PlayStation Classic: 6 giochi meno famosi ma storicamente importanti

Oltre alle grandi glorie del passato, nella line up della mini console non mancano titoli meno famosi che hanno segnato un passo in avanti per il gaming...

PlayStation Classic: 6 giochi meno famosi ma storicamente importanti
Articolo a cura di

PlayStation Classic, la replica in scala ridotta della prima iconica console di Sony, è finalmente in dirittura d'arrivo per la gioia di molti. Ad inizio settimana vi abbiamo parlato di come questa sia una perfetta riproduzione dell'originale, sottolineando però qualche evidente mancanza sul versante software. Sebbene includa giganti del calibro di Metal Gear Solid, Final Fantasy VII e Resident Evil, risulta difficile non pensare ad assenti illustri come Soul Reaver, Gran Turismo e Silent Hill. Eppure, guardando con maggior attenzione ai titoli disponibili, è possibile scoprire (o riscoprire) alcune storie degne di nota, legate a progetti che in un modo o nell'altro hanno contribuito ad accrescere l'appeal della piattaforma stessa.
Pur facendo parte dell'elenco, in questa disamina non ci sarà spazio per i "pesi massimi", anche perché crediamo non abbiano bisogno di presentazioni. In soldoni, più che focalizzarci su come Resident Evil abbia ridefinito il survival horror, preferiamo raccontarvi di Tom Clancy's Rainbow Six, seminale per gli sparatutto tattici, o della rara ostinazione che ha concesso la nascita di Syphon Filter. La DeLorean dei ricordi è su di giri e noi siamo pronti a partire: la destinazione è il 1995.

Battle Arena Toshinden

Quasi in concomitanza con "(What's the Story) Morning Glory?" degli Oasis, la PlayStation approdava sul suolo europeo assieme ai classici giochi di lancio. A tal proposito, due di questi li abbiamo inseriti nella nostra lista, perché hanno avuto un ruolo cruciale nel fornirle supporto. Iniziamo subito con Battle Arena Toshinden, un picchiaduro tridimensionale basato sull'utilizzo delle armi. Inizialmente promosso dal colosso giapponese come un "Saturn killer", il titolo di Tamsoft è in seguito uscito sulla console di SEGA in versione migliorata.

Curiosità a parte, è stato il primo ad aver introdotto il "sidestep", anticipando - anche se non di molto - il leggendario Soul Edge.
Chiamati a scontrarsi nell'arena che ha dato il nome al gioco stesso, i partecipanti erano animati dai motivi più disparati, tra la sete di gloria e la ricerca dei propri cari. Sconfiggendo Gaia e il boss segreto Sho, il guerriero selezionato imparava dei nuovi e poderosi attacchi speciali, attivabili tramite una specifica combinazione di tasti. Mettendo da parte la trama ed i contenuti segreti, gli otto lottatori del roster erano dei veri e propri modelli poligonali, capaci di muoversi a piacimento in scenari 3D. Era quindi possibile schivare i colpi dell'avversario spostandosi alla sua destra o viceversa, magari sfruttando il fianco scoperto per contrattaccare. Per merito di un gameplay a tratti rivoluzionario, Toshinden si è guadagnato le lodi della critica, riscuotendo un discreto successo a livello internazionale. Certo, come ben sappiamo, Tekken e SoulCalibur gli avrebbero presto dato del filo da torcere, ma questa è un'altra storia.

Jumping Flash!

Titolo di lancio di PlayStation e fiero ospite della versione "Classic", Jumping Flash! è un particolarissimo platform in prima persona. Sviluppato dai team di Exact e Ultra, è stato annunciato all'inizio del ‘94 sotto il nome provvisorio di "Spring Man", dimostrando ciò che si sarebbe potuto realizzare sulla console di Sony.

Nello specifico, Exact ne ha curato il gameplay ed il motore grafico - lo stesso di Geograph Seal - mentre Ultra si è occupata della storia e dei filmati. Ha il grande merito di essere stato il primo del suo genere a sfruttare il "vero" 3D, guadagnandosi un posto nel Guinness dei primati.
Atterrando sul Crater Planet, il giocatore si calava nei panni di Robbit, un coraggioso coniglio robot. Il protagonista doveva sventare il piano malvagio del folle astrofisico Baron Aloha, facendosi largo attraverso diciotto livelli principali. Tra nemici agguerriti, boss fight e stage segreti, bisognava padroneggiarne il gameplay, i cui cardini si fondavano sull'attenzione ai salti. Robbit poteva infatti compiere fino a tre balzi di seguito, raggiungendo altezze da capogiro. Al contrario dei cugini in due dimensioni, Jumping Flash! permetteva di direzionare la telecamera a piacimento - anche verso il basso - consentendo di gestire al meglio l'atterraggio sulle piattaforme. Come in un vero sparatutto in prima persona, l'eroico protagonista trovava diverse armi per contrastare gli opponenti, nonché una serie di potenziamenti ad hoc. La natura ibrida del sistema di gioco e la colonna sonora di Takeo Miratsu, sono valse al platform le lodi della stampa o di chi lo considera il padre spirituale di Mirror's Edge.

