Speciale Inganno Virtuale

Il grande e piacevole inganno della realtà virtuale

Speciale Inganno Virtuale
Articolo a cura di

"Quello che gli occhi vedono e le orecchie sentono, la mente crede."
Harry Houdini

In fondo, tutti adorano essere ingannati. Quando accade nella vita può far male, ma non c'è miglior modo per conoscere i nostri limiti se non quello di sperimentarli davvero. L'inganno migliore è quello che non prevede conseguenze spiacevoli, come uno scherzo, un indovinello col trabocchetto, le mani di un illusionista. Quando la conoscenza ha strappato via la magia, l'uomo ha continuato a cercarla rifugiandosi nella propria fantasia, costruendo dentro di sé luoghi in cui tutto può accadere, e dove non c'è catena e non c'è gabbia, ma solo pura e semplice libertà; la libertà di essere appunto ingannati, di fuggire dai limiti del reale anche se solo con la mente. Non tutti hanno un immaginazione abbastanza fervida per riuscirci, ma tutti sognano, di volare, di cadere da cento piani, di pilotare un aereo in fuga da mille versioni della stessa ronzante zia.
Il sogno è alla portata di tutti, ma solo raramente può essere afferrato e manipolato; il sogno preferisce di gran lunga confinare gli uomini alla mercé della loro stessa libertà, della loro stessa fantasia. L'unico modo per incanalare questa energia creativa è l'arte, ma per quanto dettagliata e profonda può essere una crosta, per quanto dettagliata e profonda può essere una storia, solo l'autore può percepirne tutte le sensazioni della genesi, come gli odori, la paura, la spensieratezza di un momento.
Il cinema ha fatto in modo che la sensazione di "esserci" fosse più concreta, quasi tangibile, al punto che nel 1895, durante la proiezione di L'Arrivée d'un train en gare de La Ciotat dei Fratelli Lumiére, la leggenda racconta che gli spettatori scapparono dal teatro per paura di essere travolti dal treno in arrivo proiettato sullo schermo. Fu proprio la sensazione di essere al centro della storia a dare la forza propulsiva iniziale alla cosiddetta "settima arte", chimera che ha continuato a perseguire durante tutta la sua evoluzione, fatta di schermi sempre più grandi, vagiti tridimensionali, sonoro sempre più immersivo: fino ad arrivare al cinema dinamico, ai suoi schizzi d'acqua e ai seggiolini semoventi. L'enorme limite del cinema è il suo essere un'esperienza passiva: essere al centro dell'azione d'altronde non significa farne parte.

Il primo a chiedersi se lo spettatore poteva assurgere a ruolo di protagonista è stato l'americano Morton Heilig, che sul finire degli Anni '50 ideò il Sensorama, enorme cabinato che permetteva all'unico spettatore possibile di vivere in prima persona un giro in moto per le strade di Brooklyn, con visuale a 360°, suono stereo, profumi e vento nei capelli. Ma è nella metà dei '70 che, grazie a Myron Krueger, questi esperimenti guadagnarono finalmente interattività e un nome, quello di "Artificial Reality".

"Il risultato è una realtà artificiale, un intero nuovo regno dell'esperienza umana in cui le leggi di causa ed effetto sono composte dall'artista."
Myron Krueger

Dai lavori di Myron Krueger, a partire dal seminale Videoplace (che potete guardare su YouTube, ricorda da molto vicino ciò che poteva fare il primo Eye Toy per PlayStation2, solo che più di venti anni prima) fino ad arrivare alle sue ultime suggestive teorie, la realtà artificiale (divenuta nel frattempo virtuale) si è fatta strada procedendo di pari passo con l'evoluzione della tecnologia.

Il videoplace


D'altronde le fondamenta di quello che avrebbe potuto divenire erano state gettate. A quel punto, a mancare erano soltanto gli ingredienti necessari per rafforzare l'inganno. Strano, divertente e vero: la realtà virtuale trovò una prima maturità artistica grazie alla fantasia dello scrittore, nonché profeta Cyberpunk, William Gibson, che ne descrisse luci e ombre nella sua oramai famigerate Trilogia dello Sprawl.

