Far Cry 6 e le email ai giocatori: marketing aggressivo o intelligente?
Ubisoft manda alcune mail agli utenti iscritti alla sua newsletter per invitarli a tornare a giocare a Far Cry 6: su internet si è acceso il dibattito.
"È stato divertente vedervi fallire". È questa la frase - sintetica e spietata - che campeggia sull'email inviata da Ubisoft ai giocatori che non hanno completato la campagna di Far Cry 6 (a questo link potete trovare la nostra recensione di Far Cry 6). Si tratta di una trovata di marketing quantomeno ficcante, con cui la software house mira a stuzzicare i propri utenti per riportarli negli sconfinati territori di Yara: una sferzata che ha fatto scoppiare un acceso dibattito tra i videogiocatori, sempre più attenti a identificare e denunciare le pratiche apertamente o implicitamente predatorie delle aziende videoludiche. Ho scelto non a caso il termine "dibattito", per identificare questa recente querelle, perché non me la sento proprio di chiamarla polemica. Del resto credo che sia giusto aprire tavoli di discussione, e persino fare decisa opposizione, senza essere necessariamente additati come persone mosse da un piccato risentimento. Visto che di un dibattito si tratta, ecco di seguito il mio punto di vista sulla questione, che trovo spiacevole anche se non per gli stessi motivi di molti giocatori.
Purché se ne parli!
L'invio di una mail che sembra sfottere apertamente chi non ha portato a compimento l'avventura principale di un videogame non è certo una strategia convenzionale nel nostro settore. Per utilizzare un termine tanto caro alle agenzie di comunicazione si tratta di un'attività sicuramente "disruptive": ovvero "dirompente", forse persino chiassosa, da smargiassi.
Il fatto che sia atipica e aggressiva non giustifica tuttavia la grande sorpresa che ha generato, proprio perché si tratta di un espediente pienamente "leggibile". La storia della comunicazione è piena di idee ardite (per non dire apertamente provocatorie), e non credo che quella di Ubisoft sia fra le più ineleganti. Se dovessi fare un esempio di marketing "agguerrito" - se non addirittura sgarbato - mi verrebbe da citare Burgez, una catena che ha puntato tutto su una certa supponenza e su sottotesti timidamente oltraggiosi. Non solo sul margine dei brick di acqua c'è un righello che invita "a misurarselo", ma i volantini inseriti negli ordini a domicilio espongono forti invettive contro i vegetariani, sostenendo che i dirigenti delle aziende vegan usino i soldi guadagnati per comprarsi la "vera carne". Badate bene: non voglio dire che l'esistenza di un eccesso ne giustifichi un altro, ma mi sembra che non ci sia nulla di incomprensibile in una strategia del genere.
L'operazione di Ubisoft si può identificare come un'attività di guerrilla marketing a cui dovremmo ormai essere abituati. Molte delle operazioni di marketing odierne giocano sul filo del rasoio, muovendosi in territori rischiosi quando si parla di etica e di rispetto.
Dalla profilazione che compiono i social network allo scambio di dati sensibili che avviene quotidianamente fra grandi colossi dell'hi-tech, passando per l'occupazione di suolo pubblico con installazioni temporanee, quella del marketing è quasi sempre un'intromissione a suo modo violenta nella vita e negli spazi del consumatore.
Rottura della quarta parete
Il caso di Ubisoft non mi sembra particolarmente odioso per diversi motivi. Il primo è di carattere legale e pragmatico: la mail è stata inviata solo agli utenti che hanno scelto di ricevere comunicazioni personalizzate relative a "news, contenuti per la community e offerte speciali".
Si potrebbe dire che lo sfottò di Anton Castillo ricada in una zona grigia, ma sono abbastanza convinto che possa essere ascritto alla seconda categoria, piuttosto aspecifica. Anche perché quello che si limita a fare è riportare nelle caselle di posta del pubblico la narrativa alla base del gioco: lo spietato dittatore che odia il popolo di Yara detesta e irride anche chi fomenta - pad alla mano - la rivoluzione virtuale (leggete qui il nostro speciale su Anton Castillo di Far Cry 6). È un procedimento di rottura della quarta parete (o forse di assottigliamento dei confini fra la realtà e la finzione videoludica) che potrebbe persino definirsi una buona trovata creativa, utile ad amplificare quella sensazione di animosa rivalsa che dovrebbe muovere chi sta giocando Far Cry 6.
