Speciale Avventure Grafiche - Prima Puntata: le Origini

Comincia un viaggio alla (ri)scoperta delle avventure grafiche. Gli albori del genere.

Speciale Avventure Grafiche - Prima Puntata: le Origini
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È ormai dalla fine degli anni Novanta che industria dei videogiochi e stampa di settore celebrano i funerali delle avventure punta e clicca; salvo poi, occasionalmente, ricredersi quando qualche brillante titolo riesce a far breccia sul grande pubblico ormai assuefatto dai ritmi adrenalinici dei moderni FPS. Il caso più recente risale al 2012 con il trionfo di The Walking Dead, la cui coraggiosa ricerca di nuove declinazioni che modificassero le meccaniche classiche dell'adventure non rinnegava le radici di provenienza. Nonostante non manchino timidi segnali di rinascita, l’atteggiamento dell’industria mainstream verso questo genere rimane cauto, oscillando tra la diffidenza ed uno sprezzante disinteresse.
Gli anni in cui furoreggiavano le avventure LucasArts e Sierra sono lontani e, dal punto di vista informatico, sembrano essere trascorse ere geologiche. L’avvento delle console 3D e le rinnovate dinamiche di gameplay hanno definito standard ludici inconciliabili con le rigide meccaniche ed i tempi dilatati delle avventure classiche. A poco sono serviti i tentativi di far risorgere questo genere attraverso operazioni d'ibridazione quasi sempre risoltesi in derive action, che finivano per scontentare sia l'audience “consolaro”, sia i nostalgici di Monkey Island e King's Quest, confermando, se mai, il pregiudizio di chi vedeva in questa tipologia ludica un relitto del passato, anacronistico e non sufficientemente profittevole.
Se nonostante la loro travagliata storia, tra morti e improvvise resurrezioni, le avventura grafiche sono oggi vive e vegete è merito soprattutto delle storie che queste hanno saputo regalarci, lasciando un luminoso ricordo nella memoria di chi, con mouse o tastiera, le ha "vissute".
Forse per l'esigenza di evadere dalla propria esistenza e sognare altre vite, l'uomo è sempre stato affascinato dai racconti. Come Sharazad ne Le mille e una notte, l'avventura grafica sopravvivrà finché saprà narrare al suo pubblico storie che possano divertire, commuovere o spaventare e che, soprattutto, sappiano parlare di ciò che è al cuore d'ogni racconto: l'uomo, con i suoi desideri e le sue paure.
Prima di qualsiasi altro genere, l'avventura grafica ha intuito la vocazione del videogioco alla narrazione. Potremmo addirittura azzardare l'affermazione che, come per nessun'altra categoria ludica, un'avventura grafica è anzitutto la storia che narra. Tra puzzle e racconto esiste però il medesimo rapporto - valido per ogni opera narrativa - che si stabilisce tra contenuto e forma: l'uno dà corpo all'altro e viceversa; dalla loro organica integrazione scaturisce il grado di coinvolgimento del giocatore negli eventi narrati. Una perfetta alchimia tra i due ingredienti che stanno alla base d'ogni avventura grafica è pero assai rara. Spesso, più che un viatico al dipanarsi del plot, le meccaniche legate ai rompicapo si manifestano come rallentamenti che segmentano l'intreccio ed ostacolano il naturale flusso del racconto.
Nella sua lunga evoluzione, il genere delle avventure grafiche ha avuto modo di attraversare gran parte dei traguardi raggiunti della tecnologia informatica, beneficiandone a vari livelli; primo fra tutti quello visivo, passando dalla pixel art agli sfondi prerenderizzati, dal full motion video al real time 3D.
Questo speciale a tema "avventure grafiche" vuole essere un punto di partenza per una ricognizione sulla lunga storia di questo glorioso genere: dalle sue lontane origini, che affondano le radici all'epoca degli home computer, sino alle attuali declinazioni. Cercheremo di descrivere, senza pretese d'esaustività, cosa questo genere sia stato, cosa è ed anche ciò che potrebbe verosimilmente divenire, inseguendo le complesse e sfuggenti forme già oggi delineate dai più avanguardistici "esperimenti" che si susseguono in questo, ancora fecondo, ambito ludico.