"Faceva caldo, la notte che bruciammo Chrome. Nei viali e nelle piazze le falene sbattevano fino a morire contro le luci al neon, ma nella mansarda di Bobby l'unica luce era quella del monitor e dei led rossi e verdi del simulatore di matrice. Conoscevo a memoria ogni chip del simulatore di Bobby: sembrava un normalissimo Ono-Sendai VII, il "Cyberspace Seven", ma l'avevo ricostruito tante di quelle volte che sarebbe stato difficile trovare un millimetro quadrato di circuiti originali in quel silicio."
William Gibson (La notte che bruciammo Chrome)

All'alba del 1990, la realtà virtuale pensò di essere pronta, sia per irrompere in ambito professionale che in quello strettamente ludico. Gli scritti di Gibson divennero film di successo (Johnny Mnemonic tra tutti), nelle fiere specializzate iniziarono a comparire i primi prototipi e trionfalistici piani di vendita, e nel mentre iniziò a prendere forma anche la paura, anzi il terrore, che l'isolamento indotto da questa comunque rivoluzionaria tecnologia potesse avere effetti disastrosi, non solo sul singolo individuo, ma su tutta la società.
Ecco così arrivare film come il mediocre Il Tagliaerbe, o i ben più interessanti eXistenZ di David Cronenberg e Strange Days di Kathryn Bigelow, fino al grande apice rappresentato dal primo Matrix dai fratelli Watchosky (che ora, è giusto specificare, sono fratello e sorella... alla faccia del cyberpunk!).

Esperienze di guida immersive nelle sale-giochi più chic


Moduli per la realtà virtuale iniziarono a spuntare qua e là, dalle sale giochi più in voga, ai centri commerciali più importanti. Il futuro sembrava così a portata di mano che la Vuzix commercializzò il primo casco per la realtà virtuale casalingo, il VFX-1, che venne supportato anche da alcuni importanti giochi Pc come Magic Carpet e Half-Life.

E poi, improvvisamente, più nulla. Sia la realtà virtuale che il Cyberpunk scomparvero nell'arco di poche ore, travolgendo i più disparati progetti, e portandosi dietro anche qualche carriera a sorpresa: quella del cantante Billy Idol per esempio, che con il suo disco Cyberpunk arrivò nei negozi di musica proprio il "day after". Un disco ottimo quello di Idol, ma con il suo cianciare di neuromanti e catene virtuali, anche schifosamente demodé. (Il) Cyberpunk fallì così tanto che si portò dietro pure la carriere del suo autore.

Billy Idol (Shock to The System)

Al netto di mode più o meno passeggere, la realtà virtuale non era ancora pronta per essere adottata in massa. La tecnologia, insieme a tutte le sue potenzialità (che divenivano man mano più tangibili), si rifugiò nel mondo professionale, dando man forte ad architetti, chirurghi, astronauti, sportivi e naturalmente militari. La realtà virtuale è rimasta così a decantare, e per molti anni, fino a quando un certo Palmer Luckey, grande collezionista di caschi per la realtà virtuale e uno degli utenti più attivi del sito Meant to be Seen, decise che era l'ora di produrne uno da sé, pensato specificatamente per i videogiochi, costruito con tecnologia all'avanguardia ma tenendo sempre un occhio al prezzo.

Dallo slancio di Palmer Luckey e dall'appoggio di personalità dell'industria dei videogiochi come John Carmack, nasce nel 2012 la Oculus e il suo primo progetto, denominato Rift. Dalla sua nascita a oggi, Oculus le azzecca tutte.
Il Rift non viene lanciato semplicemente sul mercato (è un prototipo, lo è ancora oggi!), ma la sua avventura inizia grazie a una campagna Kickstarter, in cui sono gli appassionati interessati al progetto a metterci i soldi. Dopo poco meno di un anno, i primi prototipi arrivano nelle mani degli interessati che iniziano a sperimentare e a sviluppare, dando vita a un mercato fiorente ancor prima che questo mercato esista davvero. L'approccio è vincente, scatena un coinvolgimento generale impressionante e altre compagnie iniziato a sperimentare in gran segreto sul futuro della realtà virtuale, come Valve, come Sony.

