Speciale Il Samurai, il Ninja, il Buzurro

In occasione dell'uscita di Ninja Gaiden su Xbox, ripercorriamo la storia della saga e la popolarità dei samurai nel mondo dei videogames.

Speciale Il Samurai, il Ninja, il Buzurro
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Disponibile per
  • Xbox
  • Il Samurai, il Ninja, il Buzurro

    È opinione diffusa che i videogiochi, al pari di tante altre manifestazioni dell'umano ingegno, siano
    soggetti agli effetti dello scorrere del tempo: l' obsolescenza, l'evoluzione,
    il perfezionamento. È opinione diffusa tra i (pochi) veri esperti, che le arti
    marziali siano pura codificazione formale e didattica di un modo di pensare,
    agire ed essere dell'uomo. Questi, grazie alla pratica e al proprio contributo
    culturale, può giungere a destrutturare la codifica stessa, riplasmandola senza
    stravolgerne l'essenza. Personalmente mi sono più volte domandato, tra il serio
    ed il faceto: "ma perché un Iriminage sì...e una sedia di pregiato cedro
    libanese in testa no?" Un dilemma forse più utile ad accompagnare l'ennesima
    pinta di birra consumata nei peggiori bar di Caracas, che non ad avviare una
    riflessione su come lo stesso interrogativo abbia coinvolto un certo tipo di
    produzione videoludica. Dall'uscita di sua maestà Ninja Gaiden si fa un gran
    parlare di come quest'ultimo abbia stabilito nuovi parametri per intendere il
    genere action. Tutto come da copione: il tempo scorre, il campione si evolve e i
    rivali devono rassegnarsi all'obsolescenza. Se da un lato è palpabile il
    distacco evolutivo imposto da Team Ninja ai diretti concorrenti, è pur vero che
    i superati Onimusha e Devil May Cry possono ancora inserirsi, insieme allo
    stesso Ninja Gaiden, all'interno di un'analisi che esuli dal valore prettamente
    ricreativo dei tre titoli, per sviscerarne quello più squisitamente
    marzialfilosofico. Solo così scopriremo perché il mio Iriminage, nonostante il
    colpo inferto al mio fegato dall'ultima birra, si sposi perfettamente con quella
    sedia che un energumeno sta sollevando sopra la mia testa: tecnica contro
    improvvisazione, forma contro creatività, fusi in un complesso dotato di piena
    coerenza interna entro il quale detengono pari dignità. Peccato soltanto che nei
    peggiori bar di Caracas non sappiano neanche cosa sia, il pregiato Cedro del
    Libano...

    La storia, la filosofia, i profili

    "Nella regione di Kamigata, le donne sono solite intrecciare
    cestini di vimini, da portare con sé durante le lunghe passeggiate primaverili,
    quando il ciliegio è in fiore. Al ritorno dal passeggio, le donne gettano i
    cestini a terra, e li schiacciano sotto il piede. In tutte le cose, è importante
    la Fine" (Hagakure, codice Samurai) "L'abilità nel ninjutsu in cui noi ci
    applichiamo sarebbe meglio conosciuta come l'arte del vincere. Noi assisteremo
    il sincero con la nostra abilità a vincere con lo spirito. I loro sogni
    diventano la forza della nostra visione, la quale diviene vibrante intenzione
    che prende forma nella mente, e si intesse nella fabbrica della realtà"
    (Insegnamento ninja). "Let's rock baby" (...) Il Samurai deriva la sua
    concezione di vita dal Bushido, la Via del Guerriero, che presuppone una
    dedizione totale al servizio del proprio Signore. Tale dedizione prevede la
    necessità della "infallibilità" delle proprie azioni, per ottenere la quale
    bisogna intraprendere un cammino di perfezionamento interiore che culmina nella
    totale padronanza della Morte. Per questo il samurai si abitua a vivere a
    contatto con la Morte, andandole incontro con la stessa indifferenza con cui si
    cammina per strada: perché il timore è l'unica condizione che può portare il
    Samurai sulla via della titubanza, del dubbio e quindi del fallimento. Lo scopo
    non è pensare e ragionare, ma agire in un istante per l'onore del proprio
    Signore, senza il quale la vita stessa del Samurai è priva di significato.
