Videogiochi: Shit or Goty

Se non è un capolavoro assoluto, allora è orribile. Sembrano non esistere mezze misure quando si tratta di valutare un prodotto d'intrattenimento...

Videogiochi: Shit or Goty
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"Perché anche se non fosse amore, non per questo è da buttare...
Com'è logico che sia, com'è logico che sia
"
I Pariolini di 18 Anni - I Cani

Se non è un capolavoro, allora è un gioco ingiustificabile. Uno di quelli da lasciare ad invecchiare sullo scaffale, finché non si trova a qualche euro nel cestone delle offerte.
Sembra che sia questa la filosofia con cui molti utenti ormai si confrontano con il mercato: un approccio fin troppo schematizzato, che tende a catalogare i videogame in due sole categorie: da una parte le luminose pietre miliari destinate a gloria eterna, e dall'altra maleodoranti pezzi di concime digitale. Ieri scherzavo proprio su questa tendenza, sul mio profilo Facebook, recuperando la celebre linea tracciata da Kitty Farmer nel meraviglioso Donnie Darko, ma sostituendo gli estremi Fear & Love con dei più appropriati "Shit & Goty".
Ne è nata, oltre alla divertita immagine di copertina realizzata da Gianluca Musso, anche una discussione interessante, in cui si è cercato come spesso di analizzare il ruolo della stampa di settore e le abitudini dei lettori, evidenziando alcune tendenze che molti ritengono endemiche e preoccupanti. Ho deciso di mettere un paio di considerazioni nero su bianco, con un tono squisitamente personale, cercando di spiegare la mia prospettiva sulla questione.

Quarto Potere

Sono in molti a sostenere che una parte consistente della colpa di questa situazione sia della stampa specializzata, che ha appiattito le valutazioni riducendo drasticamente lo spettro di valori con cui valuta i titoli più in vista. "Non si scende mai sotto l'otto", in pratica, perché tutti i voti inferiori sono implicitamente considerati una bocciatura, sia dal pubblico che dai redattori.
Prima di proseguire mi spiace anzitutto constatare che, molto spesso, anche i lettori più virtuosi riducano tutto ad una questione esclusivamente numerica. Il voto, è importante ribadirlo, non è la recensione: è una chiosa, un suggello, un'indicazione di massima che accompagna un'analisi estesa e circostanziata. La reazione, di fronte ad un voto apposto alla fine di un articolo, non dovrebbe mai essere banalizzata con il classico "ha preso 8", ma trasformata in un: "ha preso 8 perché....". Spendiamo ogni volta migliaia di caratteri per spiegare le nostre ragioni, tracciare paralleli, rapportare un titolo con il panorama attuale e con le qualità dei suoi predecessori. Molto spesso è desolante accorgersi che tanto di questo impegno si perde integralmente, che le recensioni considerate "più equilibrate" sono quelle in linea con la media internazionale; che ancora siamo rimasti ancorati al mito dell'oggettività ad ogni costo: di un'analisi fatta, cioè, attraverso elementi squisitamente tecnici, dalla grafica alla comodità del sistema di controllo, dal numero di subquest alla quantità di ore di gioco.

