I videogiochi come veicolo comunicativo: tra gioco e comunicazione

Come comunicano i videogiochi con l'utente? Sono flessibili o coercitivi? Proviamo ad addentrarci nella intersezione tra tecnologia e comunicazione.

I videogiochi come veicolo comunicativo: tra gioco e comunicazione
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Non si può non comunicare. Anche un "non comportamento", un silenzio, la sola intenzione di evadere qualsiasi contatto genera uno scambio reciproco di sensazioni ed informazioni. Il primo assioma della comunicazione, definito da Paul Watzlawick e dalla scuola di Palo Alto, nuclearizza uno degli aspetti distintivi della società post-moderna: siamo costantemente in contatto tra di noi, e lo siamo sempre più attraverso simulacri. Lo stesso atto che il giocatore compie rapportandosi al software che avvia genera uno scambio comunicativo mediato. Anche videogiocare è comunicare, dunque. Ma in che modo? Fra chi avviene questo scambio comunicativo? Che impatto può avere su di noi e su chi il software lo sviluppa e lo distribuisce?

La tecnologia e la comunicazione

La tecnologia, con il suo esponenziale avvenirismo, ha segnato profondamente la comunicazione. Tanto quella personale fra individui, quanto quella massiva, sottesa a flussi di informazioni che nella storia hanno visto profondi cambiamenti nelle modalità e possibilità di accesso ad essi. Dalla prima stampa su carta, la Bibbia a 42 linee di Gutenberg nel 1455, si sono susseguite la nascita dei giornali, circa due secoli dopo in Germania; e a seguire cinema, radio, televisione, sino a giungere ad internet, capace di inglobare l'essenza di molti dei mezzi di comunicazione di massa.

Oggi, dunque, ci troviamo totalmente inseriti in un tessuto sociale ricco di processi di massificazione estrema, con risvolti ed effetti che questi generano a vari livelli, da quello economico a quello culturale. Lo scopo ed il funzionamento dei mass media, da analizzare e snocciolare, aprono a riflessioni piuttosto articolate e non banali, che non è affatto opportuno riservare ad una sede come questa, per quanto sia di estremo interesse. Tuttavia per un pubblico di giocatori curiosi potrebbe rivelarsi parecchio interessante provare a riflettere su come il videogioco si inserisca in questo tessuto sociale, anche sotto il profilo della comunicazione. Sì, perché fanatismo e misoneismo a parte, che i videogiochi facciano parte, oggi, di un contesto massivo anche culturale e comunicativo non è opinabile, accettabile o meno: è un fatto.

Un medium sui generis

Con un mercato da oltre 100 miliardi (159, secondo le stime per il 2020), il videogioco raggiunge centinaia di milioni di persone, investendosi conseguentemente dell'onere e della responsabilità di ciò che comunica, e di come lo fa. Lasciando momentaneamente da parte l'incentivo economico e pubblicitario, che è un motore di peso all'interno della maggior parte dei processi di comunicazione, riflettiamo sulle modalità di allacciamento del videogame a una sfera socio-comunicativa.

Il videogioco è una dimensione dal potenziale comunicativo notevole; un veicolo che media la comunicazione attraverso due caratteristiche che le altre fonti di informazioni ed intrattenimento non hanno - o quantomeno, non in egual misura: l'interattività come valore fondante, che offre almeno la sensazione di un continuo scambio di ruoli tra soggetto ed oggetto, ed i tempi dilatati.

Da Adventure a Super Mario

Sin dalla seconda metà degli anni 70, i videogames hanno sempre avuto qualcosa da offrire al giocatore in termini narrativo-informativi, oltre allo scambio interattivo. Una storia tendenzialmente, diremmo oggi; ma, prima, anche molto più semplicemente un setting o un contesto. I primi accenni di trama in Adventure di Atari, per fare un esempio, erano trainati dall'embrione di IA che opponeva al giocatore l'ostilità dei tre draghi, impedimento nel raggiungere un castello. Sino a quel momento, il videogioco rimane concepito e pensato per gli scambi ludici tra persone fisiche. Non esiste, in sostanza, quello che oggi definiamo single player, perché non esiste ancora una tecnologia in grado di simulare e riprodurre convincentemente un'intelligenza artificiale.

Lo stesso scheletro narrativo del franchise videoludico più celebre ed iconico al mondo, Super Mario di Nintendo, è fortemente imperniato su di un assunto narrativo stereotipato e poco incisivo in termini di sintassi ed informazione; eppure già avveniristico, ai tempi, per il videogioco. I livelli dei vari mondi che il giocatore deve superare impersonando l'idraulico italiano veicolano uno scopo, dotano l'azione di un contesto e di un senso, che nello specifico è salvare la principessa Peach dal cattivo Bowser.