Le origini del genere

Ai primordi del genere, le avventure avevano ben poco di "grafico" e, per l'appunto, si definivano "testuali". Avevano un'interfaccia a linea di comando dove brevi descrizioni dovevano - come in un'opera letteraria - evocare interi mondi, usciti dallo schermo nero attraverso l'immaginazione del lettore-giocatore. Le interazioni avvenivano per mezzo del "parser", ovvero un algoritmo che permetteva il riconoscimento degli input testuali digitati da tastiera. I comandi consistevano in brevi frasi formate soltanto da verbo e sostantivo ("open door", "use key", "go north"). Spesso questa interfaccia costringeva ad una vera e propria lotta per individuare, passando attraverso estenuanti processi di "trial and error", l'esatto input richiesto dal gioco. D'altra parte, però, questa complessità (oggi difficilmente sostenibile anche per i giocatori più hardcore) rendeva possibile una libertà d'approccio agli enigmi ed alla loro risoluzione incomparabile a quella offerta dalle più moderne avventure punta e clicca.
Se Colossal Cave Adventure, creato da William Crowther nel 1976, è solitamente indicato come il prototipo d'ogni avventura testuale, il primo titolo di questo genere a conoscere una qualche forma di distribuzione commerciale fu Adventureland di Scott Adams, uscito nel 1979 per gli home computer dell'epoca. Il merito d'una più larga diffusione delle avventure testuali va però attribuito alla serie Zork che, con la prima trilogia, uscita tra il 1980 ed il 1982, stabiliva nuovi standard per il genere con uno sviluppo narrativo che, sebbene ancora elementare, tentava d'andare oltre la descrizione d'una banale caccia al tesoro (unico obiettivo fornito al giocatore dal titolo di Scott Adams).
I quatto autori della prima trilogia (Tim Anderson, Marc Blank, Bruce Daniels, e Dave Lebling) introdussero, inoltre, un'interfaccia che superasse la semplificata sintassi nominale (verbo + sostantivo), consentendoci di formulare frasi moderatamente più articolate (come: "Kill troll with sword"), riuscendo a riconoscere anche articoli, preposizioni e congiunzioni.

Mystery House
Vero e proprio anello di raccordo tra le avventure testuali e quelle propriamente "grafiche" è Mystery House con cui, nel 1980, Roberta Williams esordì nel mondo dei videogiochi con la On-Line Systems, rinominata, nel 1982, Sierra On-Line. Con una storia ambientata in una villa vittoriana, a metà tra Dieci piccoli indiani ed il Cluedo, la futura autrice della saga di King's Quest sostituì le descrizioni testuali con una rappresentazione "grafica" che rendesse finalmente visibile il mondo di gioco grazie a dei semplici disegni da lei stessa creati.
Nella locuzione "avventura grafica" la specificazione dell'aggettivo rispetto al sostantivo non si riferisce solo al tipo di rappresentazione ma anche alla sua interfaccia. Le interazioni gestite ancora attraverso parser rendono del tutto inappropriato indicare Mystery House come il primo rappresentante di un più moderno genere, rimanendo a cavallo tra "vecchio" e "nuovo". Un deciso passo in avanti è quello compiuto nel 1984 con il primo episodio di King's Quest con il quale Roberta Williams, pur senza rinunciare ad un'interfaccia di tipo testuale, introduceva una visuale in terza persona arricchendo il mondo di gioco con una grafica incomparabilmente ricca e colorata rispetto al suo titolo precedente. Sfruttando al meglio la potenza di calcolo degli Apple II, per la prima volta gli input determinati dalle nostre interazioni avevano una risposta visiva: il personaggio si muoveva all'interno delle locazioni ed interagiva con esse in maniera finalmente non "astratta".
Per una vera interfaccia punta e clicca dovremo però aspettare l'arrivo degli Apple Macintosh che, con il loro paradigmatico sistema WIMP (acronimo che sta per: window, icon, mouse e pointer) rendevano possibile un'interazione più agile ed immediata, senza dover digitare linee di comando testuali. Nascevano così titoli come Enchanted Scepters (1984, dei Silicon Beach Software) dove sulla parte destra dello schermo permaneva la classica descrizione testuale dell'ambiente in cui ci trovavamo, mentre a sinistra avevamo a disposizione una rappresentazione grafica dello stesso, su cui potevamo cliccare con il mouse al fine d'interagire (aprire porte, raccogliere oggetti e così via).

Déjà Vu
L'anno seguente, MacVenture produrrà Déjà Vu (1985) che migliorava l'impostazione grafica del titolo dei Silicon Beach Software aggiungendo gli stessi comandi ("examine", "open", "close", "speak", "operate", "go", "hit") presenti, più tardi, in quei classici Lucas e Sierra che domineranno la scena delle avventure grafiche per tutto il decennio successivo.

Verso l'affermazione, in cerca di un'identità

L'esordio della LucasFilm Games (verrà ribattezzata LucasArts solo nel 1990) nel campo delle avventure grafiche avviene solo nel 1986 con il tie-in del film diretto da Jim Henson e prodotto dallo stesso George Lucas, Labyrinth. Si tratta, in realtà, di un ibrido con molti elementi arcade. L'interfaccia, sebbene non ancora punta e clicca, era un compromesso tra le vecchie avventure testuali e i titoli MacVenture: invece di digitare i comandi da tastiera era possibile selezionare, da due appositi scroll, un verbo ed un sostantivo con i quali veniva a riprodursi la stessa sintassi che caratterizzava l'interfaccia parser dei primi titoli della serie Zork.

