Storia dei giochi horror: dalle origini a Resident Evil, P.T. e Jumpscare

Dalle sue origini, fino alle moderne incarnazioni del genere, ripercorriamo la storia degli horror nei videogiochi, l'evoluzione della paura pad alla mano.

Storia dei giochi horror
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Come tutti i generi videoludici, il survival horror non è una categoria pura e immutabile. È, semmai, un'etichetta d'uso, comoda per definire rapidamente alcune caratteristiche di un videogioco in differenti contesti. C'è, in primo luogo, l'uscita di un titolo molto apprezzato, che inizia a generare un certo numero di "cloni". Come scriveva il ricercatore Dominic Arsenault in un suo famoso articolo sul concetto di genere videoludico, questo termine non definisce una copia spudorata dell'originale, ma un prodotto che ne condivide molte caratteristiche. In tal senso, giochi come Heretic, Quake e Duke Nukem sono definibili come dei "cloni di Doom". E per diverso tempo sono stati effettivamente chiamati così.

Come mostra l'appena citato articolo di Arsenault, bisogna attendere almeno il 1998 per assistere al predominio della definizione di "first person shooter" su quella di "clone di Doom". Un aspetto interessante di tutta la vicenda è che le etichette di genere sono retroattive: una volta definite, finiscono per essere applicate anche a videogiochi antecedenti al prodotto che ha dato vita ai "cloni". Seguendo il nostro esempio, oggi nessuno si stupisce nel trovare dei videogiochi usciti prima di Doom che vengono classificati come "first person shooter".

Ma vediamo lo specifico caso del genere che vogliamo considerare adesso. La dicitura "survival horror" fa la sua comparsa nel 1996, con il primo episodio di Resident Evil in Giappone, sia nella promozione del gioco sia durante i caricamenti. Come intuibile, però, la storia degli orrori pad alla mano comincia ben prima di Resident Evil, e l'etichetta di genere è stata successivamente applicata a numerosi videogiochi che hanno preceduto i viaggi del brivido a marchio Capcom.

Alle origini del survival horror

Definire in senso assoluto quale sia il primo survival horror della storia non è semplice. Anzi, è quasi impossibile, proprio per l'oscillazione del concetto stesso di genere, e non solo. Bernard Perron, l'autore di The World of Scary Video Games (un lungo saggio interamente dedicato ai videogiochi horror) segnala anche altri due problemi, quando si guarda al passato di questo genere. Il primo è quello di leggere a posteriori l'evoluzione del medium videoludico, immaginando di tracciare un percorso che rischia di essere più negli occhi dell'osservatore che nella realtà. Il secondo problema, invece, riguarda la soggettività dei ricordi.

Molti di quei prodotti venivano giocati o visti da bambini ancora piccoli. Ed è possibilissimo che la memoria e le emozioni tirino dei brutti scherzi, quando si prova a categorizzare quei videogiochi. Ad esempio, Granny's Garden (4Mation, 1983) era un prodotto educativo, di avventura, in cui era presente una strega che molte persone ricordano con terrore. Ma tutto ciò non è sufficiente a farne un survival horror, ovviamente, per quanto diverse persone potrebbero essere tentate di categorizzarlo così, basandosi sui loro ricordi.

Tralasciando spaventi infantili e memorie emotive, comunque, alcuni dei nomi ricorrenti come candidati per il posto di "primo survival horror" sono Hunt the Wumpus (Gregory Yob, 1972), Mystery House (On-Line Systems, 1980), Haunted House (Atari 1981) e 3D Monster Maze (Malcom Evans, 1981).
È difficile, parlando di titoli come questi, rintracciare delle specifiche caratteristiche di genere. Si osserva, al più, la presenza di mostri e soprattutto di quello che diventerà effettivamente un elemento ricorrente nell'immaginario horror: la vecchia magione infestata.

Questo costituisce il primo di una lunga serie di legami del genere con la tradizione del romanzo gotico, ed è anche il modo per introdurre una componente di "angoscia architettonica": le case che appaiono in molti survival horror sono al tempo stesso simili e differenti dalle abitazioni reali, e questo genera una certa tensione.

Le stanze si moltiplicano, non hanno più la loro funzione originaria, o appaiono in qualche modo "corrotte", per cui viene trasmessa l'idea di un ambiente familiare ma contaminato, di cui avere paura.

