In origine è stato un annuncio quasi distaccato, come molti che hanno preceduto la fine di una stagione. Seguito però da un'attesa collettiva febbrile, e da una serie di esplosioni, a loro volta preludio del collasso integrale: così l'Isola di Fortnite, teatro delle più ricche, seguite e diffuse battaglie multiplayer dell'ultimo anno di storia videoludica occidentale è stata risucchiata in un oscuro e potentissimo buco nero. Ad osservarne la fine centinaia di migliaia di donne e uomini, ragazzi e ragazze: nel privato di una piccola cameretta, chiusa a chiave per paura di interruzioni; nascosti tra gli astucci scolastici, per non farsi vedere dalla maestra; magari sullo schermo del cubicolo durante le ore di lavoro, fuori dagli sguardi indiscreti del burbero capo di turno.
A giocarla, invece, questa fine, altre centinaia di migliaia di figure indistinguibili, adornatesi per l'occasione con i decori più assurdi, oramai tipici del gioco Epic Games: il web è già stracolmo dei loro ultimi momenti, ricco di questi documenti storiografici di un fenomeno che per molti sembra il tema del giorno, ma che invece è già passato. Mentre infatti stampa, influencer e giornali di sorta annunciavano la temporanea fine di uno dei luoghi più frequentati degli ultimi anni, la sua community attiva già esauriva le lacrime dovute al passato, e si proiettava nel futuro (in particolare a Fortnite capitolo 2 e la nuova mappa): quali nuove avventure li aspettano? E, soprattutto, quali nuovi luoghi impareranno a chiamare casa? È questo il più importante risultato che emerge dalla polvere dell'esplosione mediatica di quanto avvenuto sui server Epic Games: la diffusione culturale del fenomeno Fortnite è oramai tale che quest'ultimo ha travalicato la semplice natura di intrattenimento, divenendo qualcosa di più grande e importante; un luogo vissuto quotidianamente da un'immensa collettività, a sua volta divisa in vari gruppi dalle dimensioni più disparate. Quanto accaduto a Fortnite e al suo mondo in costante divenire rappresenta non il primo (anzi), ma forse il più rilevante caso di un'esperienza interattiva divenuta nel tempo popolare, e che quindi si accinge a diventare mitologia.
Dalle divinità ai buchi neri
Ma cos'è questa mitologia? Che c'entra Fortnite con Odino e Zeus? In realtà, con mitologia si intende generalmente "l'insieme delle elaborazioni relative all'ambito fantastico e religioso di una determinata tradizione culturale", ma anche "lo studio dei miti nei loro rapporti con le caratteristiche culturali di un'epoca o di una civiltà". Sebbene Ninja non abbia ancora assunto il ruolo messianico di salvatore del popolo, e potendo dunque mettere per un attimo da parte l'elemento "religioso" del tema mitologico, è innegabile che Fortnite stia costruendo nel tempo una serie di eventi, più o meno liberamente interpretati dalla community, che stanno a loro volta formando la mitologia del suo mondo: la Storia, con la S maiuscola, della sua continuity.
Fortnite non è il primo e non sarà l'ultimo gioco a fare qualcosa di simile: da World of Warcraft a Final Fantasy XIV, passando per Destiny e The Division, sono centinaia i giochi che nel tempo hanno (per necessità o volontà artistica) creato mondi e storie oggi non più consultabili in-game, eventi temporali di cui abbiamo memoria solo perché altri giocatori si prendono la briga di raccontarci quei momenti.
Navigare su YouTube alla ricerca delle storie sulla "fine" di quei mondi è molto spesso più tragico ed emotivamente difficile di quanto si possa immaginare: quando un'opera d'intrattenimento diviene anche luogo sociale e culturale, condiviso quindi da più persone, smette di essere un semplice sfogo e diventa una realtà parallela. Un luogo in cui ci ritroviamo in gruppo non perché siamo asociali e privi d'interessi, come certa retorica ci vorrebbe, ma perché coinvolti da passioni condivise. Ciò che ci interessa di più riguardo al caso specifico di Fortinite è l'immensa diffusione del prodotto e l'incredibile interesse generato dagli eventi delle ultime ore, che potrebbero fare luce su modi di vivere il videogioco ancora troppo poco seguiti e approfonditi dalla prospettiva mainstream e, in generale, dalle realtà generalmente disinteressate al medium.
Dunque, lo studio dei miti nei loro rapporti con le caratteristiche culturali di un'epoca. Ma come può l'opera di una singola azienda, controllata in ogni suo aspetto e dettaglio dall'alto, essere paragonata alla libertà con cui le popolazioni di tutto il mondo, nel corso del tempo, hanno creato storie ed eroi? In realtà, il discorso è molto più complesso di così. Innanzitutto, come detto prima, queste microsocietà virtuali riproducono in tutto e per tutto le logiche più tradizionali di relazioni sociali, a partire dalla collaborazione spontanea e all'organizzazione di gruppo, ma è anche vero che le modalità di consumo suggerite dall'azienda possono guidare il giocatore verso degli approcci specifici.
