God of War: l'epica storia di un uomo e della sua barba

Il nuovo capitolo di God of War ci ha stimolato profonde riflessioni sull'importanza della barba nel panorama videoludico.

God of War: l'epica storia di un uomo e della sua barba
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  • PS4 Pro
  • Stando alle parole del suo barbiere di fiducia, il game director Cory Barlog, la barba di Kratos odora di pino silvestre e sangue di troll. Un meraviglioso bouquet che già occupa, nel cuore dei fan dello spartano, un posto d'onore nella classifica degli odori più inebrianti di sempre, accanto a colossi del calibro del caffè mattutino e della lasagna di nonna. D'altronde proprio quel ricco coacervo di virilità è diventato, sin dal primo trailer all'E3 del 2016, uno dei vessilli del nuovo corso di
    God of War
    , un sequel che ha segnato una svolta epocale per la saga di Santa Monica Studio. Un elemento all'apparenza del tutto secondario, quasi insignificante, capace però di identificare una serie ben precisa di puntelli nel mosaico della caratterizzazione del Fantasma di Sparta. Potremmo ora discutere sul fatto che dare tanta importanza alla nuova trapunta facciale di Kratos sia sensato come spiegare la timeline di Metal Gear Solid a un piatto di lenticchie, ma... anzi parliamone, va, che male non ci fa.
    Prima però, data la soggettiva importanza dell'argomento, ripercorriamo un po' la storia di questo essenziale, e spesso sottovalutato, organo peloso.

    La vera storia della barba... più o meno

    La nostra storia inizia circa 200.000 anni fa, all'indomani della comparsa sulla Terra di quell'amabile birbante che i paleoantropologi chiamano, simpaticamente, "homo sapiens". Protagonista di tempi più semplici, nei quali la più grande sfida per l'intelletto era legata all'identificazione funzionale dei propri pertugi, il nostro antenato non era ancora vincolato ad alcuna norma sociale codificata, e viveva assecondando le proprie necessità del momento. Necessità che, ovviamente, includevano la soddisfazione dei suoi bassi istinti procreativi, in un contesto tendenzialmente ostile al lavoro di cesello.

    Non tanto a causa delle ere glaciali che, con scocciante puntualità, ostacolavano la tradizionale gita fuori porta del primo maggio, né degli sporadici incontri con leoni delle caverne grandi come Apecar, ma per la spietata concorrenza dei cugini neandertaliani, che a quindici anni già sfoggiavano barbe da capitano di vascello, adagiate su splendidi girocolli in cashmere naturale. Dotato di una straordinaria capacità di adattamento, l'homo sapiens passò quindi i successivi 170.000 anni a studiare un sistema per migliorare il carismatico ascendente del proprio vello facciale, fino all'invenzione, attorno al 30.000 a.C. del rasoio in felce o, per i più vezzosi, in conchiglia. Una conquista tecnologica tanto epocale quanto sostanzialmente inutile, dato che, complice l'instancabile accoppiamento interspecie, i neanderthal erano già scomparsi da ormai 10.000 anni. Sentendo la necessità di un nuovo strumento di conquista, e sospinto dalla volontà di sorvolare sul tardivo raggiungimento, l'uomo mesopotamico inventò la ruota e il calesse decappottabile, sfruttando il nuovo status symbol per riportare in auge la barba come emblema di forza e mascolinità. In questo periodo si documentano le prime competizioni su strada, assieme all'invenzione della ragazza da paddock e della marmitta Malossi.
    Notoriamente invidiosi, i vicini dell'antico Egitto (al tempo noto semplicemente come Egitto) risposero alla minaccia tricotica sviluppando barbe prostetiche, utilizzate per sottolineare la propria discendenza divina. Questo fino all'arrivo di Alessandro Magno che, colpito da una peculiare forma di alopecia del mento, dispose che tutti gli uomini del suo impero si rasassero almeno una volta al giorno. Una consuetudine portata avanti anche dagli imperatori romani a partire da Giulio Cesare che, pelato come il retro di un macaco, era solito raccogliere i residui di tosatura dei suoi centurioni per comporre degli improbabili toupet, spesso assaliti dalle aquile di passaggio per l'abbondante presenza di residui di coratella. Per non destare sospetti, l'abile condottiero fece del nobile volatile uno dei simboli dell'impero, pur covando un segreto odio per ogni genere di uccello.

    Ben noto il suo motto "ala iacta est", ad indicare il felice abbattimento di un pennuto molesto, erroneamente tramandato da Svetonio come "alea iacta est", ovvero "il dado è tratto". La barba venne nuovamente sdoganata dall'imperatore Adriano, preoccupato del fatto che - con gli strumenti dell'epoca - la rasatura fosse diventata la prima causa di morte tra i giovani romani, seguita a ruota dalla malaria e dall'accoltellamento sportivo.
    Un problema, quello del decesso da tosatura, che venne definitivamente risolto solo nel 1770, con la nascita della pogotonomia (l'arte del radersi) ad opera dell'illustre barbiere francese Jean-Jacques Perret, inventore dell'omonimo rasoio a mano e grande estimatore della barba alla Van Dyke. Un'ottima idea che, nei successivi 150 anni, venne erroneamente interpretata come un invito alla glabrezza, così come successo con l'invenzione dell'americano Jacob Schick, creatore del primo rasoio elettrico. Stando a fonti attendibili, pare che, su richiesta della consorte, il colonnello statunitense stesse solo cercando un valido metodo per alleggerire la rigogliosità del sotto-cintura. Un metodo che non implicasse il rischio di perdere l'occasione di farsi chiamare nonno. Il resto, signori, è storia moderna: i cespuglioni hippie degli anni ‘70 (ogni riferimento doppio sensistico è puramente casuale), la rasatura compulsiva degli anni ‘90 e il grande ritorno della barba degli anni 2000, con la parentesi - dolorosa - della sottocultura hipster. A questo punto è piuttosto probabile che molti di voi stiano pensando qualcosa del tipo "sì, tutto molto bello, ma che diamine c'entra questo col mondo dei videogiochi?".
    Ecco, datemi un attimo che ci arrivo.