Maniac Mansion
Per la realizzazione del titolo successivo, il celebre Maniac Mansion (1987), gli sviluppatori appronteranno il celebre linguaggio di scripting denominato Scumm (che sta per "Script Creation Utility for Maniac Mansion"). Il primo titolo del grande game designer Ron Gilbert è senza dubbio una delle avventure grafiche che hanno maggiormente condizionato lo sviluppo del genere anche se, alla luce dei lavori della MacVenture, il suo peso andrebbe, almeno in parte, ridimensionato.
L'interfaccia punta e clicca, divisa tra azioni ed oggetti da combinare ed usare (che, nei titoli Lucas, ritroveremo, con poche varianti, almeno sino a metà degli anni novanta), per quanto più gradevole e funzionale, è infatti chiaramente ispirata a quanto già visto, due anni prima, in Déjà Vu. Il merito di Ron Gilbert è piuttosto quello di aver saputo coniugare differenti suggestioni (non solo l'interfaccia dei giochi MacVenture ma anche l’impostazione in terza persona della saga di King's Quest), combinandole in una perfetta alchimia che diverrà modello imprescindibile per i titoli che seguiranno, scalzando la Sierra dalla sua posizione, sino a quel momento, d’incontrastato dominio nell’ambito degli adventure.
La componente narrativa si sviluppa nelle forme d'una demenziale sit-com. L'introduzione di vere e proprie cutscene (per quanto brevi) è un'innovazione di straordinaria importanza per coinvolgere l'utente nelle vicende narrate. Purtroppo, però, lo sviluppo dell'intreccio è ancora sin troppo rattrappito perché possa suscitare un vero interesse nei giocatori, così come debole rimane la caratterizzazione dei personaggi. Il game design del gioco si riallaccia a quella concezione non lineare che era propria delle vecchie avventure testuali. Dandoci la possibilità, ad inizio gioco, di poter scegliere 2 comprimari (tra sei disponibili) affinché accompagnassero il protagonista nel dipanarsi dell'avventura, il titolo si prestava ad una forte rigiocabilità, grazie alle molteplici soluzioni offerte da una progettazione degli enigmi legata alle caratteristiche dei nostri compagni (una soluzione di game design che Gilbert riproporrà nel suo recente The Cave). Da non sottovalutare anche i grossi passi avanti compiuti in campo grafico. La potenza dei Commodore 64 permetteva uno scrolling orizzontale che emulava il movimento, propriamente filmico, delle carrellate laterali. Inoltre, la presenza di oggetti in primo piano, che coprivano i personaggi e lo sfondo, donavano alle inquadrature un pregevole senso di profondità.

Zak McKracken
Appena l'anno successivo sarebbe uscito Zak McKracken and the Alien Mindbenders (1988). Sebbene non avesse la medesima carica innovativa di Maniac Mansion si trattava di un'avventura di più ampio respiro rispetto alla precedente e che prestava maggiore cura agli aspetti narrativi. Il titolo realizzato da David Fox (ma anche qui troviamo lo zampino di Gilbert) tenta di offrire una sorta di satira della moderna società dei consumi (anche gli sciamani non disdegnano pagamenti attraverso carte di credito VISA) nella quale la stupidità sembra dilagare come un virus che passa attraverso le linee telefoniche.

King's Quest IV
Nel frattempo la Sierra, eterna rivale della Lucas, si ostinava ancora nell'utilizzo dell'interfaccia parser. Dopo aver già inaugurato numerose serie di successo - Police Quest, Space Quest, Leisure Suit Larry -, con il quarto episodio di King's Quest (1988) Sierra introduceva il suo nuovo linguaggio di scripting denominato SCI (che andrà pian piano sostituendo il vecchio AGI) e con esso il supporto per il mouse e le sound card; ciò nonostante i comandi dovevano ancora essere digitati da tastiera.

Manhunter: New York
Il primo titolo Sierra a sfruttare un'interfaccia totalmente punta e clicca (sebbene un po' rudimentale e basata ancora sul vecchio AGI) è stato Manhunter: New York (1989), un'avventura in prima persona ambientata in un futuro cupo e violento che si discostava dalle tradizionali atmosfere fantasy (o comunque piuttosto "leggere") della produzione Sierra. Il gioco risultava estremamente frustrante per via di pessime sequenze arcade ed enigmi decisamente poco chiari. Per avere la prima avventura punta e clicca in terza persona della casa fondata da Ken e Roberta Williams dovremo aspettare il 1990 con la pubblicazione di King's Quest V che implementava (altra caratteristica nuova per la serie) una splendida grafica in VGA.

