eSport e Videogiochi alle Olimpiadi: perché ha ragione Malagò

"I videogiochi alle Olimpiadi sono una barzelletta", questa l'opinione di Giovanni Malagò (pres. CONI) che ha scatenato numerose polemiche sugli eSport.

eSport e Videogiochi alle Olimpiadi: perché ha ragione Malagò
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"I videogiochi alle olimpiadi sono una barzelletta": questa la dichiarazione di Giovanni Malagò durante la trasmissione Che tempo che fa su Rai Uno. Una dichiarazione che ha scatenato un vero putiferio. Le testate di settore videoludico e i siti specializzati di sport elettronico non hanno affatto gradito lo statement del presidente del CONI, il Comitato Olimpico Italiano, in particolare dopo l'apertura del CIO, il Comitato Olimpico Internazionale, alla possibilità che gli esports possano un giorno diventare prima sport e poi disciplina olimpica. Eppure le parole di Malagò dipingono gran parte della verità dell'attuale stato di vita degli sport elettronici.
Nei titoli sensazionalistici si è perpetrato un attacco mediatico immotivato che merita di essere analizzato minuziosamente. Prima di tutto il contesto. Malagò è ospite di Fabio Fazio in uno dei salotti più seguiti della TV generalista. L'età media del pubblico non è vicina a quella dei videogiocatori, competitivi o meno che siano. Inoltre l'argomento principale della discussione è il calcio e la recente esclusione dell'Italia dai mondiali di Russia 2018 per la mancata qualificazione.

Tra verità e banalizzazioni

L'argomento dei videogiochi alle olimpiadi è gettato in pasto all'audience quasi come una battuta finale per chiudere l'intervista. Chi conosce la trasmissione sa che gli ultimi minuti rappresentano il momento di distensione per congedare l'ospite.  Non fa eccezione Fazio che ironizza sull'ipotetica presenza di Space Invaders ai giochi olimpici. Senza sapere, probabilmente, che Space Invaders è stato il primo esport della storia: nel 1980 fu proprio sul titolo Atari che si giocò il primo torneo competitivo di videogiochi e con più di 10.000 partecipanti.

Space Invaders è stato un titolo storico, un videogioco universalmente conosciuto anche dai profani, alla stessa stregua di Super Mario, il secondo citato nell'intervista. E probabilmente due dei pochi titoli che il pubblico medio di Che tempo che fa conosce.  Non sappiamo se Fabio Fazio conosca o meno Overwatch e League of Legends ma difficilmente possiamo credere che siano l'argomento di discussione principale, né tanto meno secondario, degli spettatori.
La domanda, in ogni caso, è dannatamente generica perché parlare di videogiochi significa includere anche i titoli non competitivi. Che sia Assassin's Creed, Candy Crush, Pac-Man, Donkey Kong o Call of Duty poco importa: tutti e cinque rientrano nella categoria videogiochi. Solo uno, però, è anche un titolo esport. Fazio nella sua domanda al presidente del CONI è tuttavia incolpevole.
Ad aver modificato la realtà è stata la stampa italiana che ha dovuto, più o meno necessariamente, forzare la mano per rendere appetibile la dichiarazione del CIO. Il Comitato Olimpico internazionale presieduto da Thomas Bach è stato sufficientemente specifico su questo punto: nel comunicato rilasciato il 28 ottobre si parla chiaramente di "development of eSports" (riposino in pace i sostenitori della S minuscola) e non di videogiochi generici.

È chiaro che sia stata una mancata occasione per la stampa italiana di iniziare a parlare di sport elettronici, e spiegarli al grande pubblico, anziché continuare a definirli videogiochi.
In questo contesto Malagò ha tuttavia dimostrato di essere tutt'altro che disinformato.
Non è un appassionato, vero, ma ha fatto intuire di conoscere l'argomento: intendo gli esports, non i videogiochi. Nonostante la gaffe sui tornei che un europeo disputa di notte col fuso orario australiano (le competizioni sono organizzate per regioni continentali quindi difficilmente un giocatore professionista italiano si ritrova a giocare con un neozelandese a meno di essere dal vivo), la giustificazione data dal presidente del CONI è ineccepibile: sono seguiti da milioni di appassionati, soprattutto giovani, con un giro d'affari da centinaia di milioni di dollari (un miliardo e mezzo nel 2020) ma prima di tutto sono delle competizioni ed è pertanto necessario regolamentare e normare le competizioni e l'intero settore.
Per il resto, invece, è una vera barzelletta.

Un'ardua selezione

Partiamo dall'ipotesi che gli esport siano scelti come disciplina olimpica. Il primo irrimediabile quesito da porsi riguarda ovviamente: quali titoli scegliere?
Un primo ostacolo è rappresentato dalla natura delle olimpiadi: i Giochi incarnano non solo lo spirito di sportività ma anche quello di pace tra i popoli. Siamo sicuri che Call of Duty o ancor di più Counter- Strike, titoli che simulano situazioni di guerra, siano videogiochi spendibili come discipline olimpiche?

