Hideo Kojima: autore, regista, visionario

Per festeggiare il trentesimo anniversario di Metal Gear, ripercorriamo la carriera e la poetica visionaria del suo creatore: il grande Hideo Kojima.

Hideo Kojima: autore, regista, visionario
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  • Pc
  • PS4
  • Xbox One
  • I trent'anni della serie Metal Gear, i tre decenni in cui il suo padre premuroso, Hideo Kojima, ha impresso il suo marchio creativo in tutto l'universo dei videogiochi non possono essere dimenticati. Anche volendo, come potrebbe essere possibile cancellare dalla memoria tutti quei volti, quelle sequenze che sfidavano persino il buongusto: e poi le enormi balene in fiamme, gli improbabili sviluppatori svedesi che annunciavano giochi altrettanto bizzarri, oppure ancora le demo "con la sorpresa" (e che sorpresa!). Sarebbe come strappare una scheggia vibrante inserita dritta nel nostro encefalo, un intruso insinuato nella nostra mente ed ormai divenuto parte del nostro mondo grazie ad una simbiosi irreversibile. Perché, che lo si ami o lo si odi, Kojima è un autore che ha contribuito a creare delle icone, dei moti di pensiero che ora fluiscono nel mondo digitale con sorprendente naturalezza.
    Il suo apparire eccentrico, alle volte egotico, in altri casi un po' mitomane, ha contribuito ad ammantare di sacralità un personaggio venerato da utenti e critici, da game designer e cineasti. Merito delle sue innegabili abilità da tessitore e della sua irriverente voglia di remare contro la consuetudine, seguendo la sua visione autoriale e rischiando di ritrovarsi sommerso da un cumulo di vilipendi. La sua ambizione e la sua costante avversione nei confronti della trivialità l'hanno portato, in alcuni casi, a commettere alcuni errori, ad esagerare nei modi e nella misura, a scontrarsi con persone che gli hanno tristemente ricordato di lavorare in un'industria, dove i tempi di sviluppo e il budget sono degli elementi da tenere fortemente in considerazione. È anche per questo che l'addio di Kojima alla serie più amata è stato così anticonvenzionale: perfettamente in linea con la sua personalità.

    È mio figlio: lo chiamerò "Stealth"

    Anno 1987. Un giovane designer con la passione per il cinema era appena approdato in Konami e aveva preso le redini di un progetto per MSX2 chiamato Metal Gear. Così facendo, un appena ventitreenne Hideo Kojima stava dando il via non solo ad un'epopea che in qualche anno sarebbe divenuta un cult, ma ad un vero e proprio genere videoludico. Nessuno prima di allora aveva sviluppato un prodotto imperniato sui cardini degli stealth game, e probabilmente Kojima non se ne rendeva neppure conto: a quei tempi, infatti, era solo interessato a mettere alla prova il suo estro e la sua ambizione, tentando di imbrigliare in un involucro interattivo l'anima di film come "The Great Escape" e "1997: Fuga da New York".

    Ci riuscì alla grande, ottenne un buon successo e le sue qualità vennero riconosciute immediatamente, sebbene Metal Gear e il suo seguito Solid Snake furono per lui quasi come una sorta di riscaldamento, una palestra in cui allenare le sue abilità in attesa di colpire e lasciare impressa la sua firma con inchiostro indelebile.
    È con Metal Gear Solid che il talento di Tokyo riuscì a costruire un'opera che potesse mettere in mostra la sua mente creativa e la sua voglia di lasciar basito praticamente chiunque. Il colpo d'occhio, ai tempi, era spettacolare. I modelli, che visti ora sembrano grezzi ed inespressivi, rappresentavano invece un veicolo d'emozioni potentissimo: la faccia a parallelepipedo di Snake sembrava quasi sorridere, imbronciarsi, mentre il volto squadrato di Meryl appariva all'occorrenza ammiccante ed infuso di una forte sensualità. Con Metal Gear Solid, Kojima spinse in avanti il genere degli stealth game, traspose molti degli elementi delle sue prime creazioni e li integrò con l'uso delle tre dimensioni, sfruttando, in questo modo, le planimetrie degli scenari in modo intelligente e consentendo al giocatore di utilizzare persino la prima persona. La forza bruta della prima PlayStation gli consentì inoltre di dilettarsi con le sue prime prodezze registiche, con sequenze filmate che davano risalto ai protagonisti dell'avventura e a Solid Snake, il "soldato imperfetto" creato ispirandosi allo stile dei film di 007.

