L'incredibile avventura nei videogiochi: la storia dei cinematic platform

Ripercorriamo gli albori dell'avventura videoludica, da Prince of Persia e Pitfall fino ad arrivare ai nuovi esponenti del genere.

EyeExpo: storia dei Cinematic Platform
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Negli ultimi anni il mercato videoludico ha visto il proliferare di produzioni dal taglio fortemente cinematografico. Quest'attenzione per la spettacolarità dell'azione non è solo una conseguenza delle possibilità dettate dall'avanzamento tecnologico, ma affonda le sue radici negli albori del game design di stampo occidentale. Prima con Pitfall! in forma embrionale, poi con Prince of Persia (qui potete leggere la nostra anteprima di Prince of Persia Remake) e a seguire con una moltitudine di produzioni che hanno segnato l'immaginario collettivo, i platform di stampo cinematografico hanno da subito codificato delle peculiarità inconfondibili che ancora oggi sopravvivono nei modi più disparati. Ripercorriamo quindi la storia dell'adventure occidentale tra trappole mortali, viaggi nell'ignoto e... salti dalla precisione millimetrica.

Prince of Persia

Con il primo Prince of Persia si indica solitamente la nascita di un sottogenere di videogioco molto specifico, ovvero il "cinematic platform". La seminale avventura apparsa per la prima volta nel 1989 su Apple II mise subito in evidenza alcune caratteristiche che differenziavano nettamente le avventure del Principe - e di tutti i suoi figli spirituali che sarebbero venuti da lì a poco - da produzioni di stampo giapponese.

Se i capolavori che riportavano la firma di Shigeru Miyamoto e Yuji Naka non si facevano problemi a sacrificare le leggi della fisica in funzione della fluidità di gameplay, anteponendo il ritmo e la giocabilità a qualsiasi altro aspetto dell'esperienza ludica, Prince of Persia era un gioco molto differente: atmosfera e narrazione influivano pesantemente sul gameplay, donando al titolo quello che oggi potremmo definire senza troppi problemi un taglio cinematografico. Certo, non immaginatevi filmati di intermezzo realizzati con sofisticate tecnologie di motion capturing né sequenze scriptate in grado di innestarsi con fluidità nel gameplay, tuttavia Prince of Persia fu concepito innanzitutto come un grandissimo omaggio a quel cinema di cui l'allora appena laureato Jordan Mechner si cibava quotidianamente.

L'ossatura della struttura di gioco, un platform bidimensionale a schermate fisse, non era certo nulla di nuovo per l'epoca e pescava a piene mani dai grandi classici dell'avventura come Pitfall!. Se quindi l'utilizzo di espedienti come il timer di gioco che imponeva una certa rapidità di esplorazione, un level design ricco di ostacoli ambientali e uno sviluppo anche verticale di ogni schermata erano già stati presentati quasi un decennio prima da David Crane su Atari 2600, l'opera di Mechner aggiunse un elemento mai visto prima: un'incredibile fluidità nei movimenti del protagonista con animazioni che per l'epoca proponevano un realismo senza paragoni.

Questo traguardo fu raggiunto grazie all'uso del "rotoscopio" una tecnica ancora mai utilizzata all'interno del medium videoludico che permise a Mechner di animare gli sprite di gioco tracciando dei filmati di riferimento. L'incredibile verosimiglianza delle animazioni del Principe era figlia di un certosino lavoro di "ricalco" che attingeva dalle fonti più disparate: dai VHS dove al fratello di Mechner era stato richiesto di eseguire azioni come scatti e salti, ai duelli del classico del 1938 "La Leggenda di Robin Hood" riutilizzate per le sequenze di combattimento tra spadaccini.

Il rotoscopio, conferendo una fisicità inedita al protagonista, permetteva un tipo di gameplay estremamente realistico. Ogni salto andava studiato al millimetro, era possibile interagire con lo scenario aggrappandosi alle sporgenze e ogni caduta poteva avere un impatto devastante sulla salute del Principe.

Nell'ora in cui il timer imponeva al giocatore di spezzare la maledizione di Jaffar e salvare la Principessa nasceva quindi anche l'impostazione "trial and error" che avrebbe contraddistinto tutti i cinematic platform a venire. Non c'era più la necessità di tenere un conteggio totale delle vite perché la morte era divenuta parte integrante del gameplay, un aspetto fondamentale del processo di apprendimento dei pericoli da affrontare e delle capacità esplorative del protagonista.

Con Prince of Persia Mechner confezionò un'opera circoscritta nella durata, ma monumentale nell'ambizione e nella portata della sua influenza e fu solo questione di tempo prima che le suggestive avventure d'Oriente facessero capolinea anche in Europa.