Queste antiche magioni sono poi spesso legate all'oscurità, in termini simbolici e anche come meccaniche di gioco. A proposito del primo punto, ciò si lega alla visione celata dei racconti gotici: la scarsità di luce corrisponde a una mancanza di chiarezza sugli eventi in corso, che nascondono sempre un inquietante mistero che deve essere riportato alla luce. Al tempo stesso, si preferisce in molti casi evocare l'elemento orrorifico, invece che mostrarlo direttamente, e anche questo è facilitato dall'oscurità.

In inglese la distinzione tra i termini obscurity e darkness rende ancor meglio il tutto, mentre in italiano si perde un po' la differenza. In termini di meccaniche di gioco, si inizia a dover interagire con il buio attraverso l'impiego di oggetti che vadano a illuminare l'ambiente, presentati come risorse da dover gestire e che scandiscono l'andamento dell'esplorazione. Un altro elemento che inizia a vedere un'embrionale manifestazione è la fuga, anch'essa utilizzabile per scandire le tempistiche di movimento e di esplorazione.

Come emergerà sempre di più all'interno del genere, ci sono casi in cui gli avversari non possono essere sconfitti e devono essere evitati a tutti i costi. Ma anche quando è possibile combatterli, spesso viene suggerito di aggirarli per risparmiare proiettili e risorse.

Sweet Home (Capcom, 1989) è un prodotto che inizia a incorporare con maggior chiarezza alcune delle caratteristiche qui presentate e costituisce un importante punto di transito tra il magmatico numero di videogiochi che lo hanno preceduto e Resident Evil, di cui costituirà una delle dichiarate ispirazioni, insieme chiaramente ad Alone in the Dark (Infogrames, 1992). Con Sweet Home si può aggiungere un altro importante tassello dei survival horror: il richiamo all'orrore cosmico di H.P. Lovecraft. Molti racconti di questo scrittore, soprattutto quelli legati al cosiddetto "ciclo di Cthulhu", hanno infatti direttamente e indirettamente ispirato tantissime esperienze di questo tipo. In alcuni casi, appaiono proprio i Grandi Antichi descritti da Lovecraft: entità extra dimensionali, potentissime, a malapena comprensibili per la mente umana. In altre occasioni, invece, vengono inserite creature ispirate a quelle mostruosità cosmiche. Ad ogni modo, questi mostri porteranno con sé la progressiva introduzione di un altro elemento ricorrente: la pazzia come meccanica di gameplay. Di fronte a simili abomini gli esseri umani si sentono annientati e impazziscono progressivamente. Ecco perché i personaggi di diversi horror devono tenere sotto controllo non solo i propri HP, ma anche la sanità mentale.

Biohazard per tutti

Nel 1996 viene pubblicato il primo Resident Evil (o Biohazard, come viene chiamato in Giappone). Questo videogioco costituisce un interessante punto di svolta nella storia del genere, perché raduna al suo interno tre anime differenti: i film di zombie di Romero, Sweet Home e Alone in the Dark.

Le ispirazioni da Sweet Home sono ben ricordate, mentre a proposito di Alone in the Dark rimane qualche dubbio in più su chi, all'interno del team, lo avesse effettivamente giocato. Il legame con Sweet Home si vede nell'idea di portare un gruppo all'interno di una magione isolata e piena di orrori, ma anche nel particolare feeling dato dalla lenta apertura delle porte, che serviva anche per narrativizzare e dare tensione emotiva ai tempi morti di caricamento.

Da Alone in the Dark, invece, viene soprattutto recuperato l'utilizzo delle inquadrature fisse per accrescere la tensione (che, di nuovo, era legato anche a limitazioni tecniche, visto che consentivano l'utilizzo di fondali pre-renderizzati). Charley Reed, in un suo articolo su Resident Evil, presenta le particolari quattro forme di corruzione che stanno alla base dell'esperienza orrorifica di questo videogioco: la corruzione della natura, dell'architettura, dei media e dell'autorità. La prima si spiega facilmente ed è anche la più immediata da identificare: riguarda l'abbondante presenza di zombie e altre creature mutanti all'interno della villa. La seconda si ricollega a quanto detto in precedenza, a proposito della sensazione di angoscia trasmessa dalle sontuose abitazioni virtuali. La magione di Resident Evil è "corrotta" non solo perché vecchia e in disuso ma anche e soprattutto perché è trasformata in qualcosa di innaturale dalla presenza di trappole, stanze segrete ecc. La corruzione dei media riguarda invece la fallibilità dei mezzi di comunicazione più recenti, a cui i personaggi non riescono a ricorrere con efficacia. Tutto ciò su cui possono fare affidamento sono strumenti più "vecchi", come la macchina da scrivere (per i salvataggi) e diari/taccuini (per indizi sul mondo di gioco). L'ultima corruzione, infine, si lega agli intrighi della Umbrella Corporation e al doppiogiochismo di Albert Wesker.