    Onorare il Signore significa anche condurre una vita onorata. Un atteggiamento
    diverso porterebbe al rimorso e alla vergogna; ed il Samurai, per compiere il
    suo Dovere, deve prima di tutto essere convinto di sé stesso e dell'onestà dei
    propri intendimenti. In assenza di una simile sicurezza, ogni azione perde in
    forza e risultato, il terrore della Morte tornerebbe ad affacciarsi alla sua
    mente, rendendolo inadeguato al suo ruolo. È esattamente questo il valore del
    suicidio rituale (seppuku): un rifiuto, una ostentazione di immunità dal timore
    della Morte. Anche nel vergognoso momento della sconfitta, il Samurai non
    rinuncia alla propria purezza. I Ninja devono le loro origini alla filosofia dei
    monaci erranti, fuggiti dai monasteri cinesi dopo il crollo della dinastia
    T'ang nel 900 DC. Tralasciando la genesi storica, potremmo riassumere la
    filosofia di vita del Ninja con una frase di Yasuyoshi Fujibayashi, autore del
    Basenshukai (10.000 fiumi si riuniscono nel mare), vera enciclopedia del
    ninjutsu, il quale afferma: "Per arrivare alla vera essenza dell'arte del Ninja
    bisogna cominciare ad eliminare l'inessenziale per raggiungere una condizione
    base di purezza spirituale, e arrivare a muoversi liberamente senza esserne
    intaccati, tra i regni polari della luce e dell'oscurità, come è richiesto
    dallo schema della totalità". Il Ninjutsu non risiede quindi nel semplice
    perfezionamento di metodi violenti e distruttivi, ma impone di coltivare
    l'armonia personale con l'ambiente circostante, in unione ad una sensibilità
    intuitiva che permetta all'uomo di leggere e capire, concordando con lo schema
    della totalità permeante l'Universo. In realtà, nonostante le travisazioni
    storico/popolari, nessuno come il Ninja era attaccato e fedele agli ideali della
    propria famiglia e comunità. Qualora un sovrano misericordioso si trasformasse
    in un tiranno, non perderebbe mai i servigi dei suoi Samurai. Questi
    continuerebbero a servirlo fedelmente, con dolore. Il Ninja non farebbe
    altrettanto, perché, al contrario del Samurai, non concepisce il bene del
    proprio Signore come mortificazione del proprio io, ma opera per compiere un
    Bene assoluto. Per questo il Ninja non aveva regole d'onore da seguire o
    rispettare, egli doveva solo fare in modo che il Destino si compisse o venisse
    indirizzato verso la realizzazione del Bene, usando tutti i mezzi a
    disposizione. Altro che "Compirò il mio dovere". Nonostante la profonda base
    filosofico/culturale, la tradizione Ninja non venne mai accettata dal mondo
    giapponese, fondato sul concetto di "do", quelle pratiche di tipo Zen
    considerate un mezzo per raggiungere l'illuminazione. Tuttavia suddette
    pratiche, soprattutto con l'avvento di periodi di pace, assunsero connotazioni
    di formalità e ritualizzazione (sado o rito del tè, kado o recitazione poetica,
    oltre ai vari judo, kendo...) che contrastavano culturalmente con il pragmatismo
    dell'espressione "fisica" del Ninja, manifestazione diretta della sua visione
    mistica del mondo. Al contrario, l'aspetto formale, composto e "rituale" delle
    arti Samurai rifletteva non l'aspirazione alla comprensione del mondo, quanto la
    volontà di stabilire un ordine proprio, per poi seguirlo abbracciandolo anima e
    corpo. Precisiamo infine che il Ninja applicava le tecniche e le manifestazioni
    "fisiche" solo dopo aver raggiunto un certo grado di "illuminazione" tramite lo
    studio e la meditazione, mentre il Samurai era proprio attraverso la pratica
    fisica, formale e rituale, che ambiva a raggiungere l'illuminazione. E
    giungiamo così al nostro demoniaco Dante, rappresentante principe di tutto ciò
    che si colloca al di fuori della Via, dell'insegnamento, della pratica formale
    e perfezionata, e che basa tutto il suo bagaglio di evoluzioni danzanti
    sull'istinto e sulla creatività del momento. Questo, se ci pensiamo, non è
    affatto poco: svariati stili dall'inflessibile codifica non ambiscono a
    nient'altro che a una padronanza tale della tecnica, ma soprattutto a una
    consapevolezza tale di sé, da giungere all'obliterazione del nozionismo che ha
    contraddistinto il loro cammino di apprendimento, per consegnare il praticante
    alla sola esperienza maturata, che attraverso l'imprescindibile rielaborazione
    personale è diventata parte integrante del proprio sé. Tuttavia, noi non siamo
    certi che Dante abbia mai studiato qualcosa; egli somiglia piuttosto al saggio
    che più va lontano e meno impara, e dunque realizza che solo stando fermi, si
    guadagni davvero la meta. O forse niente di tutto questo: solo il gusto del
    gesto spettacolare, dell'azione sbruffona, della mossa utile ad innescare una
    battuta sagace e irriverente. Let's rock, e il resto sono solo parole...

