Speciale L.A. Confidential

Los Angeles: la Mecca del cinema, del noir e dei Lakers, la cattedrale della civiltà automobilistica diventa per una settimana il crocevia mondiale del videogioco. Fate attenzione alle sue autostrade, dove la gente ha paura di buttarsi!

Speciale L.A. Confidential
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"La gente ha paura di buttarsi nel traffico delle autostrade a Los Angeles. È la prima cosa che sento dire al mio ritorno in città. Blair viene a prendermi all'aeroporto e la sento mormorare questa frase mentre sale la rampa d'accesso. Dice: La gente ha paura di buttarsi nel traffico delle autostrade a Los Angeles. Questa frase non dovrebbe infastidirmi, ma non riesco a togliermela dalla testa. Inquietante. Nient'altro sembra avere importanza. Non il fatto che ho diciott'anni, che è dicembre, che il volo è stato orribile e che quei due di Santa Barbara seduti di fianco a me oltre il corridoio in prima classe non hanno fatto altro che bere. Non il fango freddo e viscido che mi ha imbrattato i jeans stamattina presto in un aeroporto del New Hampshire. Non la macchia sulla manica della camicia umida e stropicciata che indosso, una camicia che stamattina era fresca e pulita. Non lo strappo allo scollo del mio gilet scozzese che fa ancora più costa orientale qui che sulla costa orientale, specialmente in confronto ai jeans attillati e puliti di Blair e alla sua T-shirt di cotone azzurro. Tutto questo diventa irrilevante in confronto a quell'unica frase. Sembra più facile ascoltare quella frase sulla gente che ha paura di buttarsi nel traffico delle autostrade che non "Sono sicura che Muriel è anoressica" oppure la canzone alla radio che urla qualcosa sulle onde magnetiche. Nient'altro sembra avere importanza al di là di quelle quattordici parole. non il vento caldo che pare spingere la macchina giù per l'asfalto dell'autostrada vuota, o il vago odore di marijuana che aleggia ancora nell'auto di Blair. In definitiva di sicuro c'è solo che ho un mese di vacanza, che ho appena rivisto qualcuno che non vedevo da quattro mesi e che la gente ha paura di buttarsi"
Bret Easton Ellis, Meno di Zero, Einaudi, 1996

Ho letto il romanzo Meno di Zero, esordio letterario di Bret Easton Ellis, nell'Estate di 2 anni fa di ritorno dall'Electronic Entertainment Expo, che come di consueto si era appena concluso in quel di Los Angeles. Avevo allora un ricordo fresco della città californiana, mi sembrava vera la polemica sul traffico di Los Angeles, una congestione continua nonostante la loro Via Roma sia in realtà un'autostrada da quattro corsie per senso di marcia.
Mi sembravano autentici anche i protagonisti del romanzo, ragazzi tutti uguali, biondi ossigenati ed abbronzati, che parlano di locali soltanto in cui mandar giù un boccone, tagliano stupefacenti quando non sono a bordo piscina e vivono all'ombra di papà, produttore cinematografico di successo che com'è giusto che sia è sempre in ufficio, ora castigando la segretaria, ora risolvendo qualche gioco pan-pacifico senza conoscere affatto questi Flaming Dragon.

Esagerazioni romanzesche a parte, mi sembrava veritiero lo scoperchiamento di una città autenticamente contraddittoria, capace di alternare con nonchalance isolati abitati da ebrei ortodossi, prato verde tagliato e ronda di quartiere permanente, a quartieri tutto asfalto e scritte coreane, se la memoria non mi inganna quasi tutte riferite a esercizi dentistici. Un dipinto scolpito nella mia mente e rinfrescato ogni volta che voglio pigiando il tasto di accensione dell'Xbox, evidenziando il tile di Grand Theft Auto V. Perchè oramai dentro di me Los Angeles è il lato creativo, bizzarro, sincretico e contraddittorio dell'America, un quasi-Messico, catturato con sarcasmo (ma nemmeno troppo) dai tizi di Rockstar. Trovare la figlia di Michael abbracciata alla tazza del cesso fa troppo Meno di Zero, questa gioventù bruciata che non sa che fare oltre a bere, figurati se pensa anche solo per un istante di "buttarsi". Parcheggiare un trattore a Vespucci Beach (aka Santa Monica) non sembra nemmeno fuori di testa per una città che vede sfrecciare le fuoriserie di Tesla, veloci come una Ferrari però elettriche perchè "zio, io rispetto l'ambiente": siamo arrivati ad una simile concezione di muoversi, in cui la moda (ambientalista) rincara esponenzialmente i prezzi. Quando prima o poi tornerà di moda la vita agreste e sarà chic avere una manciata di acri da coltivare in rigorosa rotazione triennale, forse vedremo i sopracitati figli di papà bearsi del proprio guardaroba e parco macchine campagnolo. Secondo me a qualcosa del genere prima o poi ci arriveremo!