Le tecniche narrative

Con i suoi tempi, e per nulla agevolato da un assorbimento soprattutto a livello accademico molto difficile ancora oggi, il videogioco ha però seguito anche l'evolversi delle tecniche narrative, arrivando a proporre produzioni in grado di annoverare copioni mastodontici, personaggi sfaccettati e delineati in maniera complessa, nonché trame anche capillari ficcanti ed incisive. Addirittura la vicinanza con il medium cinematografico ha spostato gli equilibri sottili tra narrativa ed interazione in funzione della prima in maniera prevalente.

David Cage e Quantic Dream, la serializzazione prima di Telltale e oggi seguita da molti altri studi ci mostrano l'incredibile prospettiva di un medium digitale che è capace di sfruttare l'interattività, suo marchio di fabbrica, in molti modi, anche per comunicare.

La scrittura serpentina, massiva e ramificata della sceneggiatura di alcuni videogiochi tiene fortemente conto delle scelte del giocatore, sino a restituire la sensazione di individualizzare quasi l'esperienza. Ci sono molti nomi che possiamo fare, dalla saga di The Witcher a quella di Mass Effect; Fallout, Life is Strange, Heavy Rain e Detroit (qui la nostra recensione di Detroit Become Human), senza dimenticare le avventure testuali che possiamo annoverare tra le appendici dell'embrione del medium videoludico: tutte esperienze che si prefiggono consapevolmente l'obiettivo di creare una fruizione non del tutto omogenea, nella quale il rapporto tra emittente e destinatario è unico e particolare. I videogiochi, quindi, comunicano e possono farlo in maniera molto efficace. Ma cosa comunicano, davvero, e come?

L'illusione della scelta

Siamo davvero liberi in un videogioco? Tutta questa espansività, il focus sul giocatore che molte produzioni si trascinano anche nelle campagne di marketing, ci regala davvero un'esperienza comunicativa bidirezionale? La risposta, contrariamente a quanto qualcuno potrebbe pensare, è negativa. Il videogame resta un software, un codice che risponde a delle leggi matematiche che viene scritto da una persona (o gruppo di persone, utilizziamo il singolare per praticità).

Noi, dunque, ci rapportiamo con il simulacro di questa persona, che comunica con il giocatore attraverso uno schema matematico che, per quanto complesso e flessibile nell'adattarsi alla sensibilità dell'utente, presenta comunque un ventaglio prestabilito e, infine, chiuso di possibilità e regole. Non siamo mai davvero padroni in un videogioco, e l'illusione di poterlo essere è l'ennesima conferma dell'assunto iniziale: la prova lampante - ed eccezionale nel suo confezionamento - di quanto i videogiochi siano potenti nel comunicare.

The Stanley Parable di Galactic Cafe sbatte letteralmente in faccia al giocatore questa illusione, mostrandogli come e perché la scelta sia poco differente dall'impressionante trucco da palcoscenico di un prestigiatore, pur potendo elevarsi ad elemento cardine dell'esperienza in termini di game design.

Senz'altro, la dimensione virtuale delle esperienze porta il fruitore a prefigurarsi le varie situazioni di scena, con relativi messaggi comunicati, come semplicemente rappresentative, ideologiche, ed in parte anche lontane dalla realtà. La pertinenza che un'esperienza interattiva intensa può avere nei confronti della realtà, semmai, è legata alla sfera emotivo-sensoriale che è in grado di toccare.

L'adrenalina che ci scorre in corpo durante una corsa serrata all'ultimo giro, o l'emozione per una scena toccante amplificata dagli aspetti peculiari del videogioco, quelli sono gli elementi di raccordo che davvero legano le realtà virtuali alla nostra concreta esistenza.

L'interattività, insomma, cela un'illusione: è l'illusione di una qualche compartecipazione, di una qualche flessibilità che il videogioco preserva sempre nei ritmi della fruizione, ma che in realtà nella forma e nella peculiarità comunicativa è solamente simulata.

Che cosa comunicano i videogiochi?

Un videogioco può sensibilizzare, desensibilizzare, persuadere, dissuadere, raccontare, pubblicizzare, denunciare, semplicemente divertire. Può fare tutto ciò e può non farlo, e sempre attraverso i suoi tratti peculiari inimitabili, talvolta persino sperimentali. Tuttavia resta ancorato anche ad alcune delle logiche comunicative canoniche - tanto quelle massive quanto quelle individuali - più di quanto si possa credere. Prendiamo il product placement, massicciamente utilizzato negli ambienti televisivi, del web e nel cinema. Potreste erroneamente pensare che le fugaci inserzioni pubblicitarie non siano una pratica così frequente tra i mondi virtuali videoludici, magari a causa della grandezza e dispersività di alcuni di essi.
Vi sbagliereste.