    Le
    tecniche, l'interfaccia, le conseguenze ludiche

    Way of the Samurai Molti, avvicinandosi per la prima volta a
    Onimusha, avranno storto il naso di fronte al sistema di controllo character
    relative mutuato da Resident Evil. Tutta colpa della croce digitale si dirà,
    assolutamente anacronistica nell'era dei pad analogici. Ma fermi: cerchiamo di
    ricordare quanto detto circa il Bushido, e cerchiamo di esaminare il sistema di
    controllo di Onimusha alla luce di quanto esposto. La croce consente una libertà
    di movimento limitata alle direttrici cardinali (così come, in fondo, il Samurai
    dirige le sue azioni lungo le virtù cardinali della Via: Coraggio, Lealtà, Pietà
    Filiale, Misericordia). Un simile schema condiziona l'agire del Samurai anche
    nelle situazioni di difesa: niente piroette, salti acrobatici, corse sui muri o
    piani rialzati raggiunti in un solo balzo. Il nostro fiero Samurai resta con i
    piedi ben piantati per terra, fronteggiando l'avversario senza alcuna volontà o
    possibilità di alterare subitaneamente il fronte di guardia o di attacco.
    Consentire fluidi movimenti diagonali significherebbe allargare quella rosa a
    possibilità di azione infinite, evenienza del tutto aliena al modo di agire e
    pensare del Samurai. Il Bushido non ammette scappatoie, cosa che precluderebbe
    l'onorato confronto con la Morte. In questo senso, si inserisce anche il fulcro
    del sistema di attacco/difesa di Onimusha che, si badi bene, non si compone
    della sola ordalia di affondi concatenati con cui fiaccare i propri avversari.
    Il button mashing è un'opzione consentita ed efficace, ma solo in qualità di
    alternativa all'acquisizione della padronanza di ciò che, a conti fatti, è
    l'unica capacità combattiva di Samanosuke/Jubei in grado di restituire loro la
    piena dignità del Samurai: la contromossa. Solitamente nei videogiochi una
    controtecnica scaturisce da un attacco nemico andato a vuoto o parato, che
    condanna l'avversario ad un attimo di inerzia psicomotoria. Al contrario, in
    Onimusha, la contromossa si configura come l'attacco più vicino alla filosofia
    marziale del Kenjutsu, ovvero la manifestazione del Vuoto acquisito dal
    guerriero, nella sua ricerca di perfezione. Trattasi di un concetto complesso:
    sarebbe in realtà possibile riuscire ad evocarne la "visione", facendo leva
    sulla sensibilità intuitiva di chi abbia già compreso che la padronanza di tale
    "illuminazione" passa attraverso la sua acquisizione percettiva, non logica. Il
    Vuoto si configura in un certo senso come l'autoconsapevolezza che ogni
    tecnica, ogni insegnamento o esperienza acquisita, si fondino nella stessa
    persona del Samurai, andandone a costituire un bagaglio a cui attingere non
    tramite il meccanico richiamo mentale, ma attraverso la capacità di "creare"
    un'azione inedita sulla base del patrimonio di azioni del passato in cui esse
    sono confluite. Semplificando: il Samurai, da mago col cilindro magico, da cui
    sa cosa uscirà e cosa no, si trasforma egli stesso nel cappello da cui estrarre
    la reazione opportuna, in maniera naturale e quasi incosciente. È il principio
    cosiddetto del "primo colpo", in cui il Samurai investe tutto se stesso. Se il
    "primo colpo" è inefficace, non ce ne sarà un secondo. In Onimusha questo
    complesso concetto viene rappresentato con grande efficacia proprio dalla
    contromossa, dove l'applicazione della stessa, come già detto, non muove da un