Come intuibile, Resident Evil fa scuola e genera negli anni successivi una progressiva esplosione di esperienze survival horror. Si possono ricordare alcuni titoli che non hanno avuto particolari seguiti, come per esempio Deep Fear (Sega AM7, 1998), tra i primi ad avere una ambientazione oceanica, che sarà poi ripresa da altri "cloni" di Resident Evil, tra cui Carrier (Jaleco, 2000) e Cold Fear (Darkworks, 2005). C'è poi l'avvento di Silent Hill (Konami, 1999), che almeno tematicamente si allontana parecchio dall'orrore proposto in Resident Evil, per raccontare una storia di taglio maggiormente psicologico. Se Resident Evil segue gli zombie di Romero, Silent Hill è accostabile alle produzioni cinematografiche di Cronenberg e Lynch o all'Esorcista di Friedkin.

Al di fuori delle differenze, però, i videogiochi hanno anche diversi punti di contatto, che risultano maggiormente significativi per tracciare l'evoluzione del genere. Sia Resident Evil sia Silent Hill offrono, in primo luogo, uno sguardo giapponese sugli Stati Uniti, essendo ambientati negli USA ma sviluppati da team nipponici.

Entrambi, poi, puntano molto più sul mantenimento di una costante tensione, piuttosto che sul jump scare improvviso (seppur con qualche eccezione, come i famosi cani che fanno irruzione dalla finestra in Resident Evil). I due videogiochi, infine, sono riusciti a sfruttare egregiamente le limitazioni tecniche dell'epoca, trasformando degli elementi di potenziale debolezza in punti forti, come l'apertura delle porte e le inquadrature fisse in Resident Evil e l'onnipresente nebbia di Silent Hill.

Oriente vs occidente: due modi di intendere l'horror

Negli anni successivi, i survival horror prendono grosso modo due strade differenti, legate a due diversi contesti produttivi. In Giappone, mentre Resident Evil e Silent Hill si sviluppano come saghe, appaiono numerosi horror legati a fantasmi vendicativi.

È un immaginario legato in molti casi a figure come Kayako e Sadako, dei film Ju-on e Ringu (The Ring), famose esponenti cinematografiche di una lunga tradizione di onry (spiriti vendicativi) con vesti bianche inzuppate d'acqua, lunghi capelli neri sulla fronte e poteri inspiegabili. Videogiochi come Project Zero (Tecmo, 2001) - chiamato Fatal Frame negli Stati Uniti - attingono fortemente a questo immaginario, con un citazionismo talvolta particolarmente evidente.

Più in generale, inoltre, emergono diversi videogame ambientati in Giappone e con personaggi in larga parte giapponesi. Un esempio è Forbidden Siren (SCE Japan Studio, 2003), in cui i nemici del gioco, gli shibito, sono molto più vicini agli zombie che agli spettri. In linea di massima offrono esperienze in cui i combattimenti sono difficoltosi e non troppo frequenti, dove è spesso preferibile fuggire o nascondersi a causa di inseguitori inarrestabili. In Occidente, invece, l'evoluzione del genere prende un'altra piega. A livello tematico rimane molto forte la presenza di Lovecraft e dei suoi Grandi Antichi, in prodotti come Eternal Darkness: Sanity's Requiem (Silicon Knights 2002) e Call of Cthulhu: Dark Corners of the Earth (Headfirst Production, 2005).

Questo comporta il frequente utilizzo della sanità mentale come parametro, con conseguenti allucinazioni quando risulta troppo basso. In alcuni casi questi stati alterati coincidono con rotture della quarta parete, come quando Eternal Darkness finge di cancellare i file di salvataggio corrotti o di abbassare l'audio del televisore. Al tempo stesso, in occidente, si delinea sempre più un nuovo approccio ai combattimenti: sono sempre più frequenti e, in alcuni casi, inizia a essere difficile separare il genere sparatutto.

Lo stesso Call of Cthulhu: Dark Corners of the Earth, dopo una prima fase esplorativa, si trasforma in un first person shooter. Il che, peraltro, non è molto in linea con la concezione lovecraftiana di entità potentissime e incomprensibili: nel momento in cui è possibile crivellare di colpi i seguaci dei Grandi Antichi, la paura nei loro confronti tende a ridimensionarsi parecchio. Con il passare degli anni, la componente action degli horror si fa sempre più forte e si estende anche a produzioni orientali, incluse quelle della stessa Capcom. Resident Evil 4 (Capcom, 2005), inizialmente pensato per avere un'ambientazione legata a fantasmi e vecchi castelli (qui lo speciale sullo sviluppo di Resident Evil 4 e Devil May Cry), viene ripensato da zero e rappresenta un punto di rottura all'interno della serie.

