Videogiochi Open World: storia, nascita ed evoluzione

Dai Nintendo a Ubisoft, da Rockstar ai PlayStation Studios: l'Open World ha cambiato per sempre l'industria dei videogiochi.

I videogiochi Open World
Speciale: Multi
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Nel corso della sua storia il videogioco ha saputo cambiare profondamente faccia, adattandosi ed evolvendosi in maniere sorprendenti per sviluppare modalità di interazione sempre inedite. Nel salto da Pong a Forza Horizon 5 (a proposito, ecco la nostra recensione di Forza Horizon 5) abbiamo davvero visto di tutto: la nascita delle console, il passaggio per certi versi "copernicano" dal 2D al 3D, l'introduzione di veri e propri generi impensabili agli albori, la crescente importanza della componente narrativa supportata da tecnologie come il performance capture. Esiste ad ogni modo una componente che negli ultimi anni si sta rivelando davvero redditizia per sviluppatori e pubblico, che spesso e volentieri potrebbe essere presa come riferimento per definire un certo tipo di videogioco moderno: la struttura open world.

Lo Zeitgeist videoludico

Benché non sia facile ignorare la crescente nostalgia per le esperienze più lineari, che va di pari passo con produzioni open world più quantitative che qualitative, l'idea di scorrazzare liberamente per mondi aperti costituisce uno dei tratti ineludibili del gaming anno 2022.

Free roaming o open world?Dal punto di vista strettamente etimologico "free roaming" è un termine che precede cronologicamente "open world" ed esprime la facoltà concessa al giocatore di muoversi liberamente nello spazio, cioè in modo non lineare, e decidere quindi in che ordine completare i propri obiettivi. Sono tuttavia considerate due espressioni intercambiabili per un motivo piuttosto pratico: a poter implementare la meccanica del free roaming sono soltanto i giochi con un level design che possa non solo consentire, ma soprattutto rendere necessario un tale impiego della libertà del giocatore, e cioè quelli con un open world.

Il fatto che spesso si confonda con un genere vero e proprio, d'altro canto, testimonia quanto l'implementazione dell'open world abbia assunto un carattere predominante; basta guardare a pesi massimi come Elden Ring e Halo Infinite (a proposito, qui trovate la nostra recensione di Halo Infinite) e lo slancio verso scenari non più circoscritti alla linearità della tradizione appare quasi come un passaggio obbligato per le produzioni moderne. "Open world" è però ben più di un'etichetta, e anzi qualifica un tipo di visione per lungo tempo incoraggiata da publisher e buona parte dell'utenza: una filosofia ludica figlia di quell'escapismo virtuale cercato per anni, dapprima preda di incontrovertibili limitazioni tecniche e ora finalmente liberato in tutta la sua potenza totalizzante.

Tutto nasce dalla volontà di sfruttare a pieno le suggestioni dei mondi virtuali seguendo il principio della non linearità come strumento che offra significato interattivo, un concetto che già si poteva ritrovare nel manuale Game Design: Theory and Practice (2001) di Richard Rouse III. Open world è quindi ciò che ha la propria genesi nell'invocazione di quella non linearità, e cioè nel free roaming, dove è erede del piacere della scoperta tipico dei roguelike.

Fagocitando idee e derivazioni stilistiche di ogni tipo, il free roaming ha innescato una rivoluzione pervasiva e trasversale, arrivando a lambire quasi tutti i generi. Abbiamo dunque pensato di ripercorrere le tappe fondamentali della storia dell'open world, nel tentativo di comprendere al meglio ciò che rappresenta il nostro tempo videoludico, tenendo conto di come l'enorme impatto di questa deriva abbia traghettato il panorama verso una nuova concezione del game design.