    affondo andato a vuoto o da una parata, ma principia nel momento stesso in cui
    l'avversario apre la sua difesa per portare l'attacco. In quel preciso istante
    il Samurai è in grado di fluire come acqua attraverso il colpo nemico. È
    interessante notare come in effetti nello scontro tra due Samurai lo studio
    reciproco prima di attaccarsi coincida proprio con lo scontro dei rispettivi
    Vuoto, da cui uscirà vincitore quello con la consapevolezza maggiore, con la
    capacità superiore di indirizzare la propria intuizione e volontà verso la
    vittoria, come se in realtà l'esito potenziale si decidesse ancora prima di
    realizzarsi fisicamente. Nel titolo Capcom, in effetti, l'attuazione della
    contromossa prevede che il giocatore impari a "sintonizzarsi" col ritmo del
    nemico, studiandone preventivamente i tempi di attacco, i movimenti, le
    reazioni. Solo dopo questo studio, applicato ad ogni avversario dotato di tempi
    e modi differenti, il Samurai di Onimusha sarà in grado persino di colpire con
    la stessa contromossa più avversari contemporaneamente, semplicemente entrando
    in sintonia col ritmo del combattimento stesso, dato dalla fusione dei movimenti
    e delle "intenzioni" di tutti i partecipanti allo scontro. I Sette Samurai, di
    Akira Kurosawa, contiene forse la più ficcante esemplificazione extra-ludica di
    questo concetto. Il Samurai Kyuzo, ammirato dai suoi compagni per la rigorosa
    concentrazione e per l'estrema perfezione formale, dimostra le sue doti
    all'incuriosito Kambei sbarazzandosi di un aggressore proprio grazie ad una
    fulminea, istintiva e letale contromossa. Lo scontro in questione, peraltro, è
    preceduto da una fase di stallo durante la quale l'aggressore tenta di rendersi
    minaccioso mediante grida e provocazioni, mentre Kyuzo rimane silenzioso e
    immobile, concentrato sull'essenza del combattimento imminente. Molti giocatori
    non se ne saranno accorti, ma si tratta di una peculiarità fondamentale di
    Onimusha, che durante lo svolgimento dell'avventura consente di perfezionare la
    propria capacità combattiva, acquisendo molto di più che la semplice padronanza
    di tecniche o sequenze di tasti, giungendo a cogliere l'essenza di uno scontro
    nell'attimo in cui l'intuizione sensibile esplode in seguito all'avvenuta
    sintonizzazione sul nemico. E allora non si tratta più, come spesso accade per
    altri action game, di tentare questa o quell'altra tecnica: nel momento in cui
    si agisce, si ha quasi la certezza che accadrà quanto prefigurato. Nei livelli
    più avanzati ci si ritrova così circondati da stuoli di avversari con i quali si
    riesce a orchestrare una sorta di armonia, grazie alla quale il giocatore
    "sensibile" sarà in grado di abbattere come bambù al vento anche tre o quattro
    avversari con un solo attacco, ricavando così non solo la soddisfazione di
    assistere al concretizzarsi di uno sforzo di comprensione di una certa
    meccanica, ma anche l'appagamento per la riuscita assimilazione di una così
    fedele trasposizione della filosofia dell'arte della spada, come teorizzata e
    messa in pratica dallo stesso Musashi. Onimusha, con la sua interfaccia tanto
    limitata nelle possibilità di movimento quanto il codice Samurai in quelle
    d'azione e pensiero, e con le sue meccaniche di combattimento così facilmente
    travisabili ad un approccio superficiale, custodisce in sé le ragioni di questa
    affascinante lettura.