Chi sostiene che sia Ubisoft stessa a farsi beffe del pubblico non sta insomma considerando la cornice narrativa che la software house trasferisce dal gioco alla newsletter. È chiaro che si tratti di una scelta ardita, forse persino avventata, e che possa non piacere a tutti. Mi permetto un consiglio a chi la trova eccessiva: lo strumento migliore per mandare un messaggio è togliere in massa l'iscrizione dalla newsletter. Si tratta di un click che conta più di quanto pensiate, che toglie potere alla software house privandola di un canale comunicativo diretto e importante.
Per contro, ma questo non vuol essere certo un invito al silenzio, pure il rumore generato dal dissenso delle ultime ore non fa altro che riportare Far Cry 6 sulla bocca di tutti e sulle prime pagine di ogni pubblicazione (e non solo su quelle specializzate). Che potesse essere, anche questo, uno dei risultati sperati da chi ha ideato la campagna?
Il tempo è denaro
Come dicevo in apertura, sebbene non condivida appieno la sdegnata sensazione di sorpresa di una parte del pubblico, credo che la mail inviata da Ubisoft esibisca un problema enorme della software house francese. Non tanto di natura etica, quanto di filosofia produttiva. Mi sembra chiaro che il sottinteso della missiva digitale è che Ubisoft voglia incentivare il pubblico a giocare di più. Il conteggio delle ore spese nei panni di Dani Rojas, che compare a lettere cubitali nell'email, è ulteriore conferma di questa tendenza.
Resta vero che l'industria del videogioco ha un grande problema legato alla soglia dell'attenzione del suo pubblico. Ci sono molti team di sviluppo e altrettanti autori preoccupati della deriva per cui la maggior parte degli utenti non finisce neppure i titoli di stampo narrativo, lasciando le storie ammezzate e i protagonisti senza uno sfogo. Da ben più di un decennio chi produce videogiochi si interroga su come risolvere questo problema, cercando soluzioni di diverso tipo. Per migliorare la situazione sono stati creati sistemi di ingaggio e fidelizzazione non direttamente integrati con il racconto, come ad esempio i trofei e gli obiettivi. In determinate epoche, invece, si è pensato che il nocciolo della questione fosse la difficoltà, arrivando a rifiutarla del tutto (ve li ricordate i primi anni della generazione PS3/Xbox 360, fatti di titoli che rigettavano il game over e si lasciavano giocare senza impegnare minimamente il pubblico?).
Si potrebbe pensare che l'email di Ubisoft sia un altro tentativo di arginare questo inconveniente, un esperimento per riconquistare l'attenzione di utenti estremamente volubili. Eppure, se la confrontiamo con la strategia produttiva degli open world del colosso francese, è lampante che l'interesse principale non sia quello di far conoscere ai giocatori il destino di Yara e di Anton Castillo, bensì di mantenerli quanto più possibile negli spazi virtuali dell'isola.
Ecco, è questo per me è il problema di Far Cry 6, di Ubisoft, e di una parte sempre più estesa dell'industria: il valore con cui viene misurata la buona riuscita di un prodotto è il tempo che il giocatore spende su di esso. L'obiettivo delle software house è quello di "trattenere" l'utente, più che di intrattenerlo. Farlo stare negli spazi digitali "di sua proprietà" per evitare che finisca in quelli costruiti da altri. Il tempo di gioco diventa indice della fidelizzazione del giocatore, il prodotto si trasforma in un'esperienza "usurpatrice". È chiaro che un'esigenza di questo tipo rischia di polarizzare in maniera desolante l'operazione creativa alla base di un videogame. I prodotti devono diventare sempre più ampi, sempre più densi; le attività devono moltiplicarsi a dismisura e gli sforzi del giocatore devono essere incasellati in una progressione che faccia percepire il senso di crescita e di sviluppo. Un mercato che fa propri solo questi valori non può far altro che puntare sulla proliferazione degli open world e sulla diffusione a macchia d'olio di dinamiche incrementali tipiche dei Giochi di Ruolo, applicate (alle volte forzatamente) a tutte le tipologie di gameplay.