Preistoria dell'open world

Sebbene l'open world sia uno degli elementi più rappresentativi del panorama attuale, le sue origini affondano in un continuum di sperimentazioni durato per interi decenni e che risale fino al 1976. Primigenia forma del free roaming fu Colossal Cave Adventure, un'avventura testuale progettata da William Crowther che

Da avventura testuale a videogiocoIl concept di Colossal Cave Adventure venne ripreso nel 1980 da Warren Robinett, che decise di realizzarne un videogioco per Atari 2600. Nonostante Ray Kassar, il presidente di Atari, Inc., si dimostrò tutt'altro che favorevole all'idea di sviluppare un videogioco del genere (da lui ritenuta un'impresa fallimentare), l'opera fu pubblicata con successo e vendette oltre un milione di copie, passando alla storia come il primo videogioco action/adventure - nonché settimo tra i titoli più venduti della console americana.

si incentrava sulla libera esplorazione di una caverna misteriosa piena di insidie e tesori. Una concezione ludica che fu poi ripresa da Ultima I: The First Age of Darkness, sviluppato da Richard Garriott e pubblicato nel 1981. Ultima si avvalse del free roaming per replicare l'overworld di cartacea memoria, ispirandosi ai GDR come Dungeons & Dragons: il suo era dunque un prototipo di open world, ossia una panoramica in scala ridotta della mappa su cui poter muovere il proprio avatar verso i vari punti di interesse. Per primitiva che fosse, la formula ideata da Garriott ebbe un grande successo e finì per ispirare futuri capisaldi del genere come Dragon Quest e The Elder Scrolls: Arena, i quali definirono a loro volta il canone di gioco di ruolo a mondo aperto.

Un primo vero open world fu però quello di Elite, il simulatore di volo spaziale pubblicato da Acornsoft nel 1984 per BBC Micro. Elite non offriva soltanto un'inedita capacità esplorativa, consentendo al giocatore di solcare una galassia tridimensionale di ben 256 pianeti, ma ne approfondiva anche la dimensione ruolistica con una spiccata eterogeneità di elementi ludici. Si era liberi di volare nel vuoto cosmico, così come di dedicarsi all'estrazione di minerali, al commercio o al combattimento: una formula embrionale di quello che sarebbe stato poi definito come un sandbox.

Culla dell'open world fu anche la Grande N, con due tra i suoi titoli più storicamente rilevanti. Il primo, The Legend of Zelda, esordiva nel 1986 con un gameplay non lineare che permetteva di muoversi liberamente nel magico mondo di Hyrule: anche qui vi erano i dungeon in stile RPG, ma - a differenza di Ultima - il mondo di gioco era riprodotto in un'unica scala. Il secondo, Super Mario 64, dieci anni più tardi non fece che proiettarne la formula in uno scenario tridimensionale, grazie allo studio dello stick analogico e di un innovativo sistema di telecamere.

Nel frattempo, Vette e Turbo Esprit facevano da apripista ai racing game come Burnout Paradise e Forza Horizon, e Shenmue, nel 1999, portò sotto gli occhi di tutti una prima città virtuale caratterizzata da un ciclo giorno/notte, un sistema di meteo dinamico, diversi minigiochi e personaggi con cui interagire. "FREE" (Full Reactive Eyes Entertainment) era il termine usato dal team per definire quel tipo di open world, un modello che sarebbe stato poi ripreso, per esempio, dalla serie Yakuza e dai suoi spin-off Judgment e Lost Judgment (qui, invece, la nostra recensione di Lost Judgment).

A consacrare definitivamente l'open world nell'immaginario collettivo fu però il celebre e controverso Grand Theft Auto III, pubblicato da DMA Design (successivamente rinominata Rockstar North) nel 2001. Sfruttando il RenderWare Engine e le potenzialità di PlayStation 2, GTA III si affrancava dall'impostazione bidimensionale aprendosi per la prima volta ad una città in 3D tutta da sviscerare: Liberty City - un nome che da lì a breve sarebbe stato inciso negli annali del videoludo. Il design dell'open world ricalcava l'estetica di New York City e stupiva tanto per la sua vastità quanto per la varietà di interazione offerta: vi erano edifici esplorabili, negozi in cui poter entrare, stazioni radiofoniche da ascoltare alla guida e personaggi non giocanti in grado di reagire alle azioni del protagonista.

L'era moderna: gli open world narrativi

Ebbe così inizio l'era moderna degli open world. Se da un lato alcuni titoli raccolsero l'eredità di GTA III dando vita a franchise come Mafia, Saints Row e Just Cause, e la stessa Rockstar proseguiva la sua epopea criminale con i successivi Vice City e San Andreas, dall'altra ci fu chi volle dimostrare che l'open world si sarebbe prestato anche a diversi contesti narrativi.

