementi ricorrenti in queste testimonianze è la sensazione angosciosa che la morte sia in agguato, dietro l'angolo. Per trasmettere questa stessa inquietudine -una sorta di apprensione continua e ineliminabile- il team di sviluppo ha ideato una soluzione che non può che essere definita brillante. Sono rimasto davvero di sasso quando ho scoperto che una parte consistente del pubblico si è lamentata di questa scelta, facendo un chiasso sproporzionato e addirittura arrivando a chiedere un rimborso per il prodotto appena acquistato.
Sono rimasto di contro molto divertito quando si è scoperto che il sistema di permadeth era in verità un bluff: il gioco non cancella i salvataggi neppure dopo un numero spropositato di game over. È un grande tocco di classe, dal momento che -proprio come succede per chi soffre di psicosi- Hellblade ti porta ad avere paura di qualcosa che non esiste, di una "morte" soltanto potenziale e immaginata. Ma a colpirmi, in tutta la questione, è stata anche la compostezza di Ninja Theory. Di fronte agli schiamazzi di certi utenti il team di sviluppo è rimasto impassibile, fiducioso dell'efficacia della sua idea. Hellblade non è un gioco perfetto. Ha un sistema di combattimento semplicistico, meccanico, che si muove spesso sul confine della noia. Ma è un gioco coraggioso, diverso, prezioso. Costruito sulla base di una fiducia incrollabile nella propria visione creativa, fieramente indipendente e anche per questo unico.
Sospensione dell'incredulità
Siamo arrivati in fondo, la faccio breve. Una delle parole che ho usato di più negli articoli su Super Mario Odyssey è: inesauribile. E non a caso, visto che il platform Nintendo sembra non finire mai. Se già non fosse bastata la continua meraviglia provata durante la scoperta dei mondi di gioco, arrivati alla "conclusione" dell'avventura - oltre i titoli di coda - Odyssey continua a stupire. Prima ti spedisce in un regno tutto nuovo, e poi materializza dei blocchi lunari in tutti i livelli precedentemente esplorati. Il momento speciale di Super Mario Odyssey è stato quando ho lanciato Cappy contro uno di questi blocchi. Il gioco mi ha informato che nel regno in questione erano arrivare nuove Lune, ed io mi sono precipitato a controllarne la lista. Solo per scoprire che il numero delle prove inedite era sostanzialmente paragonabile a quello di partenza, già clamoroso. In pratica, alla fine di Super Mario Odyssey si sblocca un altro Super Mario Odyssey.
La quantità di puzzle, prove di abilità e segreti che Nintendo ha nascosto negli stage è semplicemente impressionante, al punto che in certi casi si fatica a credere che un numero così esorbitante di trovate possa coesistere in mondi di dimensioni comunque contenute. Super Mario Odyssey è uno dei giochi migliori dell'anno perché tutta la sua parabola si concentra su un'emozione inestimabile: la sorpresa. Sono rimasto un po' stranito quando ho sentito che alcuni lo trovano un capitolo un po' "fuori fuoco", irregolare. Qualcuno avrebbe forse preferito la struttura rassicurante e tradizionale da platform classico, ma io credo che Odyssey sia meraviglioso proprio perché è così: diverso dal solito, mobile, sconfinato. Un titolo, insomma, che può essere descritto con aggettivi che raramente trovano spazio in un mercato che preferisce andare sul sicuro. Un platform inaspettato, atipico e sorprendente.
Everyeye Awards: i cinque migliori giochi del 2017 secondo Francesco Fossetti
Francesco Fossetti svela i suoi videogiochi preferiti del 2017: da Super Mario Odyssey a Prey, passando per Zelda e Hellblade Senua's Sacrifice.