Destruction Derby

Uscito poche settimane dopo i succitati, il Destruction Derby di Reflections - quelli che poi avrebbero creato Driver - è un titolo basato sul demolition derby, il noto spettacolo motoristico. Dopo aver iniziato a svilupparlo sul finire del ‘94, il team britannico lo ha presentato all'E3 dell'anno successivo, riscuotendo numerosi apprezzamenti per il lavoro svolto.

Ne stiamo parlando perché lo studio ha imbastito una prima simulazione fisica dei danni, dando per altro inizio a un intero filone di giochi. Grazie alle ridotte dimensioni dei tracciati, Destruction Derby riusciva a gestire un discreto numero di incidenti simultanei, inscenando momenti adrenalinici e di grande effetto scenico. Oltre che a mutarne l'aspetto esteriore, le collisioni andavano a inficiare sulle prestazioni dei veicoli, anche a seconda del punto di impatto: ad esempio, i danni frontali compromettevano il funzionamento del radiatore, provocando un'avaria del motore ed il conseguente arresto del mezzo.
La buona riuscita della produzione era dovuta all'ottimo equilibrio tra realismo e giocabilità, ottenuto grazie ad alcune semplificazioni visive sugli oggetti a distanza. Tali accorgimenti hanno permesso all'engine grafico di gestire fino a venti auto su schermo, cosa che nessun altro racing game dell'epoca era riuscito a fare (oltre a Daytona USA). La modalità "The Bowl", che imponeva di sfasciare la propria macchina contro quelle altrui, è ancora impressa nelle nostre menti, rappresentando forse il pinnacolo dell'offerta. Sebbene un sistema di danni in tempo reale non sia più tanto eclatante, pensare che nel ‘95 ci fosse un gioco del genere fa ancora spavento.

Oddworld: Abe's Oddysee

Pur non vantando la medesima risonanza mediatica di Metal Gear Solid o Crash Bandicoot, Oddworld: Abe's Oddysee è una leggenda immortale. Sviluppato da Oddworld Inhabitants e pubblicato da GT Interactive, ha fatto il suo debutto nel ‘97, marchiandosi a fuoco nei cuori dei giocatori. Ha mosso i primi passi nel gennaio del '95, nome in codice "Soul Storm", apparendo all'E3 per ben due volte. Confermandosi come uno degli investimenti più importanti di GT, ha fatto incetta di premi e riconoscimenti, cosa che - credeteci - non è avvenuta per caso. La filosofia alla base della sua creazione è già di per sé un motivo per amarlo, nascendo dal bisogno di "far sentire meglio le persone piuttosto che di farle vincere". Nonostante avesse un comparto grafico delizioso, dalle sequenze filmate fino alle splendide animazioni, a risaltare maggiormente sono stati la visione artistica e la storia che raccontava.

Il Mudkon Abe, protagonista delle vicende narrate, è un impiegato modello del Mattatoio Ernia, un gigantesco stabilimento dedito alla "produzione di snack". Tali leccornie però vengono realizzate con la carne dei prigionieri reclusi, ultimi membri di razze in via d'estinzione. Lavorando in prossimità degli uffici della direzione, Abe scopre il malvagio piano di Molluck, intenzionato a fare mattanza di Mudkon per ricavarne un nuovo snack. Spaventato a morte, il nostro eroe intraprende un'odissea per tentare di strappare il suo popolo al massacro, superando insidie d'ogni genere. Salvando almeno metà dei prigionieri è possibile accedere al primo dei due finali, il quale vede Abe elevarsi ad eroe dei Mudkon. In caso contrario, la sua razza gli volterà le spalle nel momento del bisogno, condannandolo ad una sicura dipartita. A fronte di un sistema di salvataggi non proprio idilliaco, Abe's Oddysee è un platform 2D come pochi altri, tant'è che Just Add Water ha deciso di realizzarne un remake in HD: New ‘n' Tasty!