Una proposta innovativa fu quella di Ubisoft, che nel 2007 rilasciò il grezzo ma audace Assassin's Creed. Nel solco delle sanguinose crociate del XII secolo l'action/stealth del colosso francese adoperava il free roaming in nome di una ricercata verosimiglianza contemplativa, per calare il giocatore nel quadro storico dell'avventura. Benché il mondo di gioco fosse praticamente vuoto e le interazioni limitate ai pochi personaggi disponibili, l'epopea di Altair introdusse alcune novità che sarebbero state d'esempio per altri esponenti, come la presenza delle torri e le abilità di parkour del protagonista.

Ad ogni modo, la formula open world non si sposava bene solo e soltanto ai giochi in terza persona: fu ancora Ubisoft a darne prova, riprendendo Far Cry, lo sparatutto in soggettiva di Crytek. In accordo alla deriva naturalistica già sperimentata con la

Il "Fattore Aneddoto" di Far Cry 3Con "fattore aneddoto" si indica una situazione di gameplay emergente atta a conferire credibilità al mondo di gioco, come può essere l'assalto di alcuni ribelli ad una roccaforte nemica o l'inseguimento da parte di tigri fameliche. Applicare un simile meccanismo in un mondo tanto vasto come Rook Islands avrebbe sicuramente rappresentato un problema per gli hardware del 2012, tuttavia Ubisoft trovò un escamotage piuttosto convincente. Il sistema di gioco avrebbe mantenuto attiva solamente l'intelligenza artificiale degli NPC presenti entro mezzo chilometro dal giocatore, così da risparmiare risorse e permettere ai personaggi presenti di reagire a particolari stimoli in maniera più elaborata: un'idea che si rivelò vincente e contribuì a sancire il trionfo commerciale del titolo.

fittizia isola di Kabatu, la serie venne proiettata verso scenari via via più aperti, esotici e lussureggianti. Fu Far Cry 3 (a proposito, ecco la nostra recensione di Far Cry 6) a legittimare a pieno questa visione ludica con una mole soverchiante di avamposti da espugnare ed un ambiente in cui perdersi nelle sessioni di caccia e di guerriglia. Sulle orme di questi grandi franchise si arrivò così ad una vera pletora di altri open world narrativi, tra cui possiamo citare La Terra di Mezzo: L'Ombra di Mordor, innovativo per il suo Nemesis System che permetteva ai nemici sopravvissuti di ricordarsi del protagonista e dunque di farsi trovare più preparati ad un secondo incontro; Dragon Age: Inquisition; Mad Max; L.A. Noire; Metal Gear Solid V: The Phantom Pain; GTA V - a cui va il merito di aver ammodernato la propria formula con un sistema di personaggi multipli - e le più recenti produzioni dei PlayStation Studios come Horizon: Forbidden West (qui trovate la nostra recensione di Horizon: Forbidden West).

Differenza tra open world qualitativi e quantitativi

L'espansione dei mondi virtuali dovuta all'aumento delle possibilità tecnologiche determinò, tuttavia, una spaccatura che tutt'oggi persiste tra le produzioni open world di stampo narrativo. Per rifuggire l'horror vacui i mondi aperti dovettero rivedere le proprie prerogative in fatto di riempitivi, cosa che portò ad una netta separazione tra open world quantitativi e qualitativi.

Cosa si intende con "Fetch Quest"?Fetch Quest, dall'ormai in disuso FedEx Quest, è un termine utilizzato per indicare le cosiddette "quest da fattorino", ossia missioni che richiedono al giocatore di fare per l'appunto da corriere portando un oggetto dal punto A al punto B. Tipicamente utilizzate negli MMORPG al fine di ampliare la curva di apprendimento del personaggio, risultano spesso banali, ripetitive e prive di una reale sfida dal punto di vista prettamente ludico, motivo per il quale vengono generalmente sdegnate.

