Speciale Gamesforum 2010

Un'occhiata all'evento svoltosi a Roma il 21 Ottobre

Speciale Gamesforum 2010
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Quello della diffusione dei videogiochi nelle famiglie italiane è sicuramente uno degli oggetti di discussione più accesi, sia tra chi lavora nel campo che tra chi vuole semplicemente dire la sua su un fenomeno sempre più in espansione. A tal proposito, qualche giorno fa si è svolto a Roma il Gamesforum, un evento che ha ospitato un dibattito su varie sfaccettature del fenomeno videoludico italiano, sottolineandone i cambiamenti dati e sondaggi alla mano, per sfatare luoghi comuni e pericolose supposizioni.
Tra coloro che si sono resi portavoce dell’evento, troviamo alcuni esponenti del governo - come il Ministro dell’Istruzione Maria Stella Gelmini e il Sottosegretario alla Famiglia Carlo Giovanardi - e membri dell’industria videoludica in senso stretto - come Andrea Persegati, General Manager di Nintendo Italia - oltre a qualche giornalista a moderare le sessioni - Bruno Vespa, Luca Tremolada, Jaime D’Alessandro.
Descriviamo di seguito i punti cruciali delle oltre quattro ore di dibattito, sia analizzando i dati oggettivi della situazione in cui ci troviamo, che esponendo le nostre doverose considerazioni a riguardo.

Il videogioco in famiglia

Dopo una trentina di minuti di introduzione, si è cominciato ad esaminare i dati di un’indagine ISPO effettuata da AESVI e Adiconsum su un campione di famiglie italiane. I risultati, a detta degli esaminatori (Manheimer), sono stati stupefacenti e del tutto imprevisti: nel 53% delle famiglie con figli c’è almeno una console in casa, nel 20% dei casi è anche il genitore a giocare, e nell’1% gioca solo il genitore. Molte delle famiglie oggetto d’indagine hanno affermato come il videogioco in casa aiuti a far avvicinare genitori e figli, creando una collaborazione ed un’intesa che raramente si riesce a sviluppare in altri casi. Ad ogni modo, nonostante ci siano ovviamente stati anche diversi pareri negativi sul videogioco da parte degli adulti (“giocare fa male, è pericoloso”), l’andazzo generale sembra voler suggerire una netta diminuzione dei pregiudizi, quelli che per anni hanno tacciato il videogioco di pura negatività. Questo, dal lato dei genitori. Da quello dei ragazzi, invece, la tendenza pare sia quella ad esagerare e ad essere attratti dal proibito, da ciò che è vietato: il sondaggio effettuato rivela come una larga fetta di consumatori preferisca acquistare videogiochi adatti ad un’età superiore rispetto a quella che hanno, incontrando semmai scene di sesso o violenza pensate per gli adulti. È sbagliato - si dice in sala - lasciare i ragazzi da soli mentre videogiocano, visto che tendono ad immedesimarsi nelle figure dei protagonisti (siano essi “buoni” o “cattivi”), ed è sbagliato non controllarli e lasciar loro la scelta di cosa acquistare; c’è sempre bisogno di un occhio vigile che filtri i contenuti adatti e li separi da quelli eccessivamente spinti. A riguardo si esprime Vespa (che tra l’altro afferma di non essere al corrente dell’esistenza di videogiochi VM 18...), con un parallelismo (a nostro avviso non molto azzeccato) tra videogiochi e anime: “sembra si voglia trasmettere l’idea” - dice - “che la persona migliore sia quella più violenta, quella che commette più omicidi possibili. C’era addirittura un videogioco in cui i punti erano direttamente proporzionali alle uccisioni” (Carmageddon, suggerisce il D’Alessandro). Una generalizzazione che, nonostante l’intento dell’evento, sembra voler tacitamente suggerire che si è ancora ben lontani dall’accettazione del videogioco (e, perché no, anche dell’animazione) come medium al pari degli altri.
Proprio a tal proposito, Giovanardi dice la sua, fortunatamente lasciando da parte le generalizzazioni e i pregiudizi del caso: paragona il videogioco alla scrittura, sottolineando come entrambi siano degli strumenti dalle innumerevoli potenzialità, che come tali devono essere usati al meglio, tenendo ben in considerazione la responsabilità che si portano appresso. A questo si riallaccia il Ministro dell’Istruzione, che afferma come, per permettere una maggior diffusione, si debba lavorare intensamente su un ruolo didattico dei videogiochi, usandoli magari nelle scuole pubbliche come metodo d’apprendimento (si fa l’esempio di Civilization, un prodotto dalle forti connotazioni culturali ed in cui ad ogni azione corrispondono determinate conseguenze). Una visione a prima vista un po’ utopistica, che risulta difficile immaginare concretamente. Su questo, comunque, torneremo nel terzo paragrafo con impressioni più dettagliate.