Syphon Filter

A differenza di Oddworld, la cui realizzazione è filata liscia come l'olio, Syphon Filter ha incontrato numerose difficoltà lungo il suo cammino. Secondo figlio di Eidetic - che in seguito alla ben nota acquisizione sarebbe diventata Sony Bend - lo sparatutto in terza persona ha dato i natali ad un iconico franchise. Sebbene l'avventura di Gabriel Logan goda di un'estesa fama, forse in pochi ne conoscono i retroscena dello sviluppo: rischiando più volte la cancellazione, vuoi per l'inesperienza dei suoi genitori, vuoi per la mancanza di fonti d'ispirazione, Syphon Filter ha infine prevalso anche per merito di John Garvin.

Il Creative Director responsabile dell'odierno Days Gone si è ritrovato al timone di un team che - come lui stesso ha ammesso - non aveva alcuna esperienza in merito a spy story e shooter realistici. Per farsi un'idea, basti pensare ai primi prototipi del plot, che parlavano di scienziati rapiti e di improbabili macchine del tempo.
Inoltre, a dirla tutta, Eidetic non aveva fatto gridare al miracolo con il precedente Bubsy 3D, da molti considerato come uno dei giochi peggiori di sempre. Si fa proprio fatica a credere che da tali premesse sia nata un'opera come Syphon Filter. Forte di una trama appassionante e ritmata, offriva una discreta varietà ludica, con sezioni stealth, sparatorie caciarone ed enigmi da risolvere.
Tra le strade di Washington e le basi in Kazakhistan, Logan doveva farsi largo tra i nemici fino a sventare il piano di Erich Rhoemer, ponendo fine alla minaccia biologica da cui è tratto il nome del gioco. In definitiva, pur sbirciando a più riprese sui "quadernini" di Metal Gear Solid e GoldenEye 007, ha dimostrato di possedere un'identità tutta sua, sfoggiando un'intelligenza artificiale degna di nota: i nemici reagivano all'uccisione dei propri compagni o si nascondevano dietro agli alberi per sorprendere il nostro eroe. Se a ciò aggiungiamo una colonna sonora di tutto rispetto ed un gran fattore di rigiocabilità, è ancor più difficile credere che il titolo sia figlio di genitori alle prime armi.

Tom Clancy's Rainbow Six

Ultimo titolo (ma non per importanza) della nostra disamina è Tom Clancy's Rainbow Six. Con l'odierno Siege il brand di Ubisoft è forse entrato in una nuova fase della vita, perdendo parte di quella profondità che l'ha contraddistinto sin dagli anni '90. Del resto, il capostipite della serie ha fatto la fortuna degli sparatutto tattici, conducendone le meccaniche verso nuovi livelli di realismo. Concepita per mettere il giocatore al comando di una squadra di specialisti - con tutte le responsabilità annesse - l'opera di Red Storm si ispirava proprio ad un libro del suo fondatore: il Rainbow Six del compianto Tom Clancy.

Pur differendo dal romanzo per diversi elementi della trama, la controparte videoludica ne manteneva inalterata la filosofia, basandosi - fondamentalmente - sulla pianificazione delle operazioni.
Prima di fare irruzione nelle basi nemiche, bisognava decidere quali specialisti inviare, prestando grande attenzione alla scelta dell'equipaggiamento. Nel corso della missione vera e propria, si poteva controllare attivamente una sola unità, monitorando però i segni vitali della squadra. I sedici livelli disponibili richiedevano nervi d'acciaio e perizia tattica, imprescindibili per sgominare un gruppo di folli intenzionato a sterminare l'umanità. Le partite ben programmate potevano durare anche pochi minuti ma, in caso contrario, ci si sarebbe dovuti abituare ad una dieta ferrea... a base di pane e game over. I membri della Rainbow infatti potevano perire in una frazione di secondo, anche a causa di un livello di sfida tutt'altro che permissivo. La sensazione di realismo inoltre era acuita da alcune finezze degne di nota, dalla sonorizzazione delle armi fino alle pareti bucate dai proiettili, costituendo la punta di diamante della produzione.

PlayStation Classic Inutile negarlo: chi passerà le fredde nottate di dicembre con PlayStation Classic lo farà con Metal Gear Solid o Resident Evil, accoppando Liquid Snake (forse?) o “pensionando” il Tyrant con annessi i laboratori dell’Umbrella. Cononostante, i pionieri videoludici elencati in questo articolo meriterebbero almeno una fugace prova, anche solo per comprendere i traguardi che raggiunsero vent’anni fa. Tra storie di resilienza, innovazioni tecniche ed immaginari potenti, questi vecchi dinosauri hanno contribuito a segnare un’era di stravolgimenti profondi, senza i quali - probabilmente - non saremmo mai giunti alle meraviglie odierne.