    The Path of
    Ninja

    Anche Ninja Gaiden, al pari di Onimusha, vanta dei
    contenuti che riflettono la filosofia da cui prende nome. Innanzitutto il
    controllo del personaggio: potrà sembrare banale, ma al contrario di una croce
    direzionale di dispone del cerchio analogico, con conseguenti illimitate
    possibilità di movimento. Ryo Hayabusa, in quanto Ninja, è in accordo con i
    dettami della sua filosofia di vita, sintetizzati dalle parole di Yasuyoshi
    Fujibayashi più sopra riportate. Al contrario del Samurai, che mirava ad
    ottenere la perfezione assoluta di ogni gesto della vita quotidiana, dall'arte
    della spada fino al rituale del tè o nel rapporto con i suoi superiori, il Ninja
    seguiva una Via che potremmo definire uguale e contraria, in quanto suo scopo
    principe era quello di perfezionare anzitutto lo spirito e la comunione con
    l'universo, da cui poi sarebbe derivata la perfezione del suo agire. Per
    ottenere questo risultato il Ninja doveva applicarsi in uno studio non formale,
    come quello Samurai, bensì volto all'acquisizione di tecniche e pratiche
    esoteriche capaci di elevare la sua condizione spirituale. Lo studio come
    viaggio iniziatico. Ed ecco Ninja Gaiden con il suo corredo di tecniche
    codificate in complesse sequenze di tasti, la cui esecuzione risulta complicata
    dalla reattiva AI degli avversari ma agevolata da un sistema di controllo
    impeccabile. Lo studio di queste tecniche non è fine a se stesso: non esiste una
    tecnica superiore alle altre, persino il Flying Swallow, una sorta di jolly,
    secondo molti, al termine della sua esecuzione comporta dei lunghi tempi di
    recupero durante i quali si rimane in balia degli avversari. Lo stesso vale per
    il Guillottine Throw, o per la stessa esecuzione dei colpi speciali. È qui che
    entra in gioco la componente "umana" del Ninja, la sua personalissima
    rielaborazione interiore delle tecniche, che guadagnano efficacia solo qualora
    eseguite in accordo alla propria intuizione sensibile. In opposizione al rigido
    formalismo dei Samurai, il Ninjutsu incoraggiava lo sviluppo della personalità:
    ogni discepolo era e doveva essere diverso dagli altri, al fine di favorire la
    nascita di individui capaci di una superiore comprensione dell'universo e,
    quindi, in grado di diventare a loro volta maestri per altri Ninja. Nonostante
    la componente predefinita delle tecniche, codificate in sequenze di pressioni di
    tasti e levette, Ninja Gaiden prevede e consente lo sviluppo di una personale
    reattività creativa che si traduce nella sbrigliata manipolazione di ogni
    situazione di battaglia. "La tecnica è uguale per tutti, la sua applicazione
    no". Il Ninjutsu procede attraverso uno studio formale finalizzato al
    conseguimento di una visione personale, seguendo il proprio intuito e la propria
    percezione. Così un kunai esplosivo, una parete e quattro avversari indiavolati,
    costituiscono uno stimolo per l'esplosione della creatività del giocatore: il
    kunai si pianta sull'avversario più vicino, mentre Ryo, arrampicandosi sulla
    parete, favorisce l'assembramento degli avversari. L'esplosione del kunai
    investe i nemici mentre Ryo volteggia a mezz'aria; prima che si rialzino, Ryo
    Hayabusa sarà già atterrato e pronto a sferrare una spazzata che concluderà il
    lavoro dell'esplosione precedente. E ancora: quanti di noi hanno trovato
    pressoché inutile la possibilità di restare appesi per qualche secondo ad una
    parete verticale, come l'ultimo fantozziano passeggero dell'autobus delle
    7.30? Eppure questa semplice azione, in sede di ritirata, non fa altro che
