Violenza e Videogiochi sono uniti da un legame indissolubile?

L'estrema ferocia nel trailer di The Last of Us Parte II ha generato una serie di polemiche: qual è il rapporto che lega la violenza ai videogiochi?

Violenza e Videogiochi sono uniti da un legame indissolubile?
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Sin dalle origini del videogioco, autori, critici, politici e studiosi si sono interrogati sul ruolo ricoperto dalla violenza all'interno delle nostre esperienze interattive. L'incapacità di molti di filtrare queste riflessioni in maniera completa ed efficace ha generato un'evidente polarizzazione del dibattito, che vede da un lato lo schieramento delle associazioni contro la violenza nei media, e dall'altro masse di videogiocatori preoccupati di difendere il loro passatempo preferito. La realtà dei fatti è che l'argomento si dimostra estremamente più complesso di una semplicistica bipartizione, e necessita di una quantità di analisi decisamente più attente di quanto si possa fare con qualche post sui social.
Innanzitutto, bisogna smontare le prospettive estremiste, evidenziandone i punti deboli: se i videogiochi possono avere un effetto diretto sul giocatore, quest'ultimo può essere positivo o negativo a seconda di ciò che viene rappresentato, e non del mezzo in quanto tale.
Di conseguenza, la giustificazione di ogni rappresentazione violenta su schermo basata sul semplice fatto che "i videogiochi ci divertono" è priva di fondamenta, e lo stesso si può dire per tutti coloro che tentano di delineare un legame diretto tra la violenza interattiva e quella reale. Il presupposto per un dibattito intelligente e proficuo sul gaming deve dunque partire da queste premesse: sì, il videogioco può avere degli effetti sul giocatore, ma non in maniera univoca. In secondo luogo, l'analisi dei mezzi di comunicazione da parte di teorici e scienziati dei media ha più volte dimostrato che chi gioca, esattamente come chi legge un libro o guarda un film, non è un elemento passivo della comunicazione: in base al nostro contesto famigliare, sociale e culturale, daremo un significato diverso a ciò che giochiamo, e l'interpretazione che ne darà il mio vicino di casa potrebbe essere profondamente diversa dalla mia, ed entrambe potrebbero differire enormemente dall'opinione di un terzo.

V for Violence

Nel caso specifico del videogioco, Henry Jenkins, una delle più grandi personalità nel mondo accademico della comunicazione e della cultura, ha più volte analizzato il tema del legame tra violenza nei media e una sua eventuale ripercussione sulla realtà fisica. Appoggiandosi ai dati statistici dei crimini federali statunitensi, lo studioso ha dimostrato che negli anni in cui il numero di crimini minorili calava drasticamente, la quantità di videogiocatori aumentava sempre di più. Inoltre, molte ricerche statistiche dimostrano che il comune criminale consuma molto meno intrattenimento rispetto alla massa, e ciò vale anche per i videogiochi. Le vere motivazioni che spingono un ragazzo o un adulto a dar sfogo ai suoi istinti più brutali sono generalmente riconducibili alle condizioni famigliari, sociali e mentali. Se da un lato non esiste alcuna prova scientifica di un legame diretto tra la violenza dei media e una sua emulazione nella realtà, al contempo sono le aziende stesse a suggerirci che le simulazioni interattive hanno probabilmente un certo impatto sulla psiche del giocatore.

Infatti, sin dalle origini del mezzo l'industria bellica collabora con quella videoludica e partecipa allo sviluppo, alla creazione e alla pubblicazione di vari titoli di grande richiamo (sin da Spacewar!, considerato uno dei primi videogiochi di sempre). Una violenza priva di rilievo allenta i limiti etici e morali dell'individuo: questa è la tesi (supportata da varie ricerche) di chi utilizza il videogioco come mezzo per addestrare e stimolare i futuri soldati. Effettivamente, gli effetti pratici di simile teoria devono essere piuttosto concreti, se l'esercito continua ancora oggi a utilizzare esperienze interattive tridimensionali per alleviare i danni del disturbo post-traumatico da stress dei militari, che alleggeriscono la frattura tra la vita dall'esercito e quella familiare con sedute che simulano le azioni svolte sul campo. Inoltre, è innegabile che, tristemente, la storia del videogioco sia ricca di meccaniche e gameplay che si basano principalmente sul conflitto e sulla violenza. D'altronde, quando titoli come Journey o Flower vengono pubblicizzati, la stragrande maggioranza del pubblico li declassa e li sminuisce, pretendendo di distanziarli dal "vero" videogame.