    Metal Gear Solid permise inoltre ad Hideo Kojima di gettare le basi di una struttura narrativa intricata, complessa, alle volte forse eccessivamente accartocciata, fino a diventare di difficile comprensione. Il racconto proseguiva su binari differenti: si muoveva tra sequenze cinematografiche dall'alta ricercatezza estetica e messaggi audio sul codec, utili per approfondire una quantità gargantuesca di elementi e per legare con i compagni di squadra. Era sorprendente vedere come alle azioni del giocatore erano associati commenti sempre nuovi e divertenti, per non citare il celebre "inganno" di Master Miller, che poteva essere vissuto appieno solo se si utilizzava il codec con una certa frequenza. Già dal 1998, insomma, Kojima aveva provato a fondere cinema e videogiochi, in un modo particolare, senza sbilanciare una delle due parti e senza che il contributo del giocatore fosse annichilito dalle bizze del regista. Ciò che in quegli anni già spiccava palesemente era anche una "piccola" dimostrazione di come per lui il videogioco fosse qualcosa di più vasto, un enorme prodotto d'ingegno che inglobava l'opera stessa, il fruitore, le campagne di marketing e persino gli elementi fisici, come la confezione del gioco e l'hardware su cui girava. Tutti agenti essenziali che concorrevano a creare un geniale capolavoro.

    Kojima, l'autore

    È curioso che l'enorme contributo che la serie di Metal Gear diede al genere stealth è sempre messo in secondo piano quando si parla delle forti scelte autoriali di Kojima e dei suoi sorprendenti virtuosismi. La realtà è che Metal Gear non è "solo" uno stealth game, anzi, la sua struttura è quasi esclusivamente un telaio in cui romba un motore ruggente, dove scorre il sangue e il sudore del suo creatore. L'epopea del Serpente non risponde a nessuno se non al suo padrone, è una bestia diversa e assai più difficile da addomesticare. Il legame è indissolubile: Kojima è il vero protagonista di Metal Gear, la sua personalità e le sue idee sono frammentate nei personaggi di gioco, le allegorie - costanti - rispecchiano la cultura e le fonti d'ispirazione dell'autore giapponese.

    "Metal Gear non esiste senza Kojima". È una frase semplice, quasi banale, ma racchiude una verità incontrovertibile: Big Boss, Otacon, Snake, Shadow Moses sono solo delle statuette d'argilla che possono vivere esclusivamente grazie all'alito del loro "dio". Senza quel soffio vitale rimarrebbe un immaginario intrigante, complesso e profondo, eppure privo della sua vera anima. Tuttavia il game designer nipponico non ha mai avuto il timore di tradire le aspettative degli appassionati, di rilasciare prodotti sfacciatamente anticonvenzionali, non solo nei contenuti. Basta ricordare la vicenda di Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty e la delusione dei fan nello scoprire che il protagonista sarebbe stato Raiden, non Solid Snake come lasciavano intuire la demo e la campagna marketing. Oppure la "spericolata" scelta, in Metal Gear Solid 4: Guns of the Patriots, di narrare gli eventi attraverso un incredibile ammontare di cutscene, alcune anche più lunghe di quaranta minuti. Al geniale talento del Sol Levante è sempre piaciuto giocare con l'utenza, fornire informazioni col contagocce, illudere le platee per poi lasciarle basite. Ricordate "The Phantom Pain" di Moby Dick Studios, insolito studio svedese guidato da un tale Joakim Mogren? O l'annuncio di Silent Hills (sigh) attraverso P.T., un "Public Teaser" che ha addirittura ispirato numerosi altri emuli? Per Hideo Kojima anche la presentazione e il percorso che precede la release sono elementi essenziali, i quali, sebbene bloccati in una finestra temporale piuttosto ristretta, fanno parte della storia della produzione e contribuiscono a delinearne la grandezza (cosa sarebbe successo se Raiden fosse stato presentato da subito come protagonista?). Perciò la mano del demiurgo deve sempre essere percepibile, anche nei dettagli più piccoli e apparentemente insignificanti.

