A seguito della quarantena forzata che gran parte del pianeta sta affrontando, l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha siglato un accordo con alcune delle più grandi compagnie videoludiche al mondo, riconoscendo il valore dell'intrattenimento digitale come strumento terapeutico per chi si ritrova chiuso in casa. Cosa significa tutto questo? Ci sono delle contraddizioni rispetto al recente passato dell'organizzazione Mondiale della Sanità? E come si manifesta questo compito terapeutico in relazione ai diversi profili psicologici? Lo abbiamo chiesto ad Alessandro Giardina, dottorando in Cyberpsicologia Clinica all'Università di Losanna, e Psicologo Clinico specializzato in adolescenti, giovani e adulti, rete e videogiochi.
Una luce diversa
Come è cambiata la percezione dei videogiochi a seguito della pandemia? La prima cosa da mettere a fuoco è il cambiamento repentino del contesto. Da un punto di vista sociale, nell'arco di una settimana non sono state modificate solo "le regole del gioco", è cambiato il gioco. In questo senso, la virata in termini di percezione non è avvenuta soltanto rispetto ai videogiochi, ma anche per quel che riguarda tutto il mondo digitale - social inclusi. Siamo passati dal virtuale che isola e dissocia, al virtuale come unico o principale luogo "virus-free" di incontro con gli altri. E così vengono alla luce fenomeni in cui persone che mai avrebbero pensato di esporsi in video sul web, finiscono per farlo - con risultati più o meno interessanti.
Non più per raccattare like, ma semplicemente perché esponendoci ci sentiamo più vicini agli altri e parte di una comunità. Che fosse così anche quando pensavamo che il punto fossero i like e il narcisismo? È una domanda da porsi. Certo è che per tutti noi, in questa condizione di isolamento, il virtuale ha assunto un significato molto più affine a quello che ha, in condizioni normali, per un ritirato sociale. Forse alla fine di tutto questo sapremo assumere più facilmente la loro prospettiva, mentre mi sento di escludere che una fetta rilevante di persone estranee al gaming abbia deciso di addentrarcisi a seguito dell'isolamento imposto.
Che ruolo pensi abbiano i videogiochi per le persone in isolamento imposto? Purtroppo non so fornirvi dati o report, e al momento non mi sento di fare affermazioni di valore assoluto. Una cosa che ho notato, però, è che i giovani adulti stanno volgendo lo sguardo indietro ai videogiochi della loro adolescenza, ricercando talvolta le stesse compagnie con cui giocavano all'epoca. E credo che questo processo sia ancora più forte per coloro i quali si ritrovano isolati negli stessi luoghi di quel periodo, come la casa dei propri genitori.
Per fare un esempio personale, io mi sono ritrovato a cercare giochi come The Sims o strategici-gestionali come Age of Empires - per compensare la difficoltà di recuperare online un Empire Earth. Per non parlare delle lunghe sessioni di PES con il mio coinquilino, al posto del consueto sfidante che avevo da ragazzo: mio fratello. E' più facile dare senso a questa "regressione", se si pensa al fatto che la paura di ciò che c'è all'esterno, del nemico comune invisibile e imprevedibile, ci porta ad unirci ai nostri cari per sopravvivere.
E come in ogni momento di forte cambiamento, di quelli che ci segnano socialmente e individualmente, ci ritroviamo a rivivere interiormente frangenti della nostra storia in cui ci abbiamo dovuto trovare delle strategie creative per andare avanti, per crescere.
In altre parole, tutti noi stiamo venendo fortemente limitati nella nostra autonomia da adulti in questo periodo, e per adattarci rispolveriamo esperienze vissute quando non eravamo adulti. Inoltre, questa forma di regressione a momenti passati della nostra vita è funzionale per analizzare in prospettiva a quello che abbiamo fatto fino a ora, e se siamo intenzionati a continuare a farlo una volta che potremo "rinascere" o "ricrescere", finita questa quarantena. Per molti di noi, i videogiochi sono parte integrante di questo processo.
Patologia contro Virus
L'OMS ha validato il Gaming Disorder, e per l'isolamento parla di videogiochi come terapeutici: vedi contraddizioni? Le potenzialità terapeutiche dei videogiochi non sono cosa nuova, posto che terapeutico è un termine forte e in questo contesto sarebbe meglio parlare di "fattore protettivo". Non mi pare ci sia contraddizione con la validazione del Gaming Disorder, in cui l'accento non è posto sui videogiochi in sé ma sulla perdita del controllo sul comportamento di gioco, che almeno una grossa fetta di ricercatori e clinici in campo internazionale intende come un segnale di problematiche più profonde: condizioni depressive, dinamiche familiari o di personalità disfunzionali, crisi evolutive travagliate (a tal proposito vi consigliamo il nostro speciale sul Gaming Disorder).
E quindi il videogioco può essere tranquillamente ritenuto un fattore protettivo. Ma per chi? È una domanda importante da porsi, perché gli scenari in cui si sta vivendo l'isolamento, con chi e se si può o meno lavorare da casa, fanno la differenza. A me vengono in mente almeno due categorie di persone: coloro il cui umore è peggiorato a seguito dell'isolamento, e quei gamers o ragazzi ritirati che, invece, avevano già alcune difficoltà caratterizzate da un iper-investimento su ambienti di gioco.