Siamo dunque in una fase di stallo: in presenza di prove che sembrano in contrasto tra loro, chi ha ragione? Le associazioni contro i videogiochi, o coloro che sostengono che non vadano in alcun modo criticati? Ritornando a Jenkins, quest'ultimo sottolinea intelligentemente come la cattiva stampa e le associazioni critiche aiutino la politica a distogliere le attenzioni della massa dalle cause più importanti, che generano eventi di criminalità. Additare il videogioco (come prima si fece con la musica rock, e poi col cinema) come l'unica fonte dei crimini giovanili significa implicitamente deresponsabilizzare le famiglie, l'istruzione e la classe dirigente dai loro compiti nella costruzione di un contesto sociale e culturale in grado di aiutare l'individuo a non utilizzare i media come modello di condotta. E qui, veniamo al punto: qualche settimana fa, a seguito della pubblicazione del nuovo trailer di The Last of Us: Parte 2, Julia Alexander (Polygon) ha scritto un articolo su come generalmente si sfrutti una violenza priva di contesto e spessore per vendere alla massa qualsiasi videogioco.

Di certo, pubblicare un trailer simile non aiuta a individuare caratteristiche particolari nel nuovo titolo Naughty Dog: al contempo, è però assurdo che, invece di provare a fornire un contesto in più ai lettori, esaltando un titolo che della brutalità non fa un orpello ma un contenuto, la giornalista abbia deciso di porre l'accento proprio su un titolo simile, quando il mercato attuale è stracolmo di opere dove la violenza priva di significato e spessore è all'ordine del giorno. Quest'esempio dimostra come il ruolo più delicato sia proprio quello della stampa e della critica: devono infatti sempre essere in grado di cogliere le sfumature per cui un determinato titolo presenta una violenza dannosa o meno, e soprattutto stimolare un dibattito al riguardo.

Nel seminale "La guerra del Golfo non ha avuto luogo", il sociologo Jean Baudrillard sottolineava come la sostanziale assenza di media indipendenti sul terreno del conflitto abbia reso gli eventi bellici filtrati unicamente dal modo in cui l'esercito americano ha deciso di farceli arrivare, trasformando la realtà in iperrealtà: non vediamo e conosciamo i fatti reali, ma quelli che ci vengono trasmessi come reali. Le analisi dell'autore francese sono state solo l'inizio di una successiva letteratura di enorme rilievo e spessore che dimostra come non sia il mezzo, ma il modo in cui il comunicatore lo usa a dare al messaggio un'accezione negativa o positiva. Di conseguenza, dobbiamo comprendere che la violenza videoludica può sì avere effetti sulla psiche del giocatore in maniera diretta o indiretta: tuttavia, non è il mezzo in quanto tale a generarle, ma il modo in cui i produttori lo concepiscono, lo sviluppano e lo pubblicano.

Sostenere che i videogiochi ci trasformino in criminali è, nel 2017, anacronistico e banalizzante. Al contempo, non possiamo sottrarci da un confronto sulle caratteristiche e le conseguenze del mezzo interattivo. I videogiochi stanno infatti vivendo un periodo di strabiliante ricchezza economica, che però non riesce a tenere il passo con l'evoluzione culturale del medium: il dibattito sulla violenza dei videogiochi e sui loro effetti è uno dei temi più importanti attraverso il quale poter mostrare al pubblico generalista e meno informato tutto il potenziale di questo eccezionale strumento di comunicazione.