Vengono abbandonate le inquadrature fisse, il protagonista (Leon Kennedy) è impegnato in frequenti scontri a fuoco e ottiene anche la possibilità di eseguire delle mosse corpo a corpo legate a particolari quick-time event. Il gioco però non rompe del tutto il legame con la tradizione: ci sono per esempio ancora numerose connessioni con il gotico, soprattutto nella parte centrale ambientata nel castello di Salazar.

Con il successivo Resident Evil 5 (Capcom, 2009), però, la separazione è netta. L'ambientazione africana è un chiaro elemento di rottura, ma soprattutto le componenti action e shooting sono ormai preponderanti. Ancor prima dell'uscita del gioco, figure come Jim Sterling e Leigh Alexander pubblicano articoli in cui si interrogano sulla "morte" del survival horror, che sembra essere ormai irriconoscibile.

Al di fuori di qualche produzione giapponese con fantasmi e mostri claudicanti, infatti, le produzioni come Dead Space (EA Redwood Shores, 2008) e i recenti episodi di storiche saghe appaiono sempre più vicini agli sparatutto. È, del resto, un periodo florido per sia per gli shooter "puri" come la serie Halo, sia per le ibridazioni come Mass Effect, che unisce componenti ruolistiche con combattimenti da TPS. Sembrerebbe insomma che anche i survival horror debbano seguire questa strada, almeno a livello delle grandi produzioni ad alto budget. Non sempre, però, simili virate action funzionano. L'Alone in the Dark (Eden Games, 2008) di quegli anni è ricordato come un esempio alquanto infelice, bloccato a metà strada tra la tradizione passata e la necessità di quello che viene percepito come uno "svecchiamento" fatto di velocità, esplosioni e sparatorie. In quegli anni, tuttavia, stava anche per affermarsi un nuovo e imprevisto fenomeno, che avrebbe portato alla ribalta alcuni indie molto più vicini al precedente concetto di survival horror.

Arriva YouTube

Alla sua uscita, Amnesia: The Dark Descent (Frictional Games, 2010) non sembra destinato a grandi successi. È, grosso modo, il seguito spirituale della trilogia composta da Penumbra: Overture (Frictional Games, 2007), Penumbra: Black Plague (Frictional Games, 2008) e Penumbra: Requiem (Frictional Games, 2009). Questi tre videogiochi, realizzati da un team indipendente svedese, sono stati apprezzati da una discreta nicchia di persone, ma non hanno beneficiato di chissà quale diffusione. Quando viene pubblicato Amnesia, però, c'è un fenomeno che è ormai pronto per sbocciare e proliferare: i gameplay su YouTube.

E l'ascesa degli youtuber di gaming è strettamente legata ai titoli horror, soprattutto quelli con una impostazione simile ad Amnesia, in cui si è indifesi davanti alle minacce e sono frequenti i jump scare improvvisi. Questo perché simili esperienze si prestano molto bene per proporre al pubblico delle reaction spettacolarizzate, fatte di grida terrorizzate e salti sulla sedia.

Si crea pertanto un positivo circolo virtuoso, in cui Amnesia contribuisce al successo di numerosi creatori di contenuti e, in cambio, vede un aumento considerevole delle sue vendite. Frictional Games, essendo un piccolo team, non aveva le risorse per produrre un action/horror paragonabile ai "tripla A" presenti in quegli anni sul mercato, ma poteva realizzare un prodotto come Amnesia. E il fatto che anche un'esperienza simile possa suscitare un forte interesse, spinge diversi team a tentare questa strada.

Inizia infatti in quegli anni una sorta di corsa all'oro del survival horror, in cui c'è una grande fame di contenuti paragonabili ad Amnesia, per cui qualsiasi videogioco con quell'impostazione può tentare di ritagliarsi un po' di gloria e vendite. A spiccare maggiormente in questo periodo è la temibile figura di Slender Man.