Il gioco creò un modello in grado di dare vita a tantissime declinazioni diverse della stessa struttura iniziale. È interessante notare come tutte le produzioni ascrivibili al genere dei cinematic platform presentino una forte connotazione autoriale e siano riconducibili alla visione di un team molto spesso formato da una sola persona.

Another World

Nel 1991 il programmatore francese Éric Chahi, seguendo lo stesso percorso di Mechner, diede vita a "Another World". Il background culturale e artistico di Chahi lo portarono a programmare da zero un'avventura ispirata alla science fiction dell'epoca: Another World è la storia di un geniale scienziato che in seguito a un esperimento si ritrova teletrasportato su un pianeta alieno popolato da creature ostili.

Questa volta l'utilizzo del rotoscopio fu affiancato da un rudimentale motore poligonale in cui modelli vettoriali si muovevano su dei fondali in bitmap. Dando ancora più importanza alla narrativa tramite cutscene ed eliminando qualsiasi tipo di hud e informazioni su schermo che potesse interrompere l'immedesimazione del giocatore nell'esplorazione del pianeta alieno, Another World si impose subito come un capolavoro atmosferico in grado di stregare intere generazioni di utenti. La sensazione di solitudine era seconda solo al senso di pericolo che richiedeva un'attenzione particolare verso le minacce aliene in grado di uccidere il protagonista all'istante e che necessitavano perciò di un approccio stealth e ragionato a ciascuna schermata di gioco. Non è un caso che Another World risulti tra i giochi più influenti di tutti i tempi e sia riconosciuto anche da un maestro del calibro di Hideo Kojima come un'opera fondamentale nella sua formazione da game designer.

Flashback

Nel 1992 fu il turno di Flashback, altra opera dal sapore sci-fi partorita dalla visione creativa del francese Paul Cuisset. Ritornano le suggestioni fantascientifiche tra futuri distopici, viaggi nel tempo e pianeti alieni, questa volta però con un'impostazione marcatamente più action incentrata sulle sparatorie e accompagnata da un utilizzo estensivo di filmati che si contrapponevano alla narrativa ambientale di Another World.

Nel frattempo, la tecnologia del rotoscopio aveva raggiunto in pochi anni vette impensabili e già le prime versioni di Flashback venivano pubblicizzate come un "CD ROM su cartuccia". Il gioco fu un successo senza precedenti e vantò numerosi porting che incrementarono ulteriormente le meraviglie tecniche che aveva da offrire. Con il passaggio all'era dei 32 Bit e ai vantaggi della diffusione dei cd-rom come supporto fisico per eccellenza, il genere dei cinematic platform era destinato a raggiungere la sua massima espressione.

Mentre i motori grafici in tre dimensioni iniziavano a muovere i primi passi e le avventure in terza persona cercavano di catturare lo stesso feeling di realismo sperimentato nelle avventure in 2D a schermo fisso, i cinematic platform traevano enorme vantaggio dai nuovi hardware in circolazione, unendo sempre di più le esperienze cinematiche al platform di stampo realistico.

Heart of Darkness

Se Cuisset fallì nel ricreare il successo di Flashback con il suo seguito spirituale, "Fade to Black", proponendo un action puzzle in 3D che perdeva gran parte del fascino e dell'immediatezza dell'opera precedente, Chahi si confermò come uno dei maestri del genere dando vita a "Heart of Darkness", questa volta dirigendo un intero team sotto la sua supervisione. La tipica linearità del genere veniva impreziosita da una grafica avveniristica per l'epoca, composta da sprite in 2D animati su fondali prerenderizzati e oltre mezzora di sequenze animate doppiate.

L'avventura del giovane Andy che, nel tentativo di salvare il suo cane, si ritrovava a dover combattere contro dei mostri ombra, univa ancora una volta quel sapiente mix di puzzle ambientali a esplorazione e combattimento in una struttura trial and error che, seppur consolidata, non mostrava ancora il peso degli anni.

L'epopea di Abe

Ben più sperimentale fu l'epopea di Abe il Mudokon, creatura nata dal genio creativo di Lorne Lanning che da protagonista dell'universo narrativo di Oddworld divenne ben presto una delle icone videoludiche più importanti della line-up di Sony Playstation. In "Abe's Oddysee" e "Abe's Exoddus" il gameplay traeva reale vantaggio dalle capacità di archiviazione e streaming dati del CD-ROM trasformando le interazioni "parlate" tra il protagonista e i mudokon prigionieri della tirannia degli Sleek uno dei cardini del gioco.