    Eppure Kojima non si è mai limitato solamente a controllare i Metal Gear in ogni singolo aspetto: nel primo capitolo il designer giapponese compariva in un quadro, visibile durante la boss fight di Psycho Mantis. In Guns of the Patriots prestava la voce a "dio", mentre in The Phantom Pain era un personaggio da soccorrere. La sua voglia di apparire nelle proprie opere era sicuramente il "capriccio" di una personalità che ama mettersi su un piedistallo: con Ground Zeroes, infatti, arrivò persino a criticare la scelta di Konami di rimuovere la dicitura "A Hideo Kojima Game" dai suoi giochi. In quell'occasione un saggio Miller sentenziava: "Sarai pure in grado di cancellare un logo, ma i ricordi non svaniranno mai". Un messaggio diretto ai biechi uomini d'affari che avevano deciso, in un modo goffo e poco giudizioso, di dividere una serie dal proprio padre. Non sapevano, evidentemente, che il potere dei sentimenti, dei ricordi, non risiede di certo in una banale etichetta.

    Kojima, il regista

    Per molti Hideo Kojima è un talento strappato dalle braccia del cinema. Un uomo con la celluloide nel sangue, rapito dal mondo dei videogiochi e mai restituito. Kojima fu uno dei primi a tentare di fondere cinema e gaming, in una funambolica crasi che si è quasi sempre mantenuta in equilibrio. Non seguì la strada di tutti quei creatori che ritenevano la narrativa soltanto un vezzo, di quella scuola di pensiero nata dai simulacri di Ultima (che portò alla fondazione di studi come Looking Glass, Irrational, Arkane), la quale metteva in primo piano l'esperienza del giocatore tentando di nascondere le mani degli autori.

    Il buon Hideo non ha mai voluto celare se stesso, la sua figura e le sue idee, ha diretto tutte le sue opere con lo stesso piglio di uno scafato regista, pur ovviamente valorizzando e approfondendo tutti quegli aspetti dei videogiochi che nel cinema non trovano posto. E anche se gran parte delle fonti d'ispirazione della saga di Metal Gear proviene dalla settima musa (da Carpenter a Kubrick, da De Palma a Sturges) la serie non ha mai tentato di celare la sua vera identità, il suo cuore da opera interattiva.
    I virtuosismi con la "cinepresa" del primo Metal Gear Solid sono, quindi, il frutto di una ricercatezza estetica quasi morbosa, un modo vivido per raccontare personaggi e vicende, per inoculare forti emozioni che poi i giocatori, nei panni di Solid Snake, avrebbero cementato attraverso le sequenze giocate. Con l'uscita degli altri capitoli l'indomita creatività di Kojima e gli strumenti tecnologici superiori produssero scene ancora più virtuosistiche: l'utente veniva colpito da una sventagliata di primi piani leoniani e azioni dirompenti, montate agilmente per risultare in un rapido balletto d'immagini ispirato ai film d'azione anglosassoni (anche l'intro di Snake Eater era un chiaro omaggio a James Bond). Non mancavano neanche sequenze più rilassate ed introspettive, grazie alle quali era possibile "palpare" la psiche dei personaggi o apprezzare dei momenti particolarmente importanti che il director voleva far risaltare. In questo discorso trova posto la celeberrima scena della scala in Metal Gear Solid 3, imbevuta di uno sperimentalismo che pochi altri videogiochi si sono azzardati ad accogliere.

