La felicità è reale solo se condivisa: pensieri di un videogiocatore

Una riflessione sulla mia crescita videoludica e biologica che, come di pari passo, hanno camminato parallelamente.

La felicità è reale solo se condivisa: pensieri di un videogiocatore
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"Happiness only real when shared". Ovvero, "la felicità è reale solo se condivisa". È ciò che Christopher McCandless, estremamente debilitato dalla fame e da un avvelenamento da bacche, annotò con molta fatica ai margini di una pagina del Dottor Zivago, poco tempo prima di morire in solitudine all'interno di un piccolo bus nelle terre selvagge dell'Alaska. Due anni prima, appena laureato a pieni voti e con un futuro potenzialmente agiato davanti a sé, Chris decise di abbandonare tutto e di intraprendere un viaggio di due anni da un capo all'altro degli Stati Uniti, per fuggire dall'ipocrisia e dalla falsità della società moderna e riscoprire sé stesso grazie alla quiete della natura incontaminata. La realtà è che in questo lasso di tempo, tra pellegrinaggi, esperienze accumulate e perfino lo spettro della morte imminente, McCandless realizzò di credere all'esatto opposto delle convinzioni che in origine lo avevano spinto a lasciare la sua vita civile.

Come alcuni di voi sapranno, le avventure di Christopher sono state raccontate da Sean Penn nel suo "Into the Wild", capolavoro cinematografico del 2007 che secondo me dovrebbe essere recuperato da ogni buon patito della Settima Arte. Giunti a questo punto potreste chiedervi in quale direzione si stia dirigendo questo discorso, che non ha la finalità di avallare o confutare i pensieri di McCandless, e la risposta è presto detta.

Per indole personale, ho sempre appoggiato l'originale scuola di pensiero del celebre esploratore ma si da il caso che al momento mi trovi, per svariate motivazioni, a rivedere le mie posizioni in merito alla questione e no, fortunatamente non scrivo da un bus abbandonato in Alaska e non sono prossimo alla dipartita. Dopo aver rivisto il film a 14 anni di distanza dal suo debutto, ho avuto anche io una sorta di epifania, profondamente legata a interrogativi precisi: quanto il videogioco, inteso come medium, può essere applicato a questa riflessione? È possibile che un percorso psicologico come quello che lo sfortunato Christopher ha vissuto possa essere replicato e applicato al mondo videoludico?

Il pensiero di un gamer

Non siamo qui per dibattere se videogiocare possa rendere felici o meno: ci sono diversi studi scientifici che lo dimostrano già, non ultimo quello effettuato nel 2020 dal professor Andrew Przybylski dell'università di Oxford. Grazie alla collaborazione di EA e Nintendo, gli scienziati hanno analizzato i comportamenti e le abitudini di gioco di più di 3200 giocatori di Plant vs. Zombies: Battle for Neighborville (per EA) e Animal Crossing: New Horizons (per Nintendo), includendo nella ricerca anche le emoticon da loro utilizzate e gli achievement sbloccati.

Dopo attente analisi scaturite da questionari somministrati ai giocatori, è stato provato che dopo lunghe sessioni di gioco questi si sentivano molto più felici e spensierati rispetto agli altri. L'aspetto di questo studio sul quale vorrei soffermarmi è quello relativo alla "socialità" dell'esperimento: entrambi i prodotti presi in esame infatti condividono funzionalità social e multiplayer e permettono agli utenti di interagire tra loro in-game.

Un altro elemento da tenere in considerazione è anche il momento storico dell'esperimento, caratterizzato come tutti sappiamo dal confinamento sociale dovuto alla pandemia, al tempo appena iniziata. Sembra quindi che l'aspetto social, come confermato dallo stesso Przybylski, sia stato un fattore decisivo per giungere alle conclusioni di cui sopra con lo studio. A prescindere da questo però non è importante il mondo in cui si gioca ma il piacere e il divertimento che il gaming in quanto tale sa elargire a chi lo pratica.

Collegandoci a Into The Wild, il film suddivide il percorso di evoluzione e maturazione psicologico di Chris in 5 capitoli, ognuno dei quali corrisponde a una fase della sua "nuova" vita in solitudine, con l'incipit che coincide proprio con l'inizio del suo viaggio di riscoperta. Ecco, credo che la maggior parte di noi videogiocatori, prima o poi, vada incontro a un percorso simile, che scandisce la nostra evoluzione personale e la percezione del medium, un percorso che ha inizio proprio da quando cominciamo a esplorare i mondi di poligoni. Chiaramente, ciascuno di noi prende la sua strada e vive questo percorso in modo diverso: ecco perché potrebbe giungere a conclusioni differenti da quelle degli altri.

Dalla nascita...