Inoltre, la possibilità di salvare o meno gli schiavi portava a un abbandono della linearità narrativa che aveva condizionato fino ad allora tutti gli esponenti del genere. Con puzzle dalla natura aperta, aree nascoste e segreti da scoprire, i primi due capitoli di Oddworld rimangono tutt'oggi forse tra le opere più complesse, stratificate e ambiziose dell'epoca. Ecco spiegato perché nomi influenti del calibro di Another World, Flashback e Oddworld vivano ancora oggi nella memoria collettiva dei giocatori e continuino a essere apprezzati tramite porting, edizioni celebrative e veri e propri remake (a tal proposito, vi invitiamo a recuperare la nostra recensione di Oddworld Soulstorm).

I nuovi cinematic platform

La settima generazione di console vide una seconda età dell'oro per il genere dei cinematic platform grazie anche e soprattutto alla nascita di sistemi di distribuzione digitale come l'Xbox Live Arcade che permisero il proliferare di piccole produzioni Indie. Ci fu quindi anche un ritorno al concetto di autorialità che si era perso con le produzioni a grosso budget che richiedevano necessariamente un lavoro di team strutturati. L'esponente più rappresentativo di questa nuova corrente fu proprio Limbo che faceva del suo approccio minimalista al game design il vero punto di forza (a questo link potete recuperare la nostra recensione di Limbo).

Il capolavoro del piccolo team indipendente Playdead presentava un ritorno alle origini del genere: la totale assenza di comunicazione verbale veniva rinforzata da una spoglia grafica in bianco e nero, pochissimi effetti sonori e un continuo giocare tra i contrasti di luci e ombre. Si trattava di un'estetica che pescava a piene mani dai capolavori del cinema espressionista tedesco e dal noir ma che sfociava innegabilmente in un'avventura dal sapore horror. Breve, inquietante e brutale: un trial and error puro che non ammetteva la minima distrazione da parte del giocatore n titolo in grado di estendere la sua influenza ben oltre le successive produzioni di Playdead.

A raccogliere l'eredità di Limbo ci ha pensato Tarser Studio con i suoi due "Little Nightmares". In questi Platform dalla forte carica atmosferica tutta la potenza del racconto è lasciata alla storia nascosta nei suoi ambienti, a quel tipo di narrativa silente che oggi viene definita "lore". La saga di Little Nightmares, seppur classicheggiante nell'impostazione di un gameplay che alle volte sfocia in un trial and error un po' frustrante, rappresenta comunque la testimonianza che il genere ha ancora un suo spazio nel panorama moderno e può continuamente rinnovarsi adattandosi ai gusti dei giocatori di oggi (se volete approfondire, eccovi la recensione di Little Nightmares 2).

La vera domanda è: può il genere liberarsi con successo dalla sua impostazione 2D e abbracciare definitivamente le tre dimensioni?
La risposta ce l'abbiamo già. Bisogna solo riavvolgere il tempo e tornare indietro al 2003 e a Prince of Persia: Le Sabbie del tempo. L'action adventure di Ubisoft realizzato in collaborazione con Mechner segnò forse il punto più alto di quella visione di game design iniziata quasi 15 anni prima.

La spettacolarità dell'azione vista in sala in quel periodo, da Matrix a La tigre e il Dragone, veniva perfettamente tradotta nella fluidità di movimento del principe che, memore del rotoscopio e delle animazioni in 2D, era ora in grado di correre sui muri, lanciarsi in spettacolari acrobazie e dominare lo spazio in ogni direzione, rendendo così possibile l'esplorazione di un level design che non conosceva i limiti della bidimensionalità.

La meccanica più rivoluzionaria risiedeva però sicuramente nella possibilità di riavvolgere il tempo per correggere i propri errori: ritentare un salto, sfruttare la distrazione di un nemico o evitare un colpo altrimenti mortale. Le Sabbie del tempo eliminava la frustrazione dettata dal "prova e sbaglia", il continuo muori e ripeti che era croce e delizia del genere.

La linearità di questa esperienza cinematografica era forse il suo più grande tallone d'Achille, o forse il tratto che segnò l'inizio della fine. Di lì a breve il mercato avrebbe virato verso produzioni dal sapore più ampio e abbracciato concetti come quelli di open world e free roaming che difficilmente si sposavano con il cuore di Prince of Persia.

Nonostante i tentativi di reboot, la saga fu prima affiancata e poi definitivamente rimpiazzata da Assassin's Creed, ma non è un segreto che le capacità di parkour di Altair, Ezio e degli altri appartenenti al Credo degli Assassini vengano da Oriente.

E nell'attesa che il Principe faccia il suo ritorno, possiamo continuare ad ammirare un lascito immortale: la continua ricerca della perfetta fusione tra narrativa e giocabilità per rendere il giocatore uno spettatore attivo.