Molestie e scandali sessuali nell'industria videoludica

Dal Gamergate alle accuse rivolte ad Avellone, passando per gli uragani che hanno investito Ubisoft e Riot Games.

Molestie e scandali sessuali nell'industria videoludica
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Miranda Pakozdi non sta giocando come dovrebbe. E dire che lei, con i personaggi di Tekken, ci sa proprio fare - tant'è che è stata scelta per partecipare al reality show Capcom Cross Assault. Siamo nel 2012, e il torneo/reality è finalizzato a promuovere l'ottimo Street Fighter x Tekken. Un'opportunità fantastica per Miranda, che però non riesce a concentrarsi. Ride nervosamente, cerca di ignorare qualcuno. Si tratta di Aris Bakhtanians, a capo della sua squadra, il Team Tekken: l'uomo cerca di indovinare la sua taglia di reggiseno, fa commenti insistenti sul corpo della giocatrice, le chiede più volte il nome del suo ragazzo. Dopo un quarto d'ora, Aris si avvicina a Miranda per annusarla. È troppo. La ragazza si alza e si ritira dalla competizione. E mentre Miranda si avvicina alla porta, l'uomo continua a chiederle come si chiama il suo fidanzato: la ragazza apre la porta e a mezza bocca risponde "Joe". La particolarità di questo episodio? Potete assistere alle molestie sessuali a danno di Miranda su YouTube. Tutto filmato, tutto incontrovertibile. Magari fosse sempre così.

Un fenomeno globale

Sappiamo tutti che quanto accaduto a Miranda non è un caso isolato. Le più recenti stime dell'ONU affermano che il 35 % delle donne di tutto il mondo ha subito violenze fisiche e/o sessuali almeno una volta nella vita; in alcuni Paesi questa percentuale sale fino al 70 %. Quanto all'Italia, i più recenti dati Istat - pubblicati a fine 2019 e riferiti all'anno precedente - evidenziano che il 39,3 % della popolazione italiana ritiene che una donna sia sempre in grado di sottrarsi ad un rapporto sessuale, se davvero non lo vuole. Il 23,9 % degli intervistati è fermamente convinto che le donne possano provocare la violenza sessuale se vestite in modo troppo disinibito; il 15,1 % ritiene parzialmente responsabili le vittime ubriache o sotto l'effetto di sostanze stupefacenti. Potremmo andare avanti, ma una semplice visita al sito dell'Istat o di un qualsiasi centro antiviolenza vi mostrerà chiaramente quanto è profonda la tana del Bianconiglio.

Soprattutto negli ultimi anni, il mondo femminile non è rimasto a guardare. È ormai celebre il movimento #Metoo, avviato nel 2017 tramite l'utilizzo dell'hashtag su numerosi social media, volto a denunciare la violenza sulle donne, e in particolare le molestie da molte subite nei rispettivi luoghi di lavoro. In un'era come la nostra - in cui parole e pensieri volano alla velocità della luce sul web - le parole delle migliaia di donne coinvolte nel movimento hanno avuto un peso enorme nel dibattito pubblico, portando una rinnovata sensibilità nei confronti del tema: l'Italia, ad esempio, ha effettuato significative riforme al suo sistema penale, con l'introduzione di nuove e più stringenti disposizioni in materia di violenza di genere (ad esempio l'art. 612-ter cod. pen., dedicato al "revenge porn").

D'altro canto, l'acclamata scrittrice Margaret Atwood (attiva femminista e autrice, tra l'altro, de Il racconto dell'ancella e I testamenti, romanzi distopici di denuncia della violenza sulle donne) mette in guardia contro il pericolo di considerare colpevoli tutti gli accusati senza che prima abbiano ricevuto un giusto processo. Una questione delicatissima, sotto ogni punto di vista. E il mondo dei gaming non è certo rimasto a guardare.

GamerGate

Nell'estate 2014 un altro hashtag fece molto parlare di sé: #GamerGate. Non si trattava però di un modo per denunciare violenze. Al contrario, gli user di piattaforme come Reddit, 4chan e Twitter avevano intrapreso una vera e propria campagna d'odio nei confronti di alcune donne all'interno dell'industria videoludica. Tutto iniziò da un post sul blog di Eron Gjoni, ex fidanzato di Zoe Quinn, sviluppatrice indipendente che aveva da poco rilasciato il suo videogame, Depression Quest. Gjoni affermava che Quinn era andata a letto con Nathan Grayson, giornalista di Kotaku, in cambio di una recensione positiva per il titolo da lei creato. Nota a margine: Grayson non ha mai recensito Depression Quest, né su Kotaku né altrove,

I fatti non furono abbastanza per scagionare la Quinn agli occhi di un pubblico aggressivo che continuò per mesi a tempestarla di insulti e a minacciarla di stupro e di morte sui social, sempre utilizzando l'hashtag #GamerGate. Il movimento si estese in maniera notevole, arrivando a coinvolgere anche altre figure più o meno eminenti del panorama videoludico femminile, come la game critic Anita Sarkeesian - "colpevole" di fare divulgazione su YouTube in materia di femminismo e videogiochi - e Brianna Wu, sviluppatrice indipendente e co-fondatrice dello studio Giant Spacekat: quest'ultima ha dichiarato che, nell'aprile 2016, ancora riceveva un tale volume di minacce da avere assunto un impiegato appositamente preposto a raccogliere le stesse e ad archiviarle per finalità giudiziarie.