I primi perseguono la via dell'accumulo, capitalizzando le ore di gioco con attività secondarie di scarsa rilevanza narrativa e loot oltre la misura del necessario. Negli open world quantitativi si ha così una dilatazione dei tempi narrativi in favore della longevità, non di rado prodromo di dissonanza ludonarrativa (per saperne di più, leggetevi il nostro speciale sulla dissonanza ludonarrativa). Fra questi rientrano gli ultimi capitoli delle già citate saghe di Ubisoft, Assassin's Creed e Far Cry, ma anche Watch Dogs e Ghost Recon, tutte rispondenti al canone della sovrabbondanza. Al contrario, gli open world qualitativi fanno del pretesto narrativo il perno di ogni nodo d'interazione.

La pluralità di luoghi e personaggi cui ci si imbatte possiede sempre una scrittura che ben si integra a quella della storyline principale, approfondendo la cosiddetta lore e offrendo scorci interpretativi rilevanti. Tra gli esempi più virtuosi troviamo sicuramente Red Dead Redemption 2 e The Witcher 3: Wild Hunt, oppure le saghe storiche di Bethesda come The Elder Scrolls e Fallout: tutti con un quest design tanto profondo da annullare la visibile differenza tra missioni primarie e secondarie.

Open world qualitativi sono poi quei titoli che hanno nel valorizzare l'esplorazione il fulcro dell'intera pretesa ludica: impossibile non citare The Legend of Zelda: Breath of the Wild (ecco la nostra recensione di The Legend of Zelda: Breath of the Wild), che trova la propria ragion d'essere nell'emancipazione dai limiti geografici dei suoi predecessori. Nel capolavoro di Nintendo le indicazioni circa gli obiettivi delle quest sono vaghe e allusive, e il colpo d'occhio del panorama suggerisce sempre la presenza di luoghi interessanti ed entrate nei dungeon in un gameplay focalizzato sulla sperimentazione che incoraggia a più riprese l'intraprendenza di raggiungere un luogo visto in lontananza.

Open world supereroistici

Una particolare derivazione degli open world narrativi sono quelli dedicati specificatamente ai supereroi. Qui l'open world assume più il significato di una necessità scenografica, un pretesto per dare corpo all'iconografia di riferimento e legittimare quindi le abilità sovrumane del protagonista. Tra i titoli open world più importanti per il genere supereroistico dobbiamo necessariamente citare Batman: Arkham City, secondo capitolo della pluripremiata trilogia di Rocksteady.

L'opera ispirata all'uomo pipistrello ebbe la capacità di consolidare due elementi fondamentali per gli open world a tema supereroi: in primo luogo l'uso del Free Flow (già introdotto nel capitolo precedente) come sistema di combattimento, divenuto uno standard per la sua immediatezza e per la sua spettacolarità, e poi il dinamismo di uno spostamento che avveniva per mezzo del rampino, in grado di ancorare tetti e ganci di ogni tipo così da consentire pratiche oscillazioni tra i grattacieli della città - lo stesso concetto verrà poi ripreso ed esasperato, per esempio, nella saga di Marvel's Spider-Man.

Open world simulativi

Categoria a sé fanno invece tutti quegli open world improntati alla simulazione, la quale esige un realismo che verrebbe meno in un contesto virtuale troppo limitato. Fulgidi esempi sono ArmA III, un simulatore bellico ambientato nella vastissima isola di Altis dove il giocatore deve tenere conto di distanze geografiche e dislivelli per ottenere un tiro pulito, ed Euro Truck Simulator 2, che punta a ricreare una simulazione di guida distensiva con una sorprendente riproduzione delle strade europee.

Doverosa anche una menzione a Microsoft, che ha da sempre cercato di imporre la sua egemonia tecnica con la serie Flight Simulator, spingendosi alle soglie del fotorealismo con l'ultimo capitolo del franchise. Il successo del suo open world - liberamente esplorabile nella modalità volo libero - è dovuto ad un particolarissimo sistema di rendering. Accedendo ai dati di Bing Maps, l'Azure AI effettua una scansione della fotogrammetria originale per riprodurre modelli tridimensionali in-game, a cui si possono peraltro aggiungere caratteristiche metereologiche in tempo reale. Il risultato è un gameplay all'insegna della più precisa simulazione di volo.

Open world sandbox

Una tra le derive più interessanti che l'open world ha assunto nel corso della sua storia è sicuramente quella sandbox, di cui Elite è stato il precursore assoluto. Qui lo scenario diventa materia con cui interagire, elevando il concetto stesso di open world a dimensione ludica a tutto tondo, per quello che spesso si definisce un parco giochi. Terraria e No Man's Sky sono solo alcuni esempi di open world sandbox, il cui principale esponente rimane Minecraft, cult di matrice survival sviluppato da Mojang.