Per quanto riguarda i primi, un maggiore investimento sui videogiochi in mancanza di molte altre attività può aiutare a mantenersi stabili e occupati. Il (video)gioco in sé - come macrocategoria - è un "attivatore rilassante", e le derive ansioso-depressive sono tra i disagi psicologici più comuni derivanti dall'isolamento. Per quanto riguarda persone che hanno già delle difficoltà, al contrario di ciò che si può pensare inizialmente, la condizione sociale critica potrebbe aggiungersi ai problemi già presenti - non ci dimentichiamo che anche i genitori o gli altri conviventi sono a casa.
E quindi che ruolo pensi abbiano in questo periodo i videogiochi per le persone in isolamento volontario? Per riassumere il mio pensiero, credo che per la grande maggioranza dei videogiocatori il gaming sia, in questo momento, un fattore decisamente protettivo, ancor di più se si può farlo insieme ad altre persone, virtuali o meno.
Su quella minoranza di ragazzi in ritiro sociale o rifugiati nel virtuale ho più domande aperte: cosa accadrà una volta che il contesto si "riattiverà"? La prenderanno come una occasione per rinascere, oppure torneranno a sentirsi peggio di prima perché nemmeno in questo caso sono riusciti a farcela? E ora stanno meglio perché si sentono finalmente normali, oppure peggio perché si ritrovano tutto il giorno a casa con i genitori? Oppure, anche i conflitti familiari si sono ridotti, perché si è tutti sulla stessa barca? Sarebbe interessante ascoltare le tante risposte.
Nel frattempo, mi piace ricordare un passo del testo "Reality is broken: why games make us better and how they can change the world" di Jane McGonigal (2011, Penguin), in cui si racconta la storia di una civiltà passata che, colpita da una tremenda carestia, elaborò una strategia peculiare per fronteggiare il problema: decisero che avrebbero mangiato un giorno si e uno no, e nei giorni in cui si digiunava avrebbero istituito dei giochi. Si narra che molti giochi come oggi li conosciamo siano nati lì. Vera o meno che sia, questa storia ci fa capire come il gioco aiuti a dare senso a periodi in cui la nostra vita pare non ne abbia. E per molti il momento che stiamo vivendo ha proprio queste caratteristiche.
Videogiochi e Isolamento: l'OMS e il videogame contro la quarantena
L'OMS sta promuovendo il videogioco come strumento terapeutico per combattere la quarantena. Ne abbiamo discusso con uno studioso di Cyberpsicologia.
A seguito della quarantena forzata che gran parte del pianeta sta affrontando, l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha siglato un accordo con alcune delle più grandi compagnie videoludiche al mondo, riconoscendo il valore dell'intrattenimento digitale come strumento terapeutico per chi si ritrova chiuso in casa. Cosa significa tutto questo? Ci sono delle contraddizioni rispetto al recente passato dell'organizzazione Mondiale della Sanità? E come si manifesta questo compito terapeutico in relazione ai diversi profili psicologici? Lo abbiamo chiesto ad Alessandro Giardina, dottorando in Cyberpsicologia Clinica all'Università di Losanna, e Psicologo Clinico specializzato in adolescenti, giovani e adulti, rete e videogiochi.
Una luce diversa
Come è cambiata la percezione dei videogiochi a seguito della pandemia?
La prima cosa da mettere a fuoco è il cambiamento repentino del contesto. Da un punto di vista sociale, nell'arco di una settimana non sono state modificate solo "le regole del gioco", è cambiato il gioco. In questo senso, la virata in termini di percezione non è avvenuta soltanto rispetto ai videogiochi, ma anche per quel che riguarda tutto il mondo digitale - social inclusi. Siamo passati dal virtuale che isola e dissocia, al virtuale come unico o principale luogo "virus-free" di incontro con gli altri. E così vengono alla luce fenomeni in cui persone che mai avrebbero pensato di esporsi in video sul web, finiscono per farlo - con risultati più o meno interessanti.
Non più per raccattare like, ma semplicemente perché esponendoci ci sentiamo più vicini agli altri e parte di una comunità. Che fosse così anche quando pensavamo che il punto fossero i like e il narcisismo? È una domanda da porsi. Certo è che per tutti noi, in questa condizione di isolamento, il virtuale ha assunto un significato molto più affine a quello che ha, in condizioni normali, per un ritirato sociale. Forse alla fine di tutto questo sapremo assumere più facilmente la loro prospettiva, mentre mi sento di escludere che una fetta rilevante di persone estranee al gaming abbia deciso di addentrarcisi a seguito dell'isolamento imposto.
Che ruolo pensi abbiano i videogiochi per le persone in isolamento imposto?
Purtroppo non so fornirvi dati o report, e al momento non mi sento di fare affermazioni di valore assoluto. Una cosa che ho notato, però, è che i giovani adulti stanno volgendo lo sguardo indietro ai videogiochi della loro adolescenza, ricercando talvolta le stesse compagnie con cui giocavano all'epoca. E credo che questo processo sia ancora più forte per coloro i quali si ritrovano isolati negli stessi luoghi di quel periodo, come la casa dei propri genitori.