L'impatto del fenomeno fu incalcolabile: perfino l'allora (e tuttora) Primo Ministro canadese Justin Trudeau prese posizione contro #GamerGate, e l'FBI aprì un fascicolo al riguardo, anche se le investigazioni vennero chiuse nel settembre 2015 a causa dell'impossibilità di identificare i colpevoli, tutti tricenrati dietro i loro username.

Riot Games

L'8 luglio 2018 uscì un articolo destinato a generare un vero e proprio terremoto nel mondo del gaming. Kotaku pubblicava "Inside the culture of sexism at Riot Games", firmato dalla famosa giornalista d'oltreoceano Cecilia D'Anastasio e frutto di decine di testimonianze anonime da parte di impiegate della compagnia. Poco dopo l'inizio dell'inchiesta di Kotaku - che era giunta alle orecchie attente dei vertici di Riot Games - sul sito della compagnia è apparsa una sezione nominata "Diversity and inclusion", in cui si predicava tolleranza zero nei confronti molestie e sessismo sul posto di lavoro. Peccato però che la realtà descritta dalle lavoratrici fosse ben diversa.

Le denunce giunte ai giudici californiani lamentavano comportamenti pesantemente sessisti, come l'invio di dickpic nella posta privata, la circolazione di una lista in cui venivano classificate le impiegate in base alla loro bellezza, e rappresaglie come la riassegnazione con perdita di benefit delle donne che decidevano di parlare dei comportamenti "tossici" e chiedere provvedimenti ai loro superiori. In ultima analisi, il colosso di League of Legends non dava di sé un'immagine variopinta e inclusiva quanto quella ostentata dai personaggi del suo titolo di punta.

Le discriminazioni non si fermavano qui: è emerso che molte dipendenti donne erano pagate meno rispetto agli uomini in posizioni equivalenti. Nel dicembre 2019 le parti in causa hanno concordato il pagamento di dieci milioni di dollari da parte di Riot Games a circa mille impiegate che hanno lavorato nell'azienda a partire dal novembre 2014. Un portavoce di Riot Games ha dichiarato che "l'accordo è un importante passo in avanti per rendere Riot un ambiente inclusivo per i migliori talenti dell'industria". L'azienda ha inoltre aperto un Diversity Office per curare ogni attività relativa alla parità di trattamento dei lavoratori. Fa un po' specie che per parlare di inclusività e rispetto venga utilizzato il termine "diversità", piuttosto disarmante, visto che l'obiettivo dell'ufficio è quello di perseguire l'uguaglianza tra i dipendenti della compagnia.

Il caso Avellone

Dalle aule dei tribunali torniamo sui social network. Il mese di giugno di quest'anno è stato molto impegnativo per Chris Avellone, autore di videogame di successo e co-fondatore di Obsidian Entertainment. Una utente di Twitter di nome Karissa ha rivolto pesanti accuse ad Avellone, denunciando sul social i suoi comportamenti predatori nei confronti di molte donne. In un successivo Tweet Karissa racconta in dettaglio l'episodio che l'ha vista protagonista: Avellone l'avrebbe fatta ubriacare durante una convention, per poi portarla in albergo e tentare di abusare di lei.

Il condizionale è d'obbligo, visto e considerato che, ad oggi, non vi è stata condanna giudiziaria per queste accuse nei confronti di Avellone: come avvertiva Atwood qualche anno fa, le denunce sui social rischiano di trasformarsi in un nuovo tipo di giudizio, con regole molto diverse rispetto a quelle in vigore nelle aule di tribunale degli Stati di diritto, e il pubblico di Internet a vestire i panni dei togati.

In ogni caso, le parole di Karissa non sono rimaste isolate. Dopo neanche ventiquattr'ore Jacqui Collins, PR di Valorant (altro titolo di punta di Riot Games insieme al già citato League of Legends), ha condiviso - sempre su Twitter - lo screen di una conversazione avuta con Avellone nel 2014, con una risposta decisamente inappropriata e dal pesante sfondo sessuale da parte del celebre sceneggiatore.

Con amarezza, Collins commentava: "Ciò che mi fa rabbia è che altre persone nell'industria mi hanno fatto di peggio. Sono stata stuprata, molestata, e toccata in maniera inappropriata da persone che non sono Chris [Avellone]. Ma da uno stupro non si può trarre uno screenshot". Salvo in casi particolari, come le molestie capitate a Miranda.