    Con Metal Gear Solid V, invece, venne adottata una nuova tecnica cinematografica: lasciatosi alle spalle i montaggi magistrali dei primi quattro capitoli, Kojima decise di "girare" le cutscene di The Phantom Pain utilizzando piani sequenza e soluzioni simili al POV shot. In quel modo il maestro giapponese avrebbe accentuato il realismo delle scene e rafforzato il cordone emotivo tra il giocatore e il videogioco. Effettivamente le "carrellate" della camera e le vibrazioni ad ogni esplosione contribuivano a limare lo stacco tra ciò che era pre-calcolato e ciò che poteva esser giocato. Il DNA di celluloide e quello di pixel divenivano quasi un tutt'uno, l'evoluzione della struttura di gioco andava di pari passo con nuove trovate registiche meno coercitive e più camaleontiche. Kojima riuscì, in tal modo, a ribadire la sua filosofia, a mostrare a tutti come la settima arte e i videogames potessero andare a braccetto, scambiandosi amorose effusioni, senza per forza squadrarsi con occhiatacce torve. Del resto nei suoi giochi si ha quasi l'impressione che sia l'opera a giocare con il suo fruitore, come se il giocatore fosse la telecamera di un regista invisibile.

    Kojima, il visionario

    Nel manipolare la sua creta Kojima è sempre stato un po' un visionario, e grazie alle sue innegabili doti è stato anche in grado di far sognare milioni di persone. In circa trent'anni di onorata carriera, però, non ha solo miscelato la regia di un capolavoro cinematografico con la scaltrezza di un affinato stealth game: come ha provato a fondere i due media, fino a renderli quasi indistinguibili l'uno dall'altro, ha tentato pure di distruggere le pareti erette dalla sospensione dell'incredulità. Le ha martellate forte, sfondandole in pieno, allargando a dismisura la portata delle sue creazioni. Nel primo Metal Gear Solid l'affascinante Psycho Mantis leggeva le memory card e prevedeva le mosse del giocatore; "percepiva", insomma, che dietro Solid Snake c'era un burattinaio, e a lui parlava. In Sons of Liberty, dove la breccia era ancor più larga, un Campbell in evidente stato confusionale consigliava di spegnere la console, e Rosemary lo affiancava, spiegando quali fossero gli effetti negativi nello stare per troppo tempo davanti ad una TV. A questi messaggi Raiden reagiva con espressioni dubbiose, non comprendeva che quelle frasi non erano rivolte a lui. Da parte sua, il giocatore vedeva disfarsi una tela ben tessuta, cominciava a percepire un certo distacco dal personaggio digitale, che invece sembrava correre verso l'indipendenza, la libertà.

    Quando la finzione comincia a disgregarsi è come se il gioco e il giocatore avessero deciso di scendere a patti, rivelando i propri ruoli e accettandoli, senza per questo compromettere alcunché. A quel punto anche gli strumenti fisici come il pad o la confezione del gioco acquisiscono grande importanza, e da meri oggetti funzionali divengono parte integrante di un'opera che deborda dallo schermo. Eppure, al culmine di ogni creazione kojimiana non si può evitare un doloroso addio. Si è costretti ad interrompere il rapporto quasi materno con il protagonista e si devono lasciar andare i compagni d'avventura. Ma forse è proprio questo il messaggio più profondo di Kojima, la sua visione ultima: identificare il giocatore ed il gioco come due identità in stretto rapporto, l'una che dona, in qualche modo, qualcosa all'altra. E poi, da questa appassionante unione e dal conseguente amaro distacco, si scorge una nuova creatura, diversa dai suoi genitori, ma in grado di sintetizzarne gli aspetti più belli. In essa vivono le gioie, la rabbia, i ricordi del giocatore, ma anche tutti quei personaggi, quei luoghi, quelle icone. Quelle immagini evanescenti che, nella nostra mente, non sono mai state così vivide.

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