Indicatore chiave di prestazione
Nel gergo tecnico degli analisti e dei responsabili marketing c'è una sigla che viene utilizzata per identificare i dati principali con cui valutare l'efficacia di un'attività: si tratta dei KPI, o Key Performance Indicator (in italiano si traduce con ICP, Indicatore Chiave di Prestazione). L'idea che mi sono fatto negli ultimi tempi è che sempre più publisher considerino le ore spese su un titolo il KPI centrale delle proprie strategie.
"Irretire" i giocatori e "magnetizzare" la loro attenzione permette anche di proporgli con regolarità pacchetti aggiuntivi, boost temporanei, skin estetiche, DLC e season pass, continuando a monetizzare anche dopo il lancio. Stando così le cose è chiaro che l'esperienza di gioco diventi esplicitamente quantitativa, più che qualitativa.
Forse questa deriva è in parte anche legata alle considerazioni che alcune fasce di pubblico hanno sempre fatto sul rapporto fra la durata e il prezzo dei videogame. Una delle domande che si leggono più spesso, negli spazi dei commenti, è "quanto dura? Vale la pena acquistarlo al Day One?". Come se il valore di un gioco debba essere legato a quella che le riviste di un tempo definivano "longevità".
Se c'è un'opposizione che dobbiamo portare avanti, come pubblico e come industria, è proprio nei confronti di questo modo di intendere la produzione di un videogame. Possono (devono!) esserci anche esperienze di questo stampo, ma la speranza è che non diventino le uniche esperienze possibili, a livello creativo, produttivo ed economico. Sul mercato e nelle line-up delle grandi software house devono esserci anche titoli più misurati, di una densità che non sia solo contenutistica. È importante per la diversità, per la qualità dei videogiochi, per la sostenibilità del settore. Se c'è una rivoluzione che dobbiamo sostenere, facciamo che sia questa.
Far Cry 6 e le email ai giocatori: marketing aggressivo o intelligente?
Ubisoft manda alcune mail agli utenti iscritti alla sua newsletter per invitarli a tornare a giocare a Far Cry 6: su internet si è acceso il dibattito.
"È stato divertente vedervi fallire". È questa la frase - sintetica e spietata - che campeggia sull'email inviata da Ubisoft ai giocatori che non hanno completato la campagna di Far Cry 6 (a questo link potete trovare la nostra recensione di Far Cry 6). Si tratta di una trovata di marketing quantomeno ficcante, con cui la software house mira a stuzzicare i propri utenti per riportarli negli sconfinati territori di Yara: una sferzata che ha fatto scoppiare un acceso dibattito tra i videogiocatori, sempre più attenti a identificare e denunciare le pratiche apertamente o implicitamente predatorie delle aziende videoludiche. Ho scelto non a caso il termine "dibattito", per identificare questa recente querelle, perché non me la sento proprio di chiamarla polemica. Del resto credo che sia giusto aprire tavoli di discussione, e persino fare decisa opposizione, senza essere necessariamente additati come persone mosse da un piccato risentimento. Visto che di un dibattito si tratta, ecco di seguito il mio punto di vista sulla questione, che trovo spiacevole anche se non per gli stessi motivi di molti giocatori.
Purché se ne parli!
L'invio di una mail che sembra sfottere apertamente chi non ha portato a compimento l'avventura principale di un videogame non è certo una strategia convenzionale nel nostro settore. Per utilizzare un termine tanto caro alle agenzie di comunicazione si tratta di un'attività sicuramente "disruptive": ovvero "dirompente", forse persino chiassosa, da smargiassi.