Qui l'open world diviene luogo della mente creativa, aprendosi non solo all'infinità dello spazio generato proceduralmente, ma anche alle possibilità date da un crafting a 360° che prevede la combinazione di tutti i materiali reperibili. Un mondo di biomi differenti si concede così, con il suo minimalismo fatto di pixel, all'esplorazione più libera che si sia mai vista, dove l'unico limite è rappresentato dalla propria fantasia. Nel sandbox si verifica quindi un totale asservimento dell'open world all'inventiva del giocatore, il quale spesso e volentieri non deve seguire un obiettivo preciso, o comunque, ha più di un modo per raggiungerlo. Open world atipico che si colloca a metà tra il narrativo e il sandbox e che merita un approfondimento a parte è sicuramente l'ultima fatica di Hideo Kojima, il tanto divisivo Death's Stranding. Benché vasto e liberamente perlustrabile, il mondo di Death's Stranding (a proposito, ecco la nostra recensione di Death's Stranding Director's Cut) rappresenta più un open world al negativo, un anti-open world, la cui originalità risiede nel disincentivare ogni forma di esplorazione. La risibile quantità di loot, la difficoltà nel muoversi su terreni scoscesi e la presenza delle C.A. fanno degli sconfinati paesaggi delle Knot City un ambiente tutt'altro che praticabile, nonostante la possibilità di costruire ripari, teleferiche e supporti di vario genere praticamente ovunque. Mentre in Minecraft e No Man's Sky la vastità del mondo di gioco serve il preciso scopo della conquista territoriale, in Death's Stranding - attuata la decostruzione di un simile archetipo - ci si ritrova in uno scenario ostile e indecifrabile che ha nella pervasiva vacuità dell'ambiente la forza di definire il proprio contesto narrativo.

L'open world dopo Elden Ring

Che l'ultima fatica di FromSoftware abbia riscritto il canone dell'open world è ormai un fatto acclarato (e per saperne di più vi rimandiamo alla nostra recensione di Elden Ring). Non tanto per averne modificato la formula dal punto di vista strutturale, bensì filosofico: quello che fa scattare la magia dopo le prime ore trascorse nella cangiante Sepolcride è infatti il modo in cui l'opera di Hidetaka Miyazaki riesce a conciliare l'apertura dell'esplorazione incondizionata a quel tipo di level design conchiuso e articolato che per anni è stato - e rimane - la cifra stilistica dello sviluppatore giapponese.

Al pari di opere già citate come Breath of the Wild e Skyrim, l'ultimo Souls di casa From riversa in un mondo ampio e maestoso tutta l'energia galvanizzante della scoperta, componendo però un mosaico che risponde a due distinti livelli spaziali. Da una parte la sorprendente estensione della mappa di gioco offre lussureggianti distese da solcare in sella al mitico Torrente, lasciandosi scorrere alle spalle le tessere di quello stesso mosaico coloratissimo; dall'altra ogni insenatura, ogni anfratto racchiude la tacita promessa di infinite articolazioni, e spinge così - in maniera tanto elegante quanto iconica - ad una perlustrazione in pieno stile Soulslike.

La mancanza del quest log conserva il fascino del mistero a cui la serie Dark Souls - ma non di meno anche Bloodborne e Sekiro - ci ha abituati. E se a questo si aggiunge tutto il corollario di aree opzionali immense che è possibile visitare, appare chiaro come l'operato di FromSoftware non intenda tanto definire un nuovo modello di open world, quanto più un suo nuovo linguaggio attraverso il quale spingere il giocatore ad una costante ricerca del nuovo, della meraviglia e del segreto, in un momento storico per l'industria dove spesso questi termini paiono sempre più in antitesi.

Insomma, pur non essendo la quintessenza della rivoluzione videoludica, il mondo aperto di Elden Ring - criptico e al tempo stesso ricco di contenuti - stabilisce una nuova frontiera d'interpretazione con cui, volenti o nolenti, i futuri open world dovranno necessariamente confrontarsi.