    invitare l'avversario di turno ad attaccare nella nostra direzione, al che non
    ci sarà bisogno di alcuna evoluzione circense per evitarlo: sarà sufficiente
    sganciarsi dal muro per vederlo stampare il suo attacco contro la parete. Altro
    esempio eclatante è il sistema di tiro con l'arco. La maggior parte degli
    utenti vi si sarà accostato affidandosi alla mira automatica, imprecisa ma
    sicuramente meno disorientante di quella in soggettiva. In Ninja Gaiden il tiro
    con l'arco, in perfetta coerenza con tutto il resto, è pratica Zen, affidata
    all'applicazione della propria sensibilità intuitiva. I paglioni del secondo
    livello, situati là dove si acquisisce l'equipaggiamento relativo, non sono
    certo un orpello grafico o un mero sottogioco con cui trastullarsi. Eppure in
    pochi si fermerebbero ad affrontare una noiosa sezione di allenamento quando
    dietro l'angolo è in attesa un boss nuovo di zecca. Tuttavia quel boss vi farà
    rimpiangere di non aver fatto i compiti a casa. Con un po' di pratica ci si
    accorge di quanto risulti incredibilmente intuitivo sollevare quel pezzo di
    legno di ciliegio e scoccare una freccia che andrà a segno come risultato della
    conseguita capacità di indirizzare i dardi dove il giocatore "sente" che
    colpiranno. È interessante accorgersi di come il concetto di studio della
    situazione contingente, unito alla padronanza della tecnica, si realizzi in
    particolar modo nell'affrontare i boss di fine livello. Proprio in questi
    frangenti la differenza tra il giocatore che ha pienamente compreso questa
    filosofia e colui che si limita alla classica combo "vado avanti, uccido mostro,
    finisco gioco, passo ad altro" si manifesta in tutta la sua evidenza. Ripetere
    per decine di volte il combattimento contro lo stesso boss, nella speranza che
    la successiva sia quella buona, è una disposizione decisamente contraria a tutto
    quanto si è detto in merito all'arte del Ninjutsu. Scegliere il momento giusto
    per applicare la tecnica giusta (niente a che vedere con il trial and error
    tipico dei titoli più frustranti) è pratica possibile e appagante, in quanto
    Ninja Gaiden consente sempre una fase di studio del proprio avversario.
    Affrontare un boss di cui non si conoscono le peculiarità attaccando ciecamente
    è uno spreco di tempo e fatica, che conduce alla diffusa convinzione che Ninja
    Gaiden sia un gioco inaccessibile o mal calibrato. È sufficiente fermarsi e
    studiare l'avversario, il suo modo di muoversi e i suoi attacchi, per
    accorgersi di quali e quanti siano i limiti della tecnica avversaria. Un
    discorso a parte merita sicuramente la più discussa peculiarità di Ninja Gaiden,
    spesso decisiva nel declassarne il giudizio da ‘capolavoro' a ‘capolavoro, ma...':
    la telecamera. Lungi da me l'intenzione di voler trasformare quello che da molti
    è considerato un difetto oggettivo in un pregio di game design. Tuttavia,
    tentiamo ancora una volta di ricondurre un dettaglio al suo contesto. Alla
    telecamera di Ninja Gaiden molto si è lamentata l'impossibilità di ruotarla
    liberamente. Capita infatti che il giocatore, nel girare un angolo, si trovi
    nell'imbarazzo di non venir seguito a dovere dalla visuale, finendo così fra le
    braccia smaniose di uno o più avversari. Si tratta necessariamente di un
    difetto? Abbiamo detto che il Ninja mira all'uso completo di tutti i suoi sensi.
    Dunque anche l'udito. Pensate al primo livello e a tutti le sue curve cieche:
    ciò che non può essere visto in tempo perché precluso dall'inquadratura può
    essere captato da un rapido avvicendamento di passi sul legno: tump, tump, tump.