    Barba e videogiochi: un retaggio popolare

    Negli ultimi quaranta anni, l'industria dei videogiochi si è trasformata, a ritmi serrati, da fenomeno di nicchia a uno dei mercati più profittevoli del globo, raggiungendo picchi di capillarità impressionanti. Un successo che ha determinato un impatto molto profondo nella cultura di massa, con conseguenze evidenti sull'evoluzione della consuetudine sociale, delle relazioni interpersonali e perfino del linguaggio. In un mondo in cui l'identificazione della "normalità" segue - per forza di cose - logiche squisitamente statistiche, spendere qualche ora alle prese con l'intrattenimento digitale ha ormai abbandonato, nella gran parte dei contesti sociali, la maggioranza delle sue connotazioni stigmatizzanti. Per farla breve, non siamo più visti come gli sfigatelli che, nella penombra del sottoscala di mamma, dividono equamente il proprio tempo tra "giochini" e soliloqui a cinque dita.

    L'interazione con la pop culture, logicamente, va sempre intesa come bilaterale e multifattoriale, e pertanto anche il progressivo modificarsi della sensibilità sociale ha determinato cambiamenti importanti per quel che riguarda le "regole" del videogioco come medium di massa. Basti pensare alla crescente rilevanza del fattore "politically correct" nel panorama dello sviluppo videoludico, e di temi come l'eguaglianza di genere e la diversità. Detto questo, però, ci sono alcuni elementi che, salvo diversioni straordinarie, mantengono un nucleo concettuale immutabile.

    Nella gran parte dei casi, infatti, i protagonisti dei videogiochi devono essere personaggi nei quali la maggioranza demografica dell'utenza deve potersi - e volersi - identificare. Motivo per cui, se volessimo stilare una valutazione statistica dei tratti più diffusi tra gli avatar videoludici del mercato tripla A, è molto probabile che il profilo del protagonista mostrerebbe i tratti del caucasico medio, opportunamente "potenziato" per rispondere alle necessità dell'azione di gioco. Niente di strano, gente, vista che l'efficacia di un prodotto d'intrattenimento dipende anche - e spesso soprattutto - dalla sua capacità di accordarsi all'attuale corredo "memetico" del suo pubblico di riferimento. Pertanto, in linea con la dissennata cronistoria delineata nel paragrafo precedente, è facile intuire come, col ritorno in auge del vello facciale, anche i protagonisti dei videogiochi abbiano cominciato a sfoggiare, con frequenza sempre maggiore, barbe di una certa importanza. Ed ecco che Ryu, da sempre uno dei personaggi più iconici (seppur dotato di una caratterizzazione piuttosto generica) della serie Street Fighter, si becca un folto scalda-faccia nell'ultima iterazione della serie e, in un attimo, diventa ancor più duro e minaccioso. Sì perché, per quanto gusti e costumi possano evolversi, alcuni tratti risuonano con le corde più istintive del nostro retaggio antropologico-culturale, e pertanto risultano sempre attuali.
    C'è un motivo se, nel corso della storia, la barba è spesso stata un simbolo di potere, generalmente associato a maturità e autorevolezza. Si tratta della sublimazione di un collegamento subcosciente, legato al riconoscimento della presenza di testosterone in un individuo e, di conseguenza, della maturità fisica e di un buon livello di aggressività potenziale.

    Due fattori che, in contesti ben più atavici del nostro, correvano di pari passo con un certo grado di dominanza nel quadro delle dinamiche sociali. Nella caratterizzazione di un personaggio videoludico, l'aggiunta di una folta barba risponde quindi a tre esigenze, tutte connesse al comune sentire: rendere un personaggio "hip", farlo apparire più maturo e, soprattutto, fomentare l'idea che ora, anche più di prima, sia in grado di strapparti la testa dal collo e usarla come contraccettivo. Un concetto il cui valore empirico è sostenuto da campioni d'eccezione, come ad esempio l'inossidabile Max Payne, il buon vecchio Marcus Fenix e, ovviamente, il nostro semidio belligerante preferito, il possente Kratos. Il protagonista di God of War rappresenta, per certi versi, il punto d'unione perfetto di queste confluenze antropologiche: è un uomo maturo, incarna un modello estetico molto attuale e, diamine, è forte come i postumi di una serata a Tavernello e centerbe. Tutti elementi che si innestano nel quadro di una caratterizzazione ben più profonda e sfaccettata, espressi però, con straordinaria immediatezza, da un singolo fattore: una gran bella barba.

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