Può sembrare incredibile, ma inizialmente non c'è competizione: il fatto che il Rift sia stato sovvenzionato dal suo stesso pubblico, lo rende un esperimento a cui si può contribuire con la coscienza pulita, anche se si lavora per quella che potrebbe sembrare la concorrenza. Nemmeno si prende più in considerazione il fattore rischio, mentre nel frattempo, i video online degli utilizzatori più o meno casuali di un Rift, si trasformano in divertentissimi video virali, alimentando ulteriormente il mito.

Questa luna di miele tra tutti i possibili attori in scena, finisce pochi giorni fa, quando Facebook apre il portafoglio e si pappa in un sol boccone da 2 bilioni di Dollari la compagnia di Palmer Luckey e il suo team delle meraviglie. Nel frattempo, Sony diventa il primo vero colosso dei videogiochi ad annunciare un suo visore per realtà virtuale, Progetto Morpheus, dedicato esclusivamente a PlayStation4, piantando un seme per battaglie future fatte non solo di videogiochi, ma di una concreta ramificazione evolutiva nell'interazione tra uomo e macchina.

"Ascoltami bene Maria, io e te non esistiamo. Tutto quello che ci circonda non esiste. Zio Nicola, la pizza, il vino, la casa. Sono un'illusione. Noi due siamo personaggi di un gioco"
Diego Abatantuono (Nirvana)

Perché ieri no, mentre oggi sì? Perché la realtà virtuale di oggi è davvero un prodotto che può funzionare su larga scala. La tecnologia permette latenze minime e risoluzioni massime, un tracking del corpo molto accurato e sopratutto dimensioni e pesi discreti, oltre a prezzi assolutamente abbordabili (Oculus punta a vendere la versione finale del Rift non oltre i 300 Dollari).
Ed è il momento giusto anche perché era da molti anni che non si vedeva una scena indipendente così forte e prolifica, e la scena indie è l'unica che oggi può prendersi dei rischi concreti, rischiando non solo di farla franca, ma anche di fare il proverbiale "botto".

Cosa ancora più importante, come anticipavano alla Oculus e come conferma l'acquisizione da parte di Facebook, c'è anche molto altro sotto: la natura asociale della realtà virtuale la rende paradossalmente un'arma invincibile quando si tratta di interazioni social, visto che può abbattere quasi ogni distanza, permettendo una vastissima gamma di interazioni estremamente fisiche anche in un contesto completamente digitale.
E che ne pensate di assistere a una partita in diretta, ma come se stessimo seduto sul miglior posto dello stadio? Tutto questo conferma che ad essere pronta non è soltanto la tecnologia in questione, ma noi stessi, e il nostro modo di fruire contenuti. Fortunatamente, almeno per quel che riguarda i videogiochi, non tutto quello che è intrattenimento digitale si sposa bene con una tale immedesimazione. Chi ha avuto tra le mani (e in testa) un Rift lo sa già bene: funziona solo quando il gioco prevede la prima persona, altrimenti l'effetto è alquanto straniante. Per il momento insomma non c'è nulla da temere, i nostri JRPG sono al sicuro da feroci strappi evolutivi, ma a queste esperienze se ne aggiungeranno delle altre, e delle altre ancora. E arriveranno anche i problemi: se i videogiochi possono essere un ottimo modo per passare il tempo, lo sono anche per richiudersi in una gabba di pensieri. Ed è impossibile non vedere i rischi di tali applicazioni sulla quotidianità di una persona già a rischio, è impossibile non vedere i rischi eventuali di una vera e propria dipendenza da realtà virtuale. Rispetto alla lunga storia della realtà virtuale noi ci troviamo proprio qui, alla fine di questo articolo, ovvero nel presente, in quella strana posizione in cui possiamo goderci il meglio, senza però dimenticare di prepararci al peggio. Comunque vada noi ci vediamo in fondo alla tana del bianconiglio.

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