La capitale mondiale del videogioco

Tuttavia parlare di Los Angeles sulle pagine di Everyeye, specialmente sul finire di Maggio, significa essenzialmente una cosa: Electronic Entertainment Expo. Ogni 12 mesi l'eclettica metropoli californiana tinge i propri grattacieli dei videogiochi più in vista e trasforma gli addetti della dogana da severi inquisitori ad appassionati di Madden o League of Legends. Prima le conferenze sparpagliate ai quattro punti cardinali, raggiungibili solo in auto (magnifichiamo la capitale mondiale delle 4 ruote!) o sedendosi su pullman tipo gita del Liceo brandizzati Electronic Arts o Sony; poi lo Staples Center ed il complesso fieristico accanto attraggono come calamite giornalisti videoludici da tutto il mondo ed executive in giacca e cravatta, mixando in maniera unica t-shirt sgargianti e completi di Armani. 2 anni fa Microsoft e Sony alzavano il velo sulla next gen, tessendo le lodi di un salto generazionale che ad oggi non si è ancora compiuto. Mentre i due produttori hardware provavano a convincerci con trailer in Computer Grafica, uno sviluppatore polacco incantava la stampa con un'ora di demo gameplay, veramente e fieramente next gen. Nemmeno a farlo apposta, due anni più tardi The Witcher 3 gira sui nostri PC e console ed è veramente e fieramente next gen; cercate il downgrading piuttosto dalle parti di Redmond e Tokyo, dove la potenza grafica ancora latita e con essa fresche idee di gameplay.
La vera certezza risiede nel fatto che i cicli generazionali di 4-5 anni sono definitivamente tramontati.

Sono finiti i tempi in cui nel giro di un biennio venivano sparate tutte le cartucce e poi se c'era tempo si lanciava un sequel; da ora in poi difficilmente troveremo un Gran Turismo, un Halo o un Super Mario al lancio, ma i pezzi da novanta saranno sempre più distillati in archi temporali sempre più estesi. La scorsa generazione è durata 7, giusto il tempo perchè il PC recuperasse il gap tecnologico e staccasse di diverse lunghezze le architetture Microsoft e Sony. Quella attuale nella migliore delle ipotesi proseguirà per un decennio, altri 8 Assassin's Creed e Call of Duty, 3 Uncharted d'ordinanza ed altrettanti Gears of War. Ci sarà spazio per IP nuove senza dubbio, ma saranno quasi sempre investimenti certificati dalla divisione marketing, inseriti nel trend dei MOBA, dei free-to-play, delle fanbase ereditate da cinema e serie TV, del cel shading spacciato ancora per novità. Chi ci salverà? Io scommetto sul coraggio di due ometti. Il primo è lo sviluppatore AAA che nel solco delle linee guida imposte da un incravattato di Finance sa osare nelle meccaniche, dare una ripulita alle abusate convenzioni, reinterpretare le regole della partita come Splatoon ha fatto nell'arena degli sparatutto multiplayer. Ma questo ometto deve essere con le palle, caparbio e dannatamente capace, deve esplorare tutte le idee che ha in mente come se non ci fosse un sequel e non provarci tanto per come Insomniac e Sunset Overdrive. L'altro ometto, e la Gamescom 2014 me lo ha fatto pure incontrare, è lo sviluppatore indipendente. Il solitario o colui che porta i pantaloni in una coppia di developer da garage, che rifiuta il mobile, preferisce l'Early Access di Steam oppure si lascia inquadrare nel programma ID@Xbox. Parla ai gamer, i videogiocatori veri, in cerca di originalità, sfida, schemi di controllo fuori dagli schemi. Tutte robe da anni '90 ed infatti gli indie developer ci sguazzano nella pixel art e nella visuale di profilo. L'ometto è Kris Piotrowski, direttore creativo di Below, il quale pensa al videogioco sul quale sta lavorando come ad un figlio da crescere e non come ad un comunicato stampa sul quale è riportato cosa si può dire e cosa si potrà dire solo tra un paio di mesi. Lo sviluppatore veramente coinvolto parla del proprio gioco a braccio, conosce il genere d'appartenenza perchè lo ha amato fin da piccolo, vuole fare qualcosa per fargli fare un passettino in avanti e realizzare un qualcosa di cui va fiero, che piacerebbe giocare a lui in primis e di cui ovviamente è felicissimo di parlare. Il futuro del videogioco, di cui l'E3 è il più importante crocevia annuale, si spera sarà sempre più in mano a questi due ometti, che sapranno trarre il massimo dai budget e dalle tecnologie a disposizione (assai diverse tra loro), avendo come base comune le idee giuste al momento giusto. Una fiera come l'E3 impone percorsi guidati dai tanti AAA, protagonisti delle conferenze di apertura e contesi tra i redattori per l'incontro a porte chiuse, ma è quasi sempre la demo station attorno alla quale c'è poca ressa e di cui magari non si è mai sentito parlare che saprà dare un senso alle 12 ore di volo per raggiungere Los Angeles e stampare un sorriso sulla faccia da amore per i videogiochi nei mesi successivi. Almeno finchè il nuovo Call of Duty non ti fa cascare le braccia...per non dire qualcos'altro!