Determinati videogiochi - o specifici momenti vissuti all'interno di un'avventura - sanno farci ricordare di quanto fossimo felici nel momento in cui li abbiamo giocati. Nel mio caso ad esempio ho mosso i primi passi digitali nei mondi di SEGA e Nintendo, in un'epoca lontana che racchiude alcune delle mie memorie più pure e luminose.

Del resto, nel tardo pomeriggio nella casa in montagna dopo le fatiche di una giornata col maestro di sci, cosa potrebbe essere più esaltante di segnare un gol dal centrocampo dopo aver fatto un paio di palleggi? Segnarlo con Allejo su International Superstar Soccer Deluxe, un capolavoro calcistico targato Konami. Mi ricordo però che, alla quasi psichedelica scritta "GOAL" che appariva su schermo a ogni rete segnata (o subita), accompagnata dalla voce scatenata del commentatore, la mia serotonina schizzava a valori inimmaginabili.

Segnare un goal in quel gioco non era esattamente una passeggiata, motivo per cui una rete di tale fattura significava - più o meno letteralmente - il mondo per un bimbo come me. Ed ero da solo. Quei momenti di allegria non li condividevo con gli amichetti o sui social e non sentivo il bisogno di renderli pubblici o di sbandierarli a destra e a manca. Ero felice e non importava altro. Era un momento di scoperta che i videogiochi sapevano offrirmi, specularmente a quanto il mondo reale aveva da offrire a Christopher all'inizio del suo viaggio: un'uscita dalla comfort zone, una prima volta, un insieme di possibilità inesplorate.

Detto questo, anche se il filtro della puerile innocenza non mi permetteva di vedere altro in quei momenti di felicità, non significa però che non provassi piacere nel giocare in compagnia, soprattutto col mio "partner in crime" preferito: papà. Da possessore di brevetto, mi ha insegnato i rudimenti del volo grazie alle decine di ore passate insieme su Flight Simulator 95 con tanto di joystick Sidewinder Force Feedback Pro. E quanti nazisti abbiamo ucciso insieme su Wolfenstein 3D (sì, un padre di ampie vedute in ambito PEGI, peraltro all'epoca ancora inesistente)!

... all'adolescenza...

Poi è arrivata l'adolescenza e parlo soprattutto di quella videoludica. Da neo trentaquattrenne faccio parte di una generazione la cui crescita anagrafica è avvenuta su un binario praticamente parallelo a quella del medium videoludico e infatti si potrebbe dire che negli anni della mia adolescenza anche il videogioco "moderno" stesse attraversando un percorso di crescita.

Parliamo dell'era di Playstation 2, SEGA Dreamcast, Nintendo GameCube e la prima Xbox di Microsoft, delle console leggendarie che vantavano parchi titoli sterminati (o alla peggio ampi) di valore semplicemente inarrivabile. In un periodo di vita come quello adolescenziale, durante il quale i concetti di socialità, asocialità/solitudine e felicità assumono un valore determinante, per un solitario come me il videogioco ha rappresentato una fonte inesauribile di momenti felici. Come Christopher, anche io ho una incredibile passione per i viaggi che ho avuto la fortuna di poter assecondare e alimentare fin da quando ero piccolo. Provo felicità nel vedere posti nuovi, paesaggi mozzafiato, culture diverse e lo stesso valeva quando esploravo i mondi virtuali del tempo. Ricordo ancora perfettamente lo stupore che ho provato nel cavalcare per la prima volta le Terre Proibite di Shadow of the Colossus, nell'osservare le sue architetture affascinanti e abbandonate ma soprattutto ho ancora cristallizzata l'emozione scaturita dall'aver sconfitto il colosso Gaius, accasciatosi al suolo - con la grazia tipica delle produzioni di Ueda - per mano della "mia" spada.

E poi, come dimenticare quel parco giochi in 3D chiamato GTA III o le mie esplorazioni galattiche nei panni di Shepard? Le scorribande in compagnia di Garrus e il solenne Javik, assieme ai quali ho distrutto un Razziatore battagliando senza sosta tra le rovine del pianeta Tuchanka, resteranno sempre impresse nella mia memoria. L'elenco di quei momenti felici - anche in compagnia di amici su giochi come SmackDown Here Comes The Pain, Dragon Ball Z: Budokai Tenkaichi 3 o Tekken Tag Tournament - è praticamente infinito, così come le ore "perse" che invece avrei dovuto dedicare allo studio (e in questo credo di avere la comprensione di molti di voi).