Si potrebbe obiettare la presenza della boxe o della lotta greco-romana: nessuna di queste due però usa le armi. La carabina? Sparare a un piattello non è certo assimilabile a colpire anche solo virtualmente un nemico. È anche una questione di linguaggio: mai sentito Niccolò Campriani, vincitore di quattro medaglie olimpiche nella carabina, o Clemente Russo, due volte vice-campione olimpico nel pugilato, urlare di aver ucciso il proprio avversario.
Spostando l'attenzione su un'altra questione dovremmo chiederci perché scegliere League of Legends e non DOTA 2 o viceversa. In base a quale criterio è scelto un titolo oppure un altro a parità di genere?
Entrambi sono dei MOBA, ovvero dei videogiochi online in cui l'obiettivo è distruggere il nucleo della base nemica. Il primo ha un più alto numero di giocatori al mondo, il secondo un montepremi stagionale che supera i 30 milioni di dollari. Che siano o meno fattori fondamentali per la scelta non è chiaro perché nessuno si è ancora posto il suddetto problema in modo esplicito. Le due case produttrici, rispettivamente Riot Games e Valve, non hanno alcuna intenzione di porselo: ognuna vive serenamente la propria vita aziendale senza preoccuparsi minimamente che il loro titolo possa diventare disciplina olimpica. Non ne hanno bisogno.

Attualmente, poi, viviamo una situazione che nessun altro sport ha: le regole del gioco sono in mano a privati. Se parliamo di calcio, basket, pallavolo, curling o hockey su prato sappiamo bene che le regole di una partita sono stabilite arbitrariamente da un organismo internazionale che si riunisce annualmente (alcune anche con frequenza maggiore) per confrontarsi su eventuali modifiche al regolamento.
Rivedendo la finale del mundial ‘82 vinto in Spagna dall'Italia, i ragazzi di oggi rimarrebbero stupiti dal vedere il portiere Zoff raccogliere con le mani il passaggio di piede del proprio difensore Bergomi: un'azione di gioco che oggi sarebbe punita come irregolare. Spesso ci dimentichiamo che le regole degli sport non sono statiche ma si evolvono, si modificano a seconda delle innovazioni apportate. A noi sembrano statiche perché cambiano in un periodo di tempo molto lungo. Negli esports il cambiamento invece è decisamente più repentino: giocando su internet, gli sviluppatori possono introdurre modifiche e cambiare le regole del gioco anche mensilmente.

La differenza è che a decidere l'introduzione delle novità regolamentari è chi il gioco lo produce. Un po' come se la Nike decidesse che dal 2019 in Serie A non si gioca con il pallone rotondo ma ovale senza che la FIGC possa opporsi.
La nota positiva riguarda invece la questione doping che più di tutte ha attanagliato il presidente Malagò durante l'intervista. Sotto questo profilo la comunità internazionale degli sport elettronici si è mossa con largo anticipo. L'IeSF - la federazione internazionale degli esports, dal 2013 fa ufficialmente parte della WADA, l'agenzia mondiale per l'anti-doping, con cui collabora per informare i videogiocatori e regolamentare il settore sotto questo punto di vista, inserendo nella lista nera degli esports prodotti medici come l'Adderall e il Ritalin. Con loro anche la NADA, l'agenzia tedesca per l'anti-doping, che ricopre un ruolo fondamentale: la Germania è infatti il paese europeo con la maggiore concentrazione di eventi competitivi dedicati al gaming.

I videogiocatori professionisti

Un'ultima questione riguarda la figura che più beneficerebbe del riconoscimento degli esports: il videogiocatore professionista. Regolamentare il settore significa anche dare, a coloro che hanno fatto del videogioco competitivo una professione, la possibilità di essere riconosciuti come sportivi con i diritti (e i doveri) che ne conseguono.

Negli anni sono stati innumerevoli i casi di giocatori impossibilitati a spostarsi in altre nazioni per partecipare ai tornei per problemi di visto. I permessi rilasciati ai vari giocatori sono spesso e volentieri gli stessi che chiederebbe un turista perché nella maggior parte dei paesi non è prevista la figura di e-atleta (perdonando questo obbrobrio linguistico) e nemmeno è assimilabile allo sportivo tradizionale. Più che avere gli esport come disciplina olimpica sarebbe quindi fondamentale e di maggior contributo riconoscere gli esport come disciplina sportiva. Una distinzione di cui vivono anche scacchi e bridge: riconosciuti come sport ma non presenti alle olimpiadi.
L'esternazione di Malagò, nonostante sia condivisibile in un'argomentazione di più ampio respiro come quella appena affrontata, rimane infelice perché ha delegittimato l'attenzione che gli esports meriterebbero. Liquidare l'intera questione come una "barzelletta" senza almeno provare a imbastire un dibattito è una scelta che potrebbe essere definita quantomeno discutibile, soprattutto per il ruolo che Malagò ricopre nello sport italiano. È l'ennesima occasione mancata per fare chiarezza su un fenomeno con cui, volenti o nolenti, dovremo presto confrontarci.

Se il CIO dovesse ammettere gli esports come disciplina sportiva o addirittura olimpica, il CONI non potrà far altro che recepire la direttiva e adeguarsi al cambiamento.
Nell'attesa di affrontare i problemi elencati, Starcraft II farà il suo debutto alle Olimpiadi. Il gioco di strategia in tempo reale targato Blizzard sarà presente all'apertura dei Giochi Olimpici invernali di PyeongChang 2018 in Corea del Sud, la patria degli esports. Una tappa del circuito competitivo dell'Intel Extreme Masters farà da contorno alla rassegna olimpica per mostrare al mondo intero il significato di una competizione esportiva.