Per fare un esempio personale, io mi sono ritrovato a cercare giochi come The Sims o strategici-gestionali come Age of Empires - per compensare la difficoltà di recuperare online un Empire Earth. Per non parlare delle lunghe sessioni di PES con il mio coinquilino, al posto del consueto sfidante che avevo da ragazzo: mio fratello. E' più facile dare senso a questa "regressione", se si pensa al fatto che la paura di ciò che c'è all'esterno, del nemico comune invisibile e imprevedibile, ci porta ad unirci ai nostri cari per sopravvivere.
E come in ogni momento di forte cambiamento, di quelli che ci segnano socialmente e individualmente, ci ritroviamo a rivivere interiormente frangenti della nostra storia in cui ci abbiamo dovuto trovare delle strategie creative per andare avanti, per crescere.
In altre parole, tutti noi stiamo venendo fortemente limitati nella nostra autonomia da adulti in questo periodo, e per adattarci rispolveriamo esperienze vissute quando non eravamo adulti. Inoltre, questa forma di regressione a momenti passati della nostra vita è funzionale per analizzare in prospettiva a quello che abbiamo fatto fino a ora, e se siamo intenzionati a continuare a farlo una volta che potremo "rinascere" o "ricrescere", finita questa quarantena. Per molti di noi, i videogiochi sono parte integrante di questo processo.
Patologia contro Virus
L'OMS ha validato il Gaming Disorder, e per l'isolamento parla di videogiochi come terapeutici: vedi contraddizioni?
Le potenzialità terapeutiche dei videogiochi non sono cosa nuova, posto che terapeutico è un termine forte e in questo contesto sarebbe meglio parlare di "fattore protettivo". Non mi pare ci sia contraddizione con la validazione del Gaming Disorder, in cui l'accento non è posto sui videogiochi in sé ma sulla perdita del controllo sul comportamento di gioco, che almeno una grossa fetta di ricercatori e clinici in campo internazionale intende come un segnale di problematiche più profonde: condizioni depressive, dinamiche familiari o di personalità disfunzionali, crisi evolutive travagliate (a tal proposito vi consigliamo il nostro speciale sul Gaming Disorder).
E quindi il videogioco può essere tranquillamente ritenuto un fattore protettivo. Ma per chi? È una domanda importante da porsi, perché gli scenari in cui si sta vivendo l'isolamento, con chi e se si può o meno lavorare da casa, fanno la differenza. A me vengono in mente almeno due categorie di persone: coloro il cui umore è peggiorato a seguito dell'isolamento, e quei gamers o ragazzi ritirati che, invece, avevano già alcune difficoltà caratterizzate da un iper-investimento su ambienti di gioco.
Per quanto riguarda i primi, un maggiore investimento sui videogiochi in mancanza di molte altre attività può aiutare a mantenersi stabili e occupati. Il (video)gioco in sé - come macrocategoria - è un "attivatore rilassante", e le derive ansioso-depressive sono tra i disagi psicologici più comuni derivanti dall'isolamento. Per quanto riguarda persone che hanno già delle difficoltà, al contrario di ciò che si può pensare inizialmente, la condizione sociale critica potrebbe aggiungersi ai problemi già presenti - non ci dimentichiamo che anche i genitori o gli altri conviventi sono a casa.
E quindi che ruolo pensi abbiano in questo periodo i videogiochi per le persone in isolamento volontario?
Per riassumere il mio pensiero, credo che per la grande maggioranza dei videogiocatori il gaming sia, in questo momento, un fattore decisamente protettivo, ancor di più se si può farlo insieme ad altre persone, virtuali o meno.
Su quella minoranza di ragazzi in ritiro sociale o rifugiati nel virtuale ho più domande aperte: cosa accadrà una volta che il contesto si "riattiverà"? La prenderanno come una occasione per rinascere, oppure torneranno a sentirsi peggio di prima perché nemmeno in questo caso sono riusciti a farcela? E ora stanno meglio perché si sentono finalmente normali, oppure peggio perché si ritrovano tutto il giorno a casa con i genitori? Oppure, anche i conflitti familiari si sono ridotti, perché si è tutti sulla stessa barca? Sarebbe interessante ascoltare le tante risposte.
Nel frattempo, mi piace ricordare un passo del testo "Reality is broken: why games make us better and how they can change the world" di Jane McGonigal (2011, Penguin), in cui si racconta la storia di una civiltà passata che, colpita da una tremenda carestia, elaborò una strategia peculiare per fronteggiare il problema: decisero che avrebbero mangiato un giorno si e uno no, e nei giorni in cui si digiunava avrebbero istituito dei giochi. Si narra che molti giochi come oggi li conosciamo siano nati lì. Vera o meno che sia, questa storia ci fa capire come il gioco aiuti a dare senso a periodi in cui la nostra vita pare non ne abbia. E per molti il momento che stiamo vivendo ha proprio queste caratteristiche.
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