I cinque migliori giochi dell'anno, secondo me. Sembra facile fare una classifica del genere, soprattutto quando di mezzo c'è una prospettiva squisitamente personale, senza nessuna pretesa di ufficialità: perché in fondo posso metterci davvero tutto quello che mi pare. Però io sono qui di fronte alla pagina bianca e mi agito, scrivo due righe e poi cancello, mi alzo, cammino in cerchio attorno alla scrivania. Il fatto è che mi piacerebbe che ad essere "privata" non fosse solamente la mia selezione, ma in qualche modo anche la maniera in cui ve la racconto. Di solito quando scrivo un articolo "istituzionale" (Todd mi prende sempre in giro quando uso questo termine) evito la prima persona come la peste, e cerco di parlare dei "massimi sistemi" piuttosto che delle piccole cose. E allora stavolta voglio fare il contrario, e raccontarvi i cinque momenti che mi hanno in qualche modo convinto che un videogioco fosse speciale.
E visto che prima di partire si tirano le somme dell'anno appena trascorso, anche in questo caso voglio andare fuori dagli schemi. Il 2017 per me è stato importante non tanto per la quantità ed il ritmo delle uscite di rilievo: piuttosto, perché per la prima volta mi sembra di avvertire un senso di appartenenza nuovo, che serpeggia tra la comunità di videogiocatori.
I videogame stanno ormai diventando un elemento centrale della cultura popolare, e nonostante qualche sacca di resistenza è sempre più difficile incontrare persone che li considerino "oggetti" completamente alieni al mondo in cui viviamo, sciocchezze da ragazzini. Sarà che le generazioni forgiate dall'Amiga e dal NES sono diventate grandi, sarà che i ventenni di oggi sono quelli che da bambini avevano la Wii (e sì: dieci anni fa ce l'avevano davvero tutti). Fatto sta che siamo finalmente arrivati al punto in cui se ci incontriamo al bar, io ti parlo di Super Mario Odyssey e tu cadi dalle nuvole come se neppure lo conoscessi, possiamo affermare con discreta serenità che in fondo, tra i due, quello che fa la figura del fesso sei tu. Non so voi, ma io la trovo una cosa bellissima.
Il peso delle mele
Ho giocato a Breath of the Wild in preda ad un'insaziabile voracità videoludica, sacrificando il sonno e dedicando tutto il mio tempo libero all'ultima avventura di Link. Un po' per dovere (l'embargo per la review è una scadenza che impone ritmi serrati), un po' per il magnetismo incredibile del grande capolavoro targato Nintendo.
Ci ho giocato, tra le altre cose, sospeso in quella "solitudine" surreale in cui di tanto in tanto ci troviamo noi addetti al settore. A poche settimane dall'uscita esisti soltanto tu e il gioco: nessuna "wiki", nessuna condivisione sui social, nessun suggerimento. Mentre provate ad immaginare quali conseguenze possa determinare questa situazione ogni volta che esce un nuovo Souls, devo dire che la trovo una condizione in qualche modo "privilegiata", e forse addirittura indispensabile per il nostro lavoro. È in questi momenti, infatti, che possiamo creare un rapporto con il gioco che sia esclusivamente personale, senza interferenze esterne e influenze critiche: siamo di fronte ad uno spazio bianco da riempire con le nostre sensazioni, il luogo perfetto per concentrarsi su impressioni private.
Eppure, una delle grandi magie di Breath of the Wild si è compiuta quando il titolo è stato consegnato all'intera platea di videogiocatori. Sulla rete sono infatti spuntati centinaia di video relativi alle curiosità del gioco, ai colpi di genio scoperti per caso da questo o quell'utente, alle soluzioni più ardite per i puzzle più semplici.
È stato solo allora che ho scoperto il peso delle mele. Avete presente le piattaforme a pressione che all'interno dei sacrari servono per aprire porte o attivare meccanismi? Ecco: per tenerle premute bastano dieci mele. Le tiri fuori dall'inventario, le lasci sul pulsantone e il gioco è fatto. Vanno bene anche due o tre spade, qualche corno di Boblin, funghi e durian (!). Insomma, fate un po' voi.