Insomma, mi piaceva giocare da solo ma non ero un asociale e non userei questo aggettivo per definire McCandless. Non aveva problemi a socializzare con altre persone, né tantomeno ad apprezzare il tempo passato in compagnia. Semplicemente, per svariati motivi, non era la sua dimensione primaria. Qualcosa lo attraeva fuori da questa, in favore di una più introspettiva, più solitaria. Chi vi scrive si rivede molto in lui, soprattutto su questo fronte, sia nella vita reale che in quella da gamer. I videogiochi che giochiamo possono dire qualcosa sulla nostra personalità: dimmi a cosa giochi e ti dirò chi sei.

... all'età adulta

Le generazioni di Playstation 3 e Playstation 4 hanno rappresentato per me ciò che l'Alaska ha significato per Christopher: un modo per spingersi alla ricerca della felicità nella solitudine. Con qualche rarissima eccezione - parlo ad esempio del multiplayer di Call of Duty Modern Warfare e Black Ops - mai come in queste due passate generazioni videoludiche la mia tendenza al gioco in solitaria è stata così lampante e manifesta, soprattutto in quella Playstation 4.

Ho provato gioia osservando le giraffe nella Salt Lake City in The Last of Us e stupore nel ritrovarmi al cospetto di Jörmungandr nel Lago dei Nove in God of War, uno stupore che mi ha accompagnato nell'esplorazione del maestoso Egitto di AC: Origins grazie al mai troppo lodato Discovery Tour. Una menzione a parte devo dedicarla al mio gioco preferito in assoluto, quello che più di tutti gli altri mi ha fatto provare ogni tipo di emozione, sia per la sua impostazione ludica che per la sua ambientazione: Red Dead Redemption 2 (ecco la nostra recensione di Red Dead Redemption 2).

Sembrava quasi che Rockstar avesse fatto indagini sulla mia persona, così da catturarmi su molteplici fronti, a partire dal setting e dai temi affrontati, fino ai paesaggi, alla colonna sonora e al concetto di viaggio come crescita, maturazione e cambiamento. Questi elementi sono stati amalgamati alla perfezione ed è per questo che mi hanno regalato emozioni straordinarie, vissute soltanto in compagnia di personaggi incredibilmente umani e sfaccettati.

Eppure, proprio come è accaduto a Christopher, qualcosa ha cominciato a modificare questi equilibri. Dopo svariati mesi trascorsi nel suo bus in Alaska, fattori esterni ma anche inerenti al suo percorso introspettivo hanno intaccato le sue certezze e l'hanno spinto a voler tornare alla società che aveva abbandonato ma forte di un nuovo modo di approcciarsi alla vita. Analogamente, anche io mi sono trovato in una situazione psicologica a tratti simile. Ho dovuto riflettere su determinati aspetti e in alcuni casi rivedere le mie convinzioni, in una fase di transizione che non è ancora terminata. È come se fossi giunto anche io in Alaska, per riconsiderare alcuni aspetti della mia vita extravideoludica ed eventualmente decidere di condividere i momenti di felicità per renderli ancor più intensi. Dal momento però che i videogiochi ricoprono una grossa parte della mia vita, sia per passione che per lavoro, tale transizione inevitabilmente riguarda anche questi.

Per tale motivo, ultimamente ho cominciato a rivivere alcuni momenti della mia vita da gamer insieme ad altri: che sia rigiocando una specifica parte o raccontando un determinato momento di un gioco, mi è capitato di provare sensazioni diverse rispetto a quanto già sperimentato in solitaria. Capite bene come sia cascato a fagiolo un titolo come It Takes Two, che fa della cooperazione e della condivisione la sua matrice ludica fondamentale. Giocarlo con un amico durante il primo lockdown è stata un'esperienza difficilmente raccontabile a parole e ha reso l'opera di Fares un vero capolavoro ai miei occhi. Per altri dettagli, vi consigliamo di dare un occhio alla nostra recensione di It Takes Two.

Era da parecchio tempo che questo amico non videogiocava, e il lockdown lo ha spinto a comprare una Playstation 4: grazie ad A Way Out, si è riappassionato fortemente al medium che così tanto condiziona le nostre vite e in questi due anni - sotto la mia "guida" - ha recuperato un sostanzioso numero di titoli che dovrebbero fare parte della carriera di ogni gamer degno di questo nome. Immaginate la mia emozione quando mi ha telefonato dopo aver terminato l'epilogo di Red Dead Redemption 2: nel parlarne assieme a lui mi sono trovato a condividere uno dei miei "momenti speciali" con una persona importante, a riprova di quanto mi abbia fatto bene fare parte della sua rinascita videoludica.

Quindi, mi sono chiesto: sono arrivato anche io al capitolo "Conquista della Saggezza" della mia vita? Se sì, di quale vita? Solo il tempo mi darà una risposta ma almeno ad oggi ho una certezza. Che sia in compagnia oppure no, in giochi single player o multiplayer, la costante per tutti noi gamer rimarrà sempre l'assunto che giocare ci rende felici. Per davvero.