Fenomeno crossmediale, tipico mito dell'internet e classico protagonista delle creepypasta, questo personaggio ha attirato subito un grandissimo interesse, anche tra i giovanissimi. Slender: The Eight Pages (Mark J. Hadley, 2012), il primo videogioco a lui dedicato, è un progetto semiamatoriale, dal costo ben più basso del già ristretto budget di Amnesia ma capace di raggiungere un vastissimo pubblico anche grazie - nuovamente - ai volti noti di YouTube.

La struttura è semplicissima: bisogna raccogliere otto pagine senza farsi catturare dal mostro, che diventa sempre più aggressivo man mano che l'avventura prosegue. Tornano molti elementi della tradizione dei survival horror, che già si erano nuovamente manifestati con Amnesia, tra cui la fallibilità della tecnologia e la limitatezza della visione. Il videogioco ha un grande successo e genera un numero incredibilmente elevato di "cloni".

Il virtuoso rapporto tra horror e youtuber trova poi un'ulteriore conferma con Five Nights at Freddy's (Scott Cawthon, 2014). Gli animatronics assassini di questo titolo producono un fandom esteso e vivace, ricolmo di contenuti fanmade di ogni genere: canzoni, video sulla lore della serie, machinima, ecc.

Tutto ciò porta a una serie di seguiti nel giro di pochi anni e mostra ulteriormente la sinergia che stava continuando a verificarsi tra l'ecosistema di YouTube e la presenza di simili videogiochi. Il traino alle vendite è forte e coinvolge persino quelle produzioni non survival horror che però a un primo sguardo sembrano tali, come Gone Home (per approfondire, ecco la recensione di Gone Home) e l'italiano Anna (Dreampainters, 2012).

P.T., Doki Doki e oltre

Negli ultimi anni abbiamo assistito a una grande differenziazione dei survival horror, per cui almeno al momento non è facile capire quale sarà il filone prevalente in futuro. I videogiochi da noi citati hanno certamente contribuito a riportare in auge una tipologia di horror che sembrava minoritaria e schiacciata dalle componenti action/shooting. A questo revival del passato ha contribuito anche P.T. (Kojima Productions, 2014), che sarebbe dovuto essere un piccolo "antipasto" in vista di un nuovo Silent Hill sviluppato da Kojima Productions.

Il progetto venne poi annullato ma il breve Playable Teaser ha mostrato la possibilità e l'utilità di recuperare un horror maggiormente atmosferico anche in produzioni ad alto budget, e non solo in piccoli progetti come quelli mostrati in precedenza. Un altro filone che ha continuato a svilupparsi è quello più legato all'orrore tecnologico. Un buon esempio, in questo caso, è certamente Doki Doki Literature Club! (per approfondire ecco la recensione di Doki Doki Literature Club!), con il suo innesto di elementi spaventosi all'interno di una visual novel e la sua rottura della quarta parete.

Doki Doki è la concretizzazione di numerose creepypasta a tema videoludico che si erano già diffuse negli anni precedenti e che nel sottobosco indie avevano iniziato a produrre esperienze come Sonic.exe. YouTube ha mantenuto una rilevanza considerevole all'interno di questo filone, se si considerano anche esperienze come Sad Satan e Petscop, sempre annoverabili tra i "miti" di internet.

Non bisogna neanche dimenticare la progressiva diffusione della virtual reality, che ha ovviamente aperto nuove frontiere per l'horror, proponendo una nuova esperienza immersiva. La stessa serie di Capcom ha visto ulteriori trasformazioni grazie alla possibilità di giocare Resident Evil 7: Biohazard con un visore (ecco la nostra prova di Resident Evil 7 in VR).

È sufficiente pensare al peculiare rapporto che si instaura con le mani del protagonista, in tal senso: mani che vengono costantemente tormentate e maciullate e che hanno un diretto legame con i nostri, di arti. Anche il multiplayer ha visto una sua evoluzione, sebbene lontana dalle sparatorie competitive che erano state ipotizzate come futuro per questi videogiochi.

Videogiochi come Dead by Daylight (Behaviour Interactive, 2016) hanno fatto scuola, in tal senso, proponendo competizioni online in cui ci si divide tra "killer" e "sopravvissuti", ciascuno coi rispettivi obiettivi, visuale di gioco e possibilità di interazione. Dead by Daylight è peraltro anche una sorta di compendio dell'immaginario horror contemporaneo, visto che raccoglie al suo interno personaggi che spaziano da Sadako a Freddy Krueger e dal demogorgone al Nemesis di Resident Evil (qui lo speciale sulla genesi del mostro di Resident Evil 3). E questi sono solo alcuni dei filoni attualmente rintracciabili nel piacevolmente ricco panorama dell'horror videoludico contemporaneo.