Ad esempio, vivere gli spazi sociali di Journey, il capolavoro di Jenova Chen, può essere più o meno difficile, poiché sui server condivisi del gioco potremmo trovare chi non vuole giocare con noi, rovinando in questo modo il valore dell'opera. Al contempo, però, non è possibile far altro che collaborare in ogni caso, nel momento in cui "l'altro" si accinge a seguire il nostro stesso percorso. Al contrario, gli spazi sociali di giochi come Destiny permettono solo qualche scambio di cortesia e qualche divertente sessione di ballo, ma la maggior parte delle interazioni possibili prevedono la lotta per la vittoria di una partita competitiva.
Eppure, è proprio in Destiny che troviamo un esempio interessante di riappropriazione degli spazi da parte della community, a seguito di un errore di design di Bungie, che nella metafora spaziale potremmo definire una "disattenzione" del controllo: la loot cave.
I più vetusti Guardiani della Torre, come il sottoscritto, ricorderanno i primi mesi di gioco, quando Bungie gestì malamente il respawn di una grotta dell'Alveare, permettendo a gruppi più o meno nutriti di Guardiani di accumulare tantissime ricompense in poche ore. Si attendeva fuori dalla caverna con il lanciarazzi, e in pochi minuti si faceva una carneficina di nemici. Sfuggiti dunque dalla supervisione di Bungie (che anzi cercò in tutti i modi e nel minor tempo possibile di risolvere il problema), molti giocatori fuggirono dal controllo sulle modalità di consumo decise dall'azienda, collaborando (scrissero su Reddit e altri forum della scoperta, diffusasi subito tra tutti) e ottimizzando i tempi (ovviamente, più ricompense significa più livelli e maggior risorse da sfruttare). La grotta venne persino rinominata dalla community, e per anni fu quello il suo nome, tanto che negli streaming successivi persino i twitcher di Bungie iniziarono a chiamarla così: loot cave. Si crearono pure gruppi di polizia spontanea, dove altri giocatori andavano a piazzarsi all'interno della caverna per impedire la fuoriuscita dei nemici, e impedire così che i più furbi tra i Guardiani accorciassero i tempi sulla loro "crescita" come eroi della Terra.
Questo è solo un esempio, quello a me più caro perché vissuto in prima linea, di decine e decine di altri racconti sui luoghi e gli spazi dei mondi videoludici condivisi, nati per mano di studi e aziende ma vissuti da migliaia (a volte milioni) di utenti. Nel caso di Fortnite, Epic ha spesso fatto vere e proprie gare con la community per reagire a dei modi d'uso inappropriati da parte di certi gruppi, e ci sono stati dei casi divertentissimi (e pericolosi) in cui persino altre aziende hanno sfruttato la diffusione pazzesca del gioco per accalappiare altre community, per avvicinarle nei luoghi virtuali che vivono quotidianamente, oramai importanti quanto (per alcuni, di più) quelli reali: è il caso di Wendy's, che ha sfruttato in modo particolare, originale e molto utile l'Isola di Fortnite. Anche in questo caso, un fattore esterno ha raggirato il sistema di regole imposto dall'azienda madre, modificando radicalmente le modalità con cui vivere lo spazio virtuale.
E quale altro mito può rappresentare meglio una caratteristica culturale della nostra epoca, se non quello di un'azienda che interviene con un flash mob atipico e virtuale, all'interno di un luogo digitale come quello dell'Isola, per avvicinare emotivamente i giocatori? Sono le prassi più semplici ed efficaci di ogni processo di marketing, una delle "religioni" della nostra epoca, riconosciuto come un "evento" dalla community di Fortnite, che oggi ne racconta le storie e i momenti, oramai solo un ricordo.
Un ricordo rimarrà anche questa Fine, The End, un evento programmato da Epic e vissuto però in miriadi di modi diversi dai vari gruppi sociali del luogo: chi ha sempre usato i server per ridere e scherzare sul gioco ha addirittura pianto durante la Live, mentre molti altri hanno assillato i responsabili della comunicazione su domande relativa ai soldi investiti sul season pass. Questi fatti sono importanti perché ci ricordano in primis che il videogioco non coinvolge emotivamente soltanto con "la trama", mantra forse eccessivamente presente nelle critiche rivolte al teorico dominio dell'online nell'attuale panorama videoludico. Queste reazioni ci dimostrano come il videogioco sia in primis molto spesso uno spazio, un luogo, un momento culturale in cui ci immergiamo in modo diverso e atipico rispetto alle altre forme di narrativa, e che le lacrime e le emozioni non siano dunque versate per l'affetto nei confronti di un personaggio, ma in relazione a luoghi che hanno una grande importanza personale.