Breath of the Wild è un gioco così: deciso ad inseguire il sogno di una libertà integrale in maniera tanto coerente che ti permette di disinnescare un'intera categoria di enigmi. Se non hai voglia di scervellarti per capire come trasportare il blocco che dovrebbe essere posizionato sulla piattaforma a pressione, puoi buttarci sopra un mucchio di frutta e verdura. Che poi, a dirla tutta, anche per pensare ad una cosa del genere c'è bisogno di un po' di ingegno, un pizzico di pensiero laterale e tanta voglia di osare. Anche questa "soluzione alternativa" ha una sua eleganza. Devo ammettere di averla usata un paio di volte, persino nell'ultimo DLC.
Nei mesi successivi all'uscita di Breath of the Wild, quando ormai avevo già abbandonato la splendida Hyrule, sono rimasto molto affascinato dalle trovate che esploravano i limiti della fisica di gioco. C'è gente che è arrivata alla fine di un sacrario facendo detonare al momento giusto una bomba, dopo averci rimbalzato sopra con lo scudo (utilizzato a mo' di skateboard), per farsi proiettare in aria dall'esplosione.
Breath of the Wild è davvero incredibile. È il punto d'incontro tra il sandbox e l'open world, l'esempio lampante di come inventare una "fisica giocabile" (e non una "fisica estetica") possa riscrivere interi paradigmi videoludici.
L'elefante nella stanza
C'è un momento, in Uncharted: L'Eredità Perduta, in cui tutto si ferma. Si fermano le sparatorie, le corse folli, le trappole e i pericoli, il fango e il sudore; tutto diventa un sottofondo indistinto, impastato e lontano. Quasi intangibile.
Chloe e Nadine si trovano all'improvviso sul dorso di un piccolo elefante. La bestia avanza piano, senza fretta. Raccolgono un frutto, lo consegnano al loro inaspettato compagno. È un momento di accordo sottile con la natura e con il mondo, uno di quegli attimi in cui ti trovi a chiederti se le scelte che hai fatto nella vita sono quelle giuste. Se in fondo non sia possibile mandare tutto all'aria e seguire "il segno d'un'altra orbita".
Quest'attimo sospeso e surreale mi ha ricordato un'altra scena della saga di Uncharted, del capitolo che resta probabilmente il migliore. Nathan, sopravvissuto per miracolo ad un catastrofico deragliamento, si risveglia in un piccolo villaggio tibetano. Cammina nel freddo pungente del mattino, tra gli schiamazzi delle galline, le case povere, i pozzi e i tempietti votivi costruiti con pochi mattoni. Compare, d'un tratto, la sagoma nera di una bestia enorme e tranquilla: uno Yak. Nathan si avvicina, allunga la mano. E sembra quasi di sentirlo, il pelo ruvido, il respiro caldo e placido.
Così come per le giraffe di The Last of Us, per Naughty Dog l'incontro inatteso con un animale esotico è il momento dell'epifania, l'attimo di una insperata sintonia con un mondo altrimenti violento, spietato, affannoso. Ed è lì per ricordaci, in primis, che raccontare una storia è soprattutto questione di ritmo. Di sbalzi, di frenate improvvise e ripartenze, di corse folli che fanno impazzire il cuore, ma anche di pause e silenzi. Ce ne sono un sacco, di titoli "lineari": di quelli che vengono chiamati "story driven" perché è soprattutto il racconto a portarli avanti. Ma solo pochi riescono a trovare il giusto equilibrio, a tenere un passo sostenuto, stimolante ma naturale. L'Eredità Perduta lo fa con inaspettata maestria, avvicinandosi proprio all'andamento del grandissimo Among Thieves. Rispetto all'ultimo capitolo regolare della serie rivendica un piglio più avventuroso, leggero, ma senza dimenticare una dimensione spiccatamente umana.
Continuo a ricordarmelo, quel breve viaggio sul dorso di un piccolo elefante. Mentre scrivo di notte, nel silenzio della casa vuota, e tutto si ferma: il mercato dei day one, gli embarghi improbabili, le partenze improvvise, il chiasso dei forum e dei social; tutto diventa un sottofondo indistinto, impastato e lontano. Quasi intangibile...