Da Metal Gear Solid V a Final Fantasy XV, da Shenmue ed i suoi distributori di Coca-Cola alla schiera di lattine di Monster Energy che Sam Porter Bridges consuma per recuperare vigore in Death Stranding; e le pile Duracell da raccogliere in Pikmin 2, o le riviste Playboy di Dead Rising 2; e volendo scavalcare con ogni probabilità la memoria dei più, possiamo citare addirittura Pepsiman, titolo PlayStation del ‘99 ideato e realizzato con l'assunto di design fondato sull'iconografia e rappresentazione di un intero marchio.

Anche la sensibilizzazione ad aspetti socio-politici è un fattore comunicativo importante toccato dal medium videoludico. A titolo d'esempio cito due produzioni: Black The Fall (per approfondire, ecco la recensione di Black The Fall), puzzle-platform di Sand Sailor Studios che ricalca ludicamente le orme di Playdead (Limbo, Inside), sfrutta il veicolo interattivo per operare una sottile critica ideologica al regime totalitario rumeno del despota Ceausescu.

Lo fa nel silenzio, sfruttando l'interazione anonima e lasciando che sia il giocatore a scoprire alcuni degli orrori di quel mondo, in quegli anni, e offrendo una ricostruzione storica romanzata e costruita sulle sensazione del giocatore. Sensibilizza, informa, racconta. Funziona, nel trasmettere un messaggio importante, che erudisce.

Orwell non racconta semplicemente le pratiche invasive ed altrettanto totalitarie denunciate nel celeberrimo 1984: Orwell permette al giocatore di calarsi nei panni dell'agente statale di quel contesto, di entrare attivamente in quel mondo e di sperimentare effetti e conseguenze delle azioni compiute.
Ecco, qui sta una delle grandi forze del gaming, forse ancora troppo taciuta: i videogiochi ci permettono anche di imparare, sperimentando.

Ci permettono di osservare le conseguenze di determinate azioni, di riceverne degli stimoli e delle sensazioni che possono sì desensibilizzarci e portarci a sviluppare una tolleranza nei confronti di determinate situazioni; eppure è in egual modo vero che essi possono istruirci, arricchirci e migliorarci operando il processo inverso, in maniera non meno dignitosa di quanto già non facciano altre forme di comunicazione certamente non altrettanto subissate.

La denuncia sociale della società americana di Grand Theft Auto sfugge ai favori dei riflettori, sopraffatta e mascherata dalla violenza fine a sé stessa, dal divertimento becero ed inopportuno, dal demonio che arma i giovani e li criminalizza.

Esiste, eppure, un pubblico in grado di interpretare quel contesto iperbolico, che valorizza non solo la comunicazione, ma l'intera opera, e con essa gli autori che l'hanno ideata e prodotta.

La ricerca scientifica, negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, ha riconosciuto ai mezzi di comunicazione di massa un ruolo anche a livello di produzione della realtà. Potrebbe sembrare eccessivo, eppure è così. I media, secondo la scienza, non si limitano più solamente a raccontare la realtà, ma ne plasmano attivamente una porzione attraverso le reazioni emozionali che suscitano nei loro pubblici; reazioni che acquisiscono un valore percettivo e fondamentale, dal momento che mostrano situazioni che riconosciamo come plausibili, che magari non ci toccano direttamente nella specifica circostanza, ma potrebbero farlo in futuro o averlo fatto in passato.

Se questo potere è attribuibile alla televisione, al cinema e alla radio (forse meno ai giornali), non è affatto insensato ritenerlo vicino anche ai videogiochi, che attraverso la dimensione interattiva amplificano in maniera ulteriore messaggi e situazioni proposte.

Videogiochi e Dintorni I videogiochi, è indiscutibile, sono strumenti complessi. È discutibile il loro inserimento in una logica comunicativa massiva per come le si è studiate sino ad oggi, eppure non è assurdo rifletterci e operare un collegamento. I videogiochi sono unici nelle loro logiche interne, nelle loro aspirazioni e costruzioni. Pur fra le spire di perpetue contraddizioni, vi si annidano elementi potenti ed estremamente affascinanti. Sono un'accademia di estro e creatività, di genio e follia; sono un forte veicolo economico, costruito su di un business massivo e particolarmente sensibile anche ad un pubblico di giovani, e per questo potenzialmente venefico ed esplosivo. Il videogioco è perfino una fucina comunicativa imponente, capace non semplicemente di raccontare ed intrattenere, ma di fare molto, molto di più. Sa insegnare, sensibilizzare, accompagnare, vendere ed emozionare. È un mezzo trasversale, che non può e non deve davvero più essere osservato sommariamente per la sola istanza interattiva, in nessuna sede.