Il fatto che sia atipica e aggressiva non giustifica tuttavia la grande sorpresa che ha generato, proprio perché si tratta di un espediente pienamente "leggibile". La storia della comunicazione è piena di idee ardite (per non dire apertamente provocatorie), e non credo che quella di Ubisoft sia fra le più ineleganti. Se dovessi fare un esempio di marketing "agguerrito" - se non addirittura sgarbato - mi verrebbe da citare Burgez, una catena che ha puntato tutto su una certa supponenza e su sottotesti timidamente oltraggiosi. Non solo sul margine dei brick di acqua c'è un righello che invita "a misurarselo", ma i volantini inseriti negli ordini a domicilio espongono forti invettive contro i vegetariani, sostenendo che i dirigenti delle aziende vegan usino i soldi guadagnati per comprarsi la "vera carne". Badate bene: non voglio dire che l'esistenza di un eccesso ne giustifichi un altro, ma mi sembra che non ci sia nulla di incomprensibile in una strategia del genere.
L'operazione di Ubisoft si può identificare come un'attività di guerrilla marketing a cui dovremmo ormai essere abituati. Molte delle operazioni di marketing odierne giocano sul filo del rasoio, muovendosi in territori rischiosi quando si parla di etica e di rispetto.
Dalla profilazione che compiono i social network allo scambio di dati sensibili che avviene quotidianamente fra grandi colossi dell'hi-tech, passando per l'occupazione di suolo pubblico con installazioni temporanee, quella del marketing è quasi sempre un'intromissione a suo modo violenta nella vita e negli spazi del consumatore.
Rottura della quarta parete
Il caso di Ubisoft non mi sembra particolarmente odioso per diversi motivi. Il primo è di carattere legale e pragmatico: la mail è stata inviata solo agli utenti che hanno scelto di ricevere comunicazioni personalizzate relative a "news, contenuti per la community e offerte speciali".
Si potrebbe dire che lo sfottò di Anton Castillo ricada in una zona grigia, ma sono abbastanza convinto che possa essere ascritto alla seconda categoria, piuttosto aspecifica. Anche perché quello che si limita a fare è riportare nelle caselle di posta del pubblico la narrativa alla base del gioco: lo spietato dittatore che odia il popolo di Yara detesta e irride anche chi fomenta - pad alla mano - la rivoluzione virtuale (leggete qui il nostro speciale su Anton Castillo di Far Cry 6). È un procedimento di rottura della quarta parete (o forse di assottigliamento dei confini fra la realtà e la finzione videoludica) che potrebbe persino definirsi una buona trovata creativa, utile ad amplificare quella sensazione di animosa rivalsa che dovrebbe muovere chi sta giocando Far Cry 6.
Chi sostiene che sia Ubisoft stessa a farsi beffe del pubblico non sta insomma considerando la cornice narrativa che la software house trasferisce dal gioco alla newsletter. È chiaro che si tratti di una scelta ardita, forse persino avventata, e che possa non piacere a tutti. Mi permetto un consiglio a chi la trova eccessiva: lo strumento migliore per mandare un messaggio è togliere in massa l'iscrizione dalla newsletter. Si tratta di un click che conta più di quanto pensiate, che toglie potere alla software house privandola di un canale comunicativo diretto e importante.
Per contro, ma questo non vuol essere certo un invito al silenzio, pure il rumore generato dal dissenso delle ultime ore non fa altro che riportare Far Cry 6 sulla bocca di tutti e sulle prime pagine di ogni pubblicazione (e non solo su quelle specializzate). Che potesse essere, anche questo, uno dei risultati sperati da chi ha ideato la campagna?
Il tempo è denaro
Come dicevo in apertura, sebbene non condivida appieno la sdegnata sensazione di sorpresa di una parte del pubblico, credo che la mail inviata da Ubisoft esibisca un problema enorme della software house francese. Non tanto di natura etica, quanto di filosofia produttiva. Mi sembra chiaro che il sottinteso della missiva digitale è che Ubisoft voglia incentivare il pubblico a giocare di più. Il conteggio delle ore spese nei panni di Dani Rojas, che compare a lettere cubitali nell'email, è ulteriore conferma di questa tendenza.