    E allora ecco che l'acuizione dei sensi, unitamente alla capacità di reagire
    fulminei ad una minaccia, diventano perfettamente coerenti con il way of
    reacting tipico del Ninja. Il nemico di un Ninja può essere invisibile, ma non
    per questo impercettibile o inevitabile. Questo discorso, sempre nell'ambito
    della telecamera, coinvolge indirettamente anche la vista, tramite un fenomeno
    forse di difficile percezione, ma che una volta appreso si dimostra come una
    squisita interpretazione ed implementazione dei più basilari principi del
    Ninjutsu. Una volta realizzate queste peculiarità, il giocatore ha acquisito la
    consapevolezza di doversi adattare ad un modo di pensare e reagire tipicamente
    Ninja, smettendo i panni del burattinaio ai comandi di un alter ego
    perfettamente addestrato, per accompagnare Hayabusa lungo il sentiero del Ninja.

    Streets of L.A.

    Qualcuno una volta disse che il vero potere deriva dal nulla,
    qualcun altro che la tecnica migliore è quella priva di struttura. Potremmo
    aggiungere un bel "l'ordine deriva dal Caos", ma siamo tutti abbastanza stanchi
    di citazioni storico/filosofiche. Se siamo arrivati fin qui, a ragione vorremmo
    distrarci e rilassarci un po': è il momento di Dante. Vero e proprio
    capostipite del genere "Stylish", Devil May Cry è stato per gli action game una
    piccola rivoluzione anche se, come sovente accade, rimase vittima di un hype
    pregresso che ne compromise il pieno apprezzamento del pubblico. Ciò non toglie
    che fu comunque foriero di una perfetta fusione tra innovazione ludica e
    stilistica. Tralasciando gli aspetti ludici, Devil May Cry fonda le sue
    meccaniche su quella che in fondo era la strategia letteraria del primo Jacopo
    Ortis, quello delle Lettere. Il gesto teatrale. Insomma, la "figata".
    Contrariamente ai due titoli sin qui analizzati (Onimusha con la sua
    impostazione formale, composta, quasi rituale, e Ninja Gaiden con la sua
    necessità di unire lo studio della tecnica alla capacità di adattamento), Devil
    May Cry è creatività allo stato puro, invenzione subitanea e totalmente al di
    fuori di schemi precostituiti. Non c'è bisogno di compostezza, applicazione o
    adattamento; occorre l'intuizione pura e semplice. Dante è il derviscio
    impazzito, l'apsara indiana (danzatrice sacra, NdA) che celebra il culto della
    mazzata scevra da ogni vincolo, in grado di esprimersi al massimo delle sue
    potenzialità solo grazie al contributo totale e votivo del giocatore. Questo è
    subito evidente nella mancanza di combo precostituite. Dante può "risvegliare"
    dalle sue potenzialità sopite solo abilità base, attacchi singoli, capacità
    innate che si realizzano pienamente solo attraverso la loro miscelazione
    creativa, senza che ci sia alla base né la necessità di studiarne l'esecuzione,
    né quella di acquisire un'impostazione formale. Esiste solo l'improvvisazione
    totale nell'estasi della battaglia. Dante solleva uno zombie con un fendente, lo
    congela a mezz'aria vomitandogli addosso fiumi di proiettili, quindi si accorge
    di un ‘clic' alle sue spalle che annuncia l'arrivo di un colpo di fucile, spicca
    il volo per evitare il proiettile e affiancare in aria la sua precedente vittima
    continuando a riempirla di piombo, infine decide di utilizzarla come trampolino
    per volteggiare sulla testa del fuciliere vigliacco, e segarlo in due con un
    fendente verticale. C'è un quale punto di questa azione che non soddisfa?
    Nessun problema, possiamo decidere di sfruttare lo zombie trampolino per
    accedere alla balconata ed affrontare gli avversari in attesa, oppure balzare
    direttamente sullo zombie che si era preso la fucilata dal compagno e finirlo.