L'Italia videoludica

Il fulcro della seconda parte dell’evento è stato quello riguardante la diffusione e lo sviluppo dei videogiochi nel nostro Paese. Si parte sottolineando i meriti di Nintendo nell’aver allargato il bacino d’utenza dei suoi prodotti, grazie ad un’interfaccia più semplice ed intuitiva ed alla maggiore varietà di contenuti presente nei videogiochi. La casa di Kyoto - dice Persegati - ha il merito di aver portato il videogioco verso fasce d’età e d’utenza prima escluse, che se ne allontanavano volontariamente. Come ben sappiamo, è la filosofia di Wii e Nintendo DS: un più alto numero di prodotti “per tutti” (che, ci dicono, sono i più venduti in Italia), che possono facilmente far avvicinare al controller ogni componente della famiglia.
Ma se, da un lato, il problema della diffusione sta in questo modo per essere abbattuto, dall’altro troviamo quello dello sviluppo italiano, che non sta conoscendo particolari miglioramenti. Perché - ci si chiede - invece di tessere un messaggio italiano da far trainare ai videogiochi, ci si rivolge a quello giapponese o americano? Sono forse migliori, con la loro continua lotta tra bene e male? C’è poca fantasia, poca voglia, poco interesse? Più che altro, il problema riguarda i fondi, sia per lo sviluppo che per la pubblicazione: è un problema strettamente legato alla concezione di “videogioco” in Italia, che fatica ad introdursi stabilmente nell’idea culturale del Paese. Le software house italiane degne di nota sono poche, e Milestone è una delle pochissime ad essere riuscita a valicare i confini del paese. Si fanno confronti con la Francia, ad esempio, nazione in cui il sentimento di crescita del videogioco e la sua maggiore accettazione si stanno facendo posto da molti anni, penetrando fin nelle viscere della società ed offrendo maggiori possibilità di sviluppo (si pensi ad Ubisoft, ad esempio). A fronte del problema, si cita il fenomeno Winx per sottolineare l’esportazione della cultura italiana: un’idea nata nel nostro paese è riuscita in un tempo relativamente breve ad oltrepassare i confini italiani, divenendo un fenomeno di massa anche nei principali paesi europei.
Peccato non si parli di videogiochi.

Spunti di riflessione: l'accettazione del videogioco

L’evento si conclude sottolineando il problema della concezione del videogioco in Italia: è un medium ancora malvisto, acerbo, giudicato aprioristicamente dalla maggior parte della gente.
Questa seconda edizione del Gamesforum porta con sé un buon numero di concetti interessanti dall’impronta innovativa, contornati purtroppo da un velo di pregiudizi che, nonostante l’intento del dibattito, siamo riusciti a cogliere tra le righe. Sembra quasi che il videogioco abbia bisogno di una “scusa” per essere accettato nella società odierna, qualcosa che ne legittimi l’esistenza, come se esso stesso non fosse in grado di giustificare da solo la sua ragion d’essere (si pensi al Ministro Gelmini, che ne ipotizza un ruolo didattico per cercare di trovarne un’utilità). Pensando un po’ più in grande, volendo prepotentemente uscire dagli schemi creati durante oltre vent’anni di industria videoludica, potrebbe sembrare che il problema riguardi proprio il nome stesso, “videogioco”. O, per meglio dire, la sua parte finale. Molte delle frasi pronunciate durante l’evento (“giocare può far bene, ma non più di un’ora al giorno”, “bisogna controllare i bambini che giocano”), sottolineano come siamo ben lontani dal ritenere il medium videoludico qualcosa che oltrepassi il concetto di “gioco”. Ma non lo fanno volontariamente, ne siamo certi. Ed è proprio qui che si staglia la verità, la prova più concreta della realtà italiana, che vorrebbe camuffarsi dietro pagine di dibattiti già scritti; è qui, dentro quelle frasi dette quasi per scherzo, senza pensarci, quelle che esulano dal copione, che c’è da riflettere maggiormente. Quello della concezione del videogioco è un problema più che mai presente, soprattutto in Italia, dove l’opinione pubblica tende ad inquadrare il fenomeno come un capriccio da ragazzini, una spesa inutile che si potrebbe benissimo evitare.
Probabilmente è il suffisso “gioco” a fuorviare, ad accomunare nella stessa categoria prodotti che potrebbero appartenere ad utenze opposte; è una parola che riduce l’importanza della cosa, ne riduce le ambizioni, le aspettative, le pretese, la comprensione artistica, l’accettazione.
Nel corso dell’evento, è stato chiesto “chissà se vedremo mai la Divina Commedia dei videogiochi”: qualcosa che possa essere accettato, riconosciuto e valorizzato da chiunque, col passare degli anni, e la cui importanza non sia ridotta dall’aspetto “ludico”. Purtroppo però, finché ci sarà qualcuno che legittima con forza la condanna al nuovo Medal of Honor esclusivamente a causa del background storico e culturale che presenta (come se non potesse veicolare un messaggio più profondo, fra le righe), l’accettazione di cui s’è parlato appare più che mai lontana, più che mai irraggiungibile.

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