Resta vero che l'industria del videogioco ha un grande problema legato alla soglia dell'attenzione del suo pubblico. Ci sono molti team di sviluppo e altrettanti autori preoccupati della deriva per cui la maggior parte degli utenti non finisce neppure i titoli di stampo narrativo, lasciando le storie ammezzate e i protagonisti senza uno sfogo. Da ben più di un decennio chi produce videogiochi si interroga su come risolvere questo problema, cercando soluzioni di diverso tipo. Per migliorare la situazione sono stati creati sistemi di ingaggio e fidelizzazione non direttamente integrati con il racconto, come ad esempio i trofei e gli obiettivi. In determinate epoche, invece, si è pensato che il nocciolo della questione fosse la difficoltà, arrivando a rifiutarla del tutto (ve li ricordate i primi anni della generazione PS3/Xbox 360, fatti di titoli che rigettavano il game over e si lasciavano giocare senza impegnare minimamente il pubblico?).
Si potrebbe pensare che l'email di Ubisoft sia un altro tentativo di arginare questo inconveniente, un esperimento per riconquistare l'attenzione di utenti estremamente volubili. Eppure, se la confrontiamo con la strategia produttiva degli open world del colosso francese, è lampante che l'interesse principale non sia quello di far conoscere ai giocatori il destino di Yara e di Anton Castillo, bensì di mantenerli quanto più possibile negli spazi virtuali dell'isola.
Ecco, è questo per me è il problema di Far Cry 6, di Ubisoft, e di una parte sempre più estesa dell'industria: il valore con cui viene misurata la buona riuscita di un prodotto è il tempo che il giocatore spende su di esso. L'obiettivo delle software house è quello di "trattenere" l'utente, più che di intrattenerlo. Farlo stare negli spazi digitali "di sua proprietà" per evitare che finisca in quelli costruiti da altri. Il tempo di gioco diventa indice della fidelizzazione del giocatore, il prodotto si trasforma in un'esperienza "usurpatrice". È chiaro che un'esigenza di questo tipo rischia di polarizzare in maniera desolante l'operazione creativa alla base di un videogame. I prodotti devono diventare sempre più ampi, sempre più densi; le attività devono moltiplicarsi a dismisura e gli sforzi del giocatore devono essere incasellati in una progressione che faccia percepire il senso di crescita e di sviluppo. Un mercato che fa propri solo questi valori non può far altro che puntare sulla proliferazione degli open world e sulla diffusione a macchia d'olio di dinamiche incrementali tipiche dei Giochi di Ruolo, applicate (alle volte forzatamente) a tutte le tipologie di gameplay.
Indicatore chiave di prestazione
Nel gergo tecnico degli analisti e dei responsabili marketing c'è una sigla che viene utilizzata per identificare i dati principali con cui valutare l'efficacia di un'attività: si tratta dei KPI, o Key Performance Indicator (in italiano si traduce con ICP, Indicatore Chiave di Prestazione). L'idea che mi sono fatto negli ultimi tempi è che sempre più publisher considerino le ore spese su un titolo il KPI centrale delle proprie strategie.
"Irretire" i giocatori e "magnetizzare" la loro attenzione permette anche di proporgli con regolarità pacchetti aggiuntivi, boost temporanei, skin estetiche, DLC e season pass, continuando a monetizzare anche dopo il lancio. Stando così le cose è chiaro che l'esperienza di gioco diventi esplicitamente quantitativa, più che qualitativa.
Forse questa deriva è in parte anche legata alle considerazioni che alcune fasce di pubblico hanno sempre fatto sul rapporto fra la durata e il prezzo dei videogame. Una delle domande che si leggono più spesso, negli spazi dei commenti, è "quanto dura? Vale la pena acquistarlo al Day One?". Come se il valore di un gioco debba essere legato a quella che le riviste di un tempo definivano "longevità".
Se c'è un'opposizione che dobbiamo portare avanti, come pubblico e come industria, è proprio nei confronti di questo modo di intendere la produzione di un videogame. Possono (devono!) esserci anche esperienze di questo stampo, ma la speranza è che non diventino le uniche esperienze possibili, a livello creativo, produttivo ed economico. Sul mercato e nelle line-up delle grandi software house devono esserci anche titoli più misurati, di una densità che non sia solo contenutistica. È importante per la diversità, per la qualità dei videogiochi, per la sostenibilità del settore. Se c'è una rivoluzione che dobbiamo sostenere, facciamo che sia questa.
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