    Niente combo fisse, niente lock on sul nemico più prossimo: assoluta libertà di
    scelta e di azione, su di un campo di battaglia in cui sta solo al giocatore
    accorto, ed amante del "bel gesto", sfruttare la propria consapevolezza ed
    inventiva per creare azioni spettacolari quanto efficaci. Un altro esempio:
    Shadow, la pantera d'ombra, balza a destra e manca, per poi sostare e
    prepararsi ad espellere la sua lancia nera. Dante inizia a volteggiare
    all'indietro, e quando la lancia parte fendendo l'aria... hop, Dante stacca da
    terra per ritrovarsi in piedi sulla lancia stessa: nessuna fretta, Dante
    percorre con passo spensierato il tragitto che lo separa dal muso felino,
    esplodendo borre di pallettoni in equilibrio sulla lancia. Il ghigno sul volto
    del giocatore artefice di tale prodezza è inevitabile, così come la dipartita
    del gattone. Stile, coolness, efficacia, creatività, il tutto in funzione della
    sola spettacolarità dell'azione. Dove in ICO il giocatore è regista e direttore
    della fotografia del suo viaggio amoroso, in Devil May Cry ne diventa il
    coreografo marziale, aiutato da comparse opportunamente prive dell'AI degli
    avversari di Ninja Gaiden. In questo senso si inserisce anche un'altra
    fondamentale peculiarità di Devil May Cry, che lo distingue nettamente dalle due
    produzioni già citate e che contribuisce a conferirgli una personalità
    distintiva: in Devil May Cry manca la parata. Dove Samanosuke o Jubei sono
    vincolati dal loro codice a mantenere una posizione salda ed inamovibile, e
    Hayabusa è addirittura in grado di combinare l'efficacia deflettoria della sua
    arma di turno alla maggiore mobilità, Dante non può fare altro che mettere in
    risalto la flessuosità, l'agilità del suo corpo. In Onimusha, lo scontro è
    fatto di lunghe pause di studio e di attesa, dove alla calma della
    concentrazione sugli avversari segue l'esplosione del Vuoto. In Ninja Gaiden,
    Hayabusa deve combinare la pausa allo scatto, il salto alla scivolata, la parata
    alla schivata, dimostrando così, in accordo alla sua filosofia, di "muoversi
    liberamente tra i regni polari della luce e dell'oscurità", Yin e Yang. In
    Devil May Cry, Dante è il vento tra le canne, il suo moto non si arresta se non
    al termine dello scontro. Non può fronteggiare un attacco diretto opponendo una
    forza uguale e contraria, non può nemmeno deflettere, può soltanto scorrere
    attraverso i suoi avversari, volteggiando, capriolando, saltando senza soluzioni
    di continuità, senza respiro alcuno. Creatività e frenesia, fuse in volo
    pindarico dalle movenze stylish.

    Conclusioni

    Anche una sedia in picchiata libera sulla
    propria testa, per quanto non nobilitata dal pregio di un cedro del libano, può
    essere fonte di riflessione. E dunque, di fronte a tre dei massimi
    rappresentanti del pestaggio a video, il pensatore non può fare a meno di
    chiedersi se davvero, dopo aver esaminato le peculiarità distintive di ciascuno,
    sia possibile decretare la superiorità strutturale dell'uno o dell'altro.
    Ormai pare che qualunque action game degno di entrare nell'Olimpo della
    categoria debba necessariamente confrontarsi con gli standard stabiliti
    dall'acrobatico Hayabusa. Tuttavia, non è detto che un nuovo pretendente al
    trono debba muovere i suoi passi lungo la via battuta da Ninja Gaiden. In questo
    senso sono convinto che i titoli fin qui esaminati vantino pari dignità nel loro
    riproporre con efficacia e coerenza i principi basilari dei diversi modi di
    intendere il Combattimento che li animano. Non esiste un metodo superiore
    all'altro, ma solo l'applicazione del metodo migliore nel posto giusto, al
    momento ideale. Se il capolavoro Tecmo regna indiscusso sull'effimero trono
    della tecnica, non vi è invece ragione di decretare vincitori o sconfitti in un
    confronto a tutto tondo fra le tre scuole di combattimento: Onimusha, Ninja
    Gaiden e Devil May Cry. In attesa, ovviamente, che qualcuno crei un titolo in
    cui sia possibile ordinare una birra in uno dei peggiori bar di Caracas, stage
    notoriamente temuto per la maestria con cui gli indigeni scaricano su innocui
    visitatori il Sacro Colpo della Sedia in Testa. A cura di Xibal

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