Nella mia visione utopistica, i lettori dovrebbero arrivare a capire che una recensione (o meglio: una bella recensione) è l'incontro fra due prospettive, due spinte: una che si muove in direzione dell'oggettività, che analizza la tecnica, l'originalità delle soluzioni di game design, la quantità di contenuti; e l'altra che è invece espressione della dimensione intima e soggettiva del redattore, che dovrebbe raccontare in che modo il titolo ha incontrato la sua sensibilità e il suo personale orizzonte culturale. Accettato questo assunto -ovvero che una recensione sia un testo non solo valutativo, ma anche interpretativo- si potrebbe quindi contestualizzarla con quella che è la storia personale di ogni "firma", e smettere di considerarla una verità assoluta e incontrovertibile. Ma insomma, così vanno le cose.
Tornando però al discorso iniziale, quello dell'appiattimento e della conseguente perdita di valore di una certa fascia di valutazioni, mi sono chiesto quanto i riscontri siano allineati con la percezione del pubblico. Avrete capito che non amo utilizzare Metacritic come uno strumento per valutare l'effettiva qualità di un prodotto, ma in certi casi il suo database può essere utile per qualche rilievo statistico. Andando a vedere la media dei voti di tutte le recensioni pubblicate da Everyeye.it, si ottiene un valore di 7.3. Che poi non è dissimile a quello delle altre testate nostrane e internazionali. Ci sono siti che scendono poco sotto il 7 (Gamespot ha 6.8) e altri, pur considerati rigorosi e persino "cattivelli", che invece si attestano attorno al 7.2 (Polygon).
Non mi sembra una situazione improponibile. Significa che per ogni Breath of the Wild c'è pure un Homefront: The Revolution, e tutto sommato le cose si bilanciano. Solo che nella memoria dei lettori (e forse proprio perché non si tratta di un titolo così brillante) Homefront e i suoi sfortunati colleghi non vengono mai tirati in ballo quando si tratta di pensare ad un Tripla A che la stampa non ha celebrato.

Quando ricevo un feedback che insiste sull'idea che la stampa (soprattutto italiana) abbia le maniche larghe, in ogni caso, vado subito a rivedere questo valore medio e, in qualche modo, mi tranquillizzo. Qualcuno potrebbe dire che il valore medio dovrebbe essere più vicino a 6, ma io non credo che sia quella, la condizione naturale. Perdonate la banalità di questo artificio retorico, ma non era così neppure al liceo. Il 6 è una sufficienza risicata, di cui non accontentarsi, e in questo settore (così com'era nella mia 5°G) tutti aspirano a qualcosa di più. Una media del 7, per altro, significa che per ogni 8.5 c'è pure un'insufficienza piena. Che, fidatevi, non arriva dalla scena indie (come sempre ipertrofico e sconfinato, il panorama dello sviluppo indipendente ci impone anzi di fare un'attenta selezione di quei prodotti che riteniamo più meritevoli).
Ripeto: non mi sembra così difficile accettare che in fin dei conti sia proprio il 7 quella "dignitosa medietà" che ci si aspetta da una produzione buona, onesta, eppure senza guizzi. Il problema, semmai, è che a non avere valore sono tutti i piccoli decimali che portano diritti fino all'8. Scusate se vi riporto ancora una volta tra i banchi di scuola, ma quando tornavo a casa con un gustoso "otto meno" mi sentivo pure di festeggiare sorseggiando una Tassoni, perché potevo vantare performance più che solide. E invece, misteriosamente, il "nostro" 7.8 è diventato l'anticamera dell'inferno.
Io non credo che quest'idea sia pienamente imputabile alla stampa e all'utilizzo che ha fatto delle valutazioni numeriche. Mi sembra, invece, un'altra infelice declinazione del "chiapparello" (dalle mie parti si dice così, accettate questo briciolo di campanilismo) dei "noveeuroenovantanove". Che, insomma, sono dieci, ma non se ne accorge nessuno. E così quando dai 7.8 a Until Dawn o a Ratchet & Clank, in buona sostanza sei perfido e spietato. O meglio, tornando al discorso di poco sopra, quello relativo alla supposta ("che in quanto supposta...", diceva Caparezza) oggettività delle recensioni: "non ci hai capito un cazzo".

Tranchant

Mi pare in ogni caso che tutta la questione dei voti e del loro valore sia molto contingente, nell'economia del discorso originale, focalizzato invece sulla tendenza ad estremizzare l'opinione che si ha di un prodotto: trasformando tutto, appunto, in "Shit or GOTY".
Al di là di valutazioni e media Metacritic, si assiste regolarmente ad un fenomeno per il quale i titoli che stiamo ardentemente aspettando diventano automaticamente capolavori in grado di delineare nuovi standard per il genere d'appartenenza, e quelli che invece abbiamo deciso di lasciare sugli scaffali sono delle ciofeche inguardabili, senza meriti né identità. Proprio in questo periodo di grandi uscite la tendenza mi è sembrata più evidente del solito: cosicché da una parte due frange della community sono entrate in conflitto per eleggere il loro "Gioco della Vita" (Zelda vs Horizon), dall'altra il discreto Mass Effect: Andromeda si è trasformato nell'incarnazione di ogni male (anche se, per dire, la versione PC ha una media dell'otto meno, e via di Tassoni).