Tesori nascosti
Curiosando fra le email e le comunicazioni di servizio dell'equipaggio di Talos-I ho trovato davvero di tutto. Intrecci amorosi, insubordinazioni, progetti segreti, diari privati. E anche le indicazioni per una imprevista caccia al tesoro. Pare che ci fosse un gruppo ben assortito di nerd, sulla stazione spaziale, che regolarmente si incontrava per giocare di ruolo, ad una versione cartacea di Arx Fatalis (uno dei primi progetti videoludici di Arkane Studios).
La creativa Abigail Foy, dungeon master di grande esperienza, organizzava però anche attività di altro tipo. Aveva ad esempio consegnato ai suoi compagni di gioco quattro mappe disegnate a mano, indispensabili per trovare dei numeri "nascosti" nelle stanze della stazione, coi quali il gruppo avrebbe dovuto ricomporre un codice segreto. Dopo l'attacco dei Typhoon, tocca ovviamente al giocatore recuperare le mappe e scovare la combinazione, in una delle missioni secondarie più ispirate di Prey.
Quando, durante la mia avventura nei panni di Morgan Yu, ho trovato la prima mappa, sono rimasto semplicemente estasiato. Un po' perché tutta la storia di Abigail mi ha riportato con la testa alle vecchie sessioni di D&D organizzate ai tempi del liceo.
Anche nell'ottimo Life is Strange: Before the Storm è possibile dedicarsi ad un Gioco di Ruolo "Pen & Paper", impegnandosi in una partita "sceneggiata" in maniera eccezionale. Nel contesto di Prey, tuttavia, trovo che dettagli del genere assumano un valore ben diverso. La stazione Talos-I è letteralmente costellata di documenti, libri, trascrizioni, che rappresentano una miniera inestinguibile di informazioni sul mondo e sui personaggi di gioco. Trovarne uno che per qualche motivo cattura la nostra attenzione ha l'effetto di esaltare ancora di più il lavoro di caratterizzazione operato dal team di sviluppo, e ci fa intuire quanto sia prezioso questo "sottofondo invisibile" distribuito nelle ambientazioni.
Pensiamo che in fondo sarebbe bastata una disattenzione per perderci quell'elemento che abbiamo trovato così interessante, siamo portati a leggere più attentamente il resto dei documenti, ad esplorare le ambientazioni con più impegno.
Hermen Hulst, il direttore di Guerrilla Games, durante un'intervista relativa ad Horizon: Zero Dawn, mi diceva che quando crei un mondo di gioco il 90% di quello che scrivi esiste soltanto per dare valore al 10% che entrerà effettivamente in contatto con il giocatore. La sfida delle Immersive Sim (come vengono chiamate le avventure sul modello di Bioshock e affini) è quella di riuscire ad infilare nel gioco anche il 90% di "paratesti" che di solito resta "sommerso", distante dal prodotto. Creare uno spazio di "iperlink", una rete di connessioni, di rimandi, di elementi che indichino qualcosa che va oltre i confini dello spazio ludico.
Prey non inventa questo concept: semplicemente lo recupera da grandi capolavori come Thief, Deus Ex, System Shock, e lo applica ad uno dei più affascinanti universi sci-fi che la storia del videogame ricordi. E ribadisce, così, quanto sia importante l'attenzione per i dettagli, soprattutto in rapporto con la loro moltitudine.
Reazioni (s)composte
Senua è uno di quei personaggi che ti si incollano addosso fin dai primi momenti di gioco. L'interpretazione di Melina Juergens è esplicitamente fisica, eccezionalmente comunicativa: tutta concentrata su sguardi penetranti e inquisitori, su gesti espliciti e plateali, intrisi di una "naturale teatralità".
Nelle fasi introduttive di Hellblade Senua guarda il giocatore per condividere con lui l'orrore del mondo che esiste nella sua testa, l'ansia del fallimento, la paura costante della morte. Si accascia a terra, schiacciata da una forza invisibile. Sullo schermo compare un messaggio, spiega che se il giocatore morirà troppe volte la piaga nera che infetta il cervello di Senua avrà il sopravvento, e i dati di salvataggio verranno cancellati per sempre.