Numerose altre donne hanno denunciato sui social i comportamenti di Avellone. La reazione del pubblico è stata di condanna, soprattutto dopo la lettura dei messaggi destinati a Collins. Non manca, naturalmente, chi preferirebbe che Avellone venisse giudicato in sedi forse più appropriate dell'Internet. Ad oggi, compagnie come Paradox, Gato Studio e Techland - con cui Avellone aveva rapporti di lavoro collegati allo sviluppo di titoli quali Dying Light 2 e Vampire: The Masquerade - Bloodlines 2 - hanno deciso di interrompere le loro collaborazioni con l'autore statunitense. La speranza è che queste vicende vengano chiarite nelle opportune sedi legali.

Ubisoft

Sono recentissime le vicende che hanno coinvolto numerosi dipendenti, di tutti i livelli, dell'azienda francese Ubisoft. Dopo una serie di denunce su Twitter, il famoso quotidiano d'oltralpe Libération ha pubblicato un dettagliato report sulle condizioni di lavoro all'interno degli uffici del colosso di Montreuil, a quanto sembra caratterizzate da molestie, sessismo, abusi di vario genere. E il clima pesante sembrava non essere confinato al solo posto di lavoro.

Kathryn Johnston, Senior account executive di Kairos Media, con un tweet ha accusato di stupro Adrien Gbinigie, Brand marketing manager della compagnia francese; Ashraf Ismail, creative director di Assassin's Creed Valhalla, ha abbandonato il progetto per "risistemare la sua vita", dopo la pubblicazione sui social delle sue conversazioni con una ragazza con cui Ismail aveva avuto una relazione extraconiugale, e che solo dopo molto tempo ha appreso che l'uomo era sposato.

In seguito a investigazioni condotte internamente all'azienda, l'uragano targato Ubisoft ha spazzato via dalla compagnia alcuni importanti manager, fra cui Serge Hascoet (Creative director), Yannis Mallat (a capo della divisione canadese dell'azienda), Cécile Cornet (responsabile delle Risorse Umane, e quindi una delle figure preposte a vigilare sull'ambiente lavorativo) e, lo scorso 3 agosto, anche Tommy François (Vicepresidente dei servizi editoriali e creativi). Yves Guillemot, attuale CEO e co-fondatore di Ubisoft, ha promesso grandi cambiamenti nelle politiche aziendali.

Processi via social media

Molti dei casi di cui abbiamo parlato sono accomunati da un elemento significativo: la loro nascita sui social media, che consentono alla voce del singolo un'amplificazione senza precedenti nella storia umana. Questo elemento non è affatto secondario, anche se siamo ormai abituati a darlo per scontato. L'utilizzo delle piattaforme social per denunciare violenze e molestie riflette, secondo gli osservatori più attenti, una diffusa sfiducia nei confronti del sistema giudiziario.

La durata media di un processo penale in Italia nei suoi tre gradi di giudizio (Tribunale, Corte d'Appello e Corte di Cassazione) è di circa quattro anni e quattro mesi, secondo dati del Ministero della Giustizia aggiornati al dicembre 2019. E c'è da tenere conto dell'enorme costo economico e psicologico che la denuncia comporta per le vittime, per le quali non è semplice rievocare il dolore dell'abuso subito e fronteggiare il proprio carnefice nelle aule dei tribunali.

La situazione non è migliore in altri Paesi occidentali, ed è proprio per questo che movimenti come #MeToo hanno assunto una forza così dirompente. Come lucidamente scrisse Atwood nel suo commento verso il fenomeno del 2017, "#MeToo è sintomo di un sistema legale che si è inceppato. Troppo spesso, in passato, le denunce delle donne e delle altre vittime di abusi a sfondo sessuale non hanno ricevuto la giusta attenzione presso le istituzioni, quindi si è trovato un nuovo strumento: Internet".

Senza voler mettere in dubbio la credibilità delle donne che hanno denunciato gli abusi via social network, la scrittrice ha quindi avvertito contro i pericoli che possono derivare a chiunque, uomo e donna, non venga sottoposto a giusto processo a seguito di accuse nei suoi confronti. La giustizia sommaria via social non può sostituire il diritto applicato nei tribunali - creati proprio per assicurare che l'accusato non venga lasciato in preda alla folla inferocita - ma simili movimenti possono senz'altro dare l'idea di quanto sia diffuso il fenomeno delle molestie sessuali nel nostro (apparentemente) civile mondo occidentale.

Le voci delle vittime di abusi all'interno dell'industria videoludica registrate negli ultimi anni dai social media e dai tribunali hanno spinto molte aziende a rivedere le proprie policy sul posto di lavoro, attuando maggiori controlli e adottando provvedimenti nei confronti di chi contribuisce a creare un ambiente tossico e invivibile per impiegati e impiegate. La speranza è che vi sia sempre più sensibilità e attenzione, da parte delle compagnie, verso questioni come la parità di genere e la lotta alle violenze e molestie a sfondo sessuale. Qual è la vostra posizione su questi delicatissimi temi? Vi aspettiamo per discuterne insieme nei commenti.