Credo che alcuni dei fattori che hanno portato a questa situazione siano legati alle abitudini di un mercato che non posso che definire ipertrofico. L'arrivo di nuovi giochi, nei negozi digitali e non, procede a ritmi decisamente forsennati, costringendogli utenti a scegliere in maniera sempre più perentoria. Sembra quasi che, piuttosto che accettare una scelta dolorosa, i giocatori preferiscano costruirsi un "impianto critico" che gli permetta di non avere rimpianti. E allora tutto quello che abbiamo scelto diventa imprescindibile, e tutto quello che non potremo scegliere (fosse pure per ragioni squisitamente economiche) diventa d'altra parte imperdonabile.
In un mercato in cui il costo medio per accedere ad un prodotto è ancora piuttosto alto, questa tendenza si fa più avvertibile e più "feroce"; ma anche in altri ambiti dell'entertainment capita di dover scegliere, se non altro per questioni di tempo. Quindi, esemplificando, La La Land si trasforma nel nuovo messia del cinema contemporaneo, e dall'altra parte il più che onesto Iron Fist viene letteralmente massacrato (per le coreografie dei combattimenti).
Forse una parte del problema, mi viene da pensare, può dipendere dalla sparizione integrale del concetto di "canone", nuclearizzato in questi tempi post-moderni. L'accelerazione dei modelli produttivi e la condivisione estesa, immediata e democratica del web hanno di fatto precluso la possibilità che esista un "corpus" di opere universale e condiviso, con cui tutti devono in un modo o nell'altro confrontarsi. L'assenza di un orizzonte culturale comune porta alla compresenza di miriadi di orizzonti culturali, sempre più personali, individualizzati: finché non nasce la pretesa che il proprio punto di vista sia l'unico punto di vista giustificabile. Magari soltanto perché è diventato condivisibile.
La questione, in un certo senso, è soprattutto culturale. E magari ci si mette di mezzo anche il mito di un progresso inarrestabile, di un avanzamento tecnico e creativo continuo e irrefrenabile, senza soste né assestamenti. La sciagurata ambizione, avvertibile soprattutto in ambito tecnologico, che ogni nuovo prodotto debba essere migliore di tutti quelli che l'hanno preceduto (o che -altrimenti- non abbia valore).

Non voglio negare che una parte della responsabilità possa averla anche la stampa, spesso e volentieri incline a lasciarsi intrappolare nei meccanismi di quello che viene definito "media hype". Al di là dei toni utilizzati nelle anteprime (non sempre esaltati, ed anzi in molti casi di cauto ottimismo o di altrettanto provvisorio disappunto), è innegabile che certi prodotti abbiano una evidente sovraesposizione mediatica, che può innescare reazioni esagerate. Ma sono anche convinto che i lettori abbiano la capacità di distinguere, all'interno dei siti di informazione, quello che è critica da quello che non lo è.
Leggere - o meglio "voler leggere", e "saper leggere" - non è soltanto un sistema per disinnescare i problemi legati alla moltiplicazione dei contenuti relativi ad un prodotto, ma è il punto di partenza per superare il problema di base, per sfuggire alla logica degli estremismi. "Saper leggere" significa rispettare un'opinione, e confrontarla con la propria, e con quella di altri giocatori e redattori: per costruirsi -se non un canone- almeno una "ragnatela di riferimenti", un piccolo cumulo di punti di vista. Una manciata di "inquadrature", indispensabili per poter poi interpretare un videogioco, un film, un fatto di cronaca o una scelta politica. L'errore spaventoso, nei tempi del Web e dei Social Network, è reagire alla moltiplicazione dei punti di vista chiudendosi a riccio su quello di una singola persona, di una singola testata, di una specifica community. Accettare la diversità, la varietà di opinioni, di gusti, di approcci, è il primo passo per capire quanto possa essere preziosa.