Quando mi sono trovato di fronte a questa schermata per la prima volta un sorriso di meravigliata adorazione mi si è stampato sul volto. Ho trovato la scelta del team di sviluppo semplicemente perfetta, intelligente e ardita. Inserire un sistema di permadeath significava soprattutto due cose: chiedere al giocatore una partecipazione più attiva, un livello di attenzione maggiore rispetto a quello che in tanti sono soliti investire nei racconti interattivi, e al contempo mettere l'utente nella stessa condizione della protagonista.
La sceneggiatura di Senua's Sacrifice è stata scritta dopo aver raccolto testimonianze di pazienti affetti da gravi forme di psicosi e schizofrenia. Uno degli elementi ricorrenti in queste testimonianze è la sensazione angosciosa che la morte sia in agguato, dietro l'angolo. Per trasmettere questa stessa inquietudine -una sorta di apprensione continua e ineliminabile- il team di sviluppo ha ideato una soluzione che non può che essere definita brillante.
Sono rimasto davvero di sasso quando ho scoperto che una parte consistente del pubblico si è lamentata di questa scelta, facendo un chiasso sproporzionato e addirittura arrivando a chiedere un rimborso per il prodotto appena acquistato.
Sono rimasto di contro molto divertito quando si è scoperto che il sistema di permadeth era in verità un bluff: il gioco non cancella i salvataggi neppure dopo un numero spropositato di game over. È un grande tocco di classe, dal momento che -proprio come succede per chi soffre di psicosi- Hellblade ti porta ad avere paura di qualcosa che non esiste, di una "morte" soltanto potenziale e immaginata.
Ma a colpirmi, in tutta la questione, è stata anche la compostezza di Ninja Theory. Di fronte agli schiamazzi di certi utenti il team di sviluppo è rimasto impassibile, fiducioso dell'efficacia della sua idea.
Hellblade non è un gioco perfetto. Ha un sistema di combattimento semplicistico, meccanico, che si muove spesso sul confine della noia. Ma è un gioco coraggioso, diverso, prezioso. Costruito sulla base di una fiducia incrollabile nella propria visione creativa, fieramente indipendente e anche per questo unico.
Sospensione dell'incredulità
Siamo arrivati in fondo, la faccio breve. Una delle parole che ho usato di più negli articoli su Super Mario Odyssey è: inesauribile. E non a caso, visto che il platform Nintendo sembra non finire mai. Se già non fosse bastata la continua meraviglia provata durante la scoperta dei mondi di gioco, arrivati alla "conclusione" dell'avventura - oltre i titoli di coda - Odyssey continua a stupire. Prima ti spedisce in un regno tutto nuovo, e poi materializza dei blocchi lunari in tutti i livelli precedentemente esplorati.
Il momento speciale di Super Mario Odyssey è stato quando ho lanciato Cappy contro uno di questi blocchi. Il gioco mi ha informato che nel regno in questione erano arrivare nuove Lune, ed io mi sono precipitato a controllarne la lista. Solo per scoprire che il numero delle prove inedite era sostanzialmente paragonabile a quello di partenza, già clamoroso. In pratica, alla fine di Super Mario Odyssey si sblocca un altro Super Mario Odyssey.
La quantità di puzzle, prove di abilità e segreti che Nintendo ha nascosto negli stage è semplicemente impressionante, al punto che in certi casi si fatica a credere che un numero così esorbitante di trovate possa coesistere in mondi di dimensioni comunque contenute.
Super Mario Odyssey è uno dei giochi migliori dell'anno perché tutta la sua parabola si concentra su un'emozione inestimabile: la sorpresa.
Sono rimasto un po' stranito quando ho sentito che alcuni lo trovano un capitolo un po' "fuori fuoco", irregolare. Qualcuno avrebbe forse preferito la struttura rassicurante e tradizionale da platform classico, ma io credo che Odyssey sia meraviglioso proprio perché è così: diverso dal solito, mobile, sconfinato. Un titolo, insomma, che può essere descritto con aggettivi che raramente trovano spazio in un mercato che preferisce andare sul sicuro. Un platform inaspettato, atipico e sorprendente.
Altri contenuti per Everyeye Awards 2017