The Last of Us Parte 2: quando la violenza è solo parte di una storia

A seguito dello State of Play, in molti hanno protestato contro la violenza del gioco di Naughty Dog, ma in realtà c'è molto di più.

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  • PS4
  • PS4 Pro
  • L'essere umano è violento per natura, e questo lo sappiamo; non è un mistero, non c'è nessuna finzione narrativa dietro, e non c'è nemmeno un'esasperazione drammaturgica. Siamo animali, e in quanto animali siamo istintivi. E nell'istinto, si celano le nostre pulsioni più estreme. La violenza non è facile da classificare, o da individuare. Non si esprime solo con un gesto, ma pure con le parole, con un atteggiamento, con un certo modo di fare. La violenza esiste. E una storia, quando è una buona storia, finisce per tenerla in considerazione. Anzi, spesso finisce addirittura per costruire attorno ai personaggi, alle dinamiche che li uniscono, una gabbia di estremi e di grigiori, in cui tutto è possibile, in cui non c'è un limite alla cattiveria, e in cui non esistono giusto e sbagliato (o almeno, ecco: non esistono così nettamente come vorremmo).

    Tutti i volti della violenza

    In The Last of Us la violenza è sempre stata uno degli elementi più importanti. Ma, attenzione, non è mai stata gratuita. C'è un contesto preciso, in cui viene inserita; e soprattutto, ci sono dei personaggi che hanno vissuto una vita particolare, prima di abbandonarsi - in tutto o in parte - ad essa. Pensiamo a Joel. In The Last of Us, per spiegarci com'è diventato quello che è diventato, ci viene raccontata la sua storia: chi era, dove viveva, che lavoro faceva. Quando sua figlia viene uccisa davanti ai suoi occhi, qualcosa in Joel cambia per sempre. Si spezza. E così sul suo volto, in qualunque momento, si intravede un'ombra violenta, pronta a prendere il sopravvento e a trasformarlo.

    The Last of Us, però, fa anche un'altra cosa. Prova a lavorare per sottrazione, e a ribaltare completamente il piano narrativo. Quando Joel incontra Ellie, e impara a conoscerla e le si affeziona, cambia anche la sua natura violenta; e i gesti estremi che compie diventano un mezzo necessario per non far morire un'altra figlia.

    Nel caso del primo capitolo del videogioco di Naughty Dog, la violenza era un elemento prevedibile e ben inquadrabile, narrativamente giustificato e coerente. In The Last of Us Parte 2, no. Nelle prime immagini che sono state mostrate, Ellie, che è cresciuta e che ha imparato a convivere con la violenza senza mai conoscere davvero la gentilezza, è impulsiva, fisica, affilata. Una corda di violino tesa. Uccide i suoi nemici senza pietà. Corre a perdifiato. Ringhia come un animale.

    Impugna un bastone con estrema facilità. È un'assassina, prima di qualunque altra cosa. E glielo si legge negli occhi, e glielo si sente nella voce.
    Ma la violenza fa parte del personaggio. E ha un senso. Al videogiocatore che la muove, viene data una scelta: o abbracci fino in fondo la natura di Ellie, oppure scappi e giochi diversamente, sfruttando l'ambiente, l'erba alta, e qualunque altra cosa ti permetta di evitare lo scontro. Per alcuni questo non basta. Perché la violenza, in The Last of Us Parte 2, sembra eccessiva, senza via d'uscita, e spesso addirittura ingiustificata. Ma non è così. O meglio: lo è, se vogliamo fermarci qui, alla superficie del problema, e non voler andare oltre.

    Nessun giudizio, nessuna lezione, solo umanità

    In The Last of Us, come in molti altri videogiochi, film o serie tv, e libri e fumetti, la violenza è un estremo perfetto con cui cercare immediatamente un contatto con il pubblico, e creare, in questo modo, un ponte d'empatia. Perché il primo compito di chi racconta una storia è riuscire ad avvicinare il pubblico e a renderlo partecipe, allontanandosi dalla bidimensionalità della carta e dello schermo.

    Un videogioco, per definizione, non è un film e non è nemmeno un libro. Al videogiocatore vengono date diverse possibilità. E ognuna di esse è, a sua volta, limitata. Perché puoi prendere solo un certo numero di decisioni. Oltre non si può andare. La storia è già scritta, e deve essere solo vissuta. C'è il rischio, quindi, di un'eccessiva immedesimazione, e di una quasi overdose, per il videogiocatore, di sensazioni e sentimenti. The Last of Us, però, resta un prodotto di intrattenimento, e un prodotto di intrattenimento non deve insegnare nessuna lezione.

    Può mostrare il mondo nella sua infinita complicatezza, può portare il videogiocatore a vivere le avventure più assurde, e può permettere di essere un eroe, di vincere. Oppure, come in questo caso, di giocare un personaggio messo a dura prova dalla vita, con una storia, un background e un carattere precisi. E la violenza, in tutto questo, è un ingrediente fondamentale.

    In Ellie, proprio per la sua natura, la gentilezza viene amplificata, e basta poco, un gesto o una parola, per notarla. Pensate al primo gameplay trailer di The Last of Us Parte 2. Un bacio, per lei, è una boccata d'ossigeno. E lo è perché per tutta la sua vita è stata abituata a trattenere il fiato in un mare di dolore. Quando balla, è felice. Ritrova la sua ingenuità di adolescente. E questo aspetto, messo a confronto con quello che succede poco dopo - lei che uccide, che assalta, che senza pietà colpisce - spicca magnificamente. E si nota, e fa bene al ritmo dell'esperienza videoludica. Ed è su questo che dovremmo soffermarci.

    Non ha senso insistere nel cercare una parte, nel trovare uno schieramento. La violenza, nelle storie, è il nero più nero; è l'estremo della cartina tornasole che fotografa l'umanità. Un videogioco non punta solo all'osservazione silenziosa di una storia; ma vuole pure che qualcuno, il videogiocatore, la viva. Nel caso di The Last of Us, la violenza è parte integrante della narrazione e della caratterizzazione dei personaggi: ha un motivo e uno scopo precisi.

    Sconvolge, scuote, fa inorridire? Perfetto: significa che la storia, alla fine, ha ottenuto quello che voleva. E il videogiocatore ha provato qualcosa che, probabilmente, non avrebbe mai provato prima. Non pensiamo a giusto e sbagliato; non giudichiamo la violenza decontestualizzandola; pensiamo a cosa una storia, se buona, se ben raccontata, se tridimensionale e credibile, può darci. E The Last of Us ci ha sempre dato tanto.

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