Indiana Jones and the Last Crusade
Intanto la Lucas rispondeva con Indiana Jones and the Last Crusade (1989), rivolgendosi ai soli sistemi a 16 bit. Questo tie-in del film diretto da Spielberg è indubbiamente uno dei titoli che mostra maggiore coraggio, da parte degli sviluppatori Lucas, nello sperimentare innovative soluzioni di gameplay. Il gioco offre una vasta gamma di possibilità alternative nella soluzione degli enigmi. Sono inoltre presenti molte sequenze arcade e persino una sessione "stealth" all'interno del castello di Brunwald. David Fox e Ron Gilbert diedero vita ad un game design articolatissimo, architettando una struttura reticolare nella quale era possibile assistere a segmenti narrativi differenti a seconda dei nostri approcci agli enigmi e delle scelte intraprese. Probabilmente, però, la novità di maggiore peso fu l'implementazione del comando "parla" (esisteva già nelle avventure Sierra, ma solo attraverso comando testuale) che introduceva enigmi basati su dialoghi a scelta multipla. Purtroppo, nonostante questa importante introduzione - gravida di conseguenze e sviluppi per le futura produzione Lucas - la scrittura era alquanto scialba e l'intreccio si dipanava pigramente con moltissimi passaggi opachi.

Loom
Seguirà, l'anno dopo, uno dei pochissimi flop della LucasFilm Games, ovvero Loom di Brian Moriarty. Il gioco ha un'ambientazione fantasy che si distacca nettamente dal resto della produzione della software house californiana, caratterizzandosi soprattutto per la sua bizzarra interfaccia. Il gioco non prevedeva inventario ed ogni interazione avveniva componendo melodie generate dalla combinazione di sole quattro note. Gli enigmi erano piuttosto semplici per gli standard dell'epoca e la durata dell'avventura non particolarmente estesa. L'avventura creata da Moriarty abbandonava totalmente la libertà offerta dai titoli precedenti per abbracciare una linearità funzionale alla narrazione. La presenza, per la prima volta, di veri e propri "primi piani" manifestava la volontà, da parte dell'autore, di richiamare una grammatica visiva di chiara ascendenza filmica. Paradossalmente è nella qualità del racconto che Loom denota le sue maggiori carenze, soprattutto a causa del mancato accordo tra il registro epico e quello comico-demenziale.
Nel 1989 Ron Gilbert, con una lucidità rara nel mondo dei videogiochi, scriveva quello che potremmo definire un vero e proprio manifesto programmatico che espone, in dodici punti, la concezioni estetiche del grande game designer in relazione al genere delle avventure grafiche. In questo testo, intitolato "Perché gli adventure fanno schifo", Gilbert individuava nella narrazione un elemento essenziale al fine di rendere le avventure grafiche più coinvolgenti per un vasto pubblico e, pur tenendo a ribadire l'intrinseca specificità del videogioco come mezzo interattivo in contrapposizione alla "passività" a cui il linguaggio cinematografico relega lo spettatore, non esitava a sottolineare la vicinanza tra i due media nella comune vocazione al racconto. Per questo motivo egli insisterà sulla necessità, da parte del game designer, di costruire enigmi che contribuissero allo sviluppo dell'intreccio piuttosto che bloccarlo, vanificando la sospensione dell'incredulità.

The Secret of Monkey Island
É con tali premesse che nel 1990 nasce quella pietra miliare nella storia dell'intrattenimento elettronico che è The Secret of Monkey Island. Con questo titolo Ron Gilbert, aiutato da due talentuosi sceneggiatori come Tim Schafer e Dave Grossman, riesce lì dove Moriarty aveva fallito, ovvero nel creare un'esperienza narrativa smaccatamente cinematografica. L'autore di Maniac Mansion intuì che incanalare la libertà concessa al giocatore all'interno di binari ben definiti fosse necessario al fine di costruire una narrazione coerente e dal ritmo serrato, coniugando così interattività ed esigenze autoriali. L'importanza di The Secret of Monkey Island all'interno della storia dei videogame è dunque principalmente legata al determinarsi di un importante mutamento nel ruolo del game designer che, mai come in questo titolo, da giocattolaio si trasformava in regista e cosciente artefice d'una precisa rappresentazione.
Il gioco eliminava ogni possibilità d'imbattersi in "game over" e vicoli ciechi per scongiurare il rischio di un'interruzione brusca e "innaturale" del flusso del racconto. Nel loro demenziale nonsense, gli enigmi, mai troppo complessi, manifestavano - con spiccata inclinazione goliardica per le trovate metaludiche - il tentativo di rendere scoperta l'assurdità sottesa ai meccanismi propri delle avventure grafiche. I perfetti dialoghi, magistralmente scritti da Schafer e Grossman, insieme ad un cast d'indimenticabili personaggi, contribuivano a confezionare un capolavoro senza tempo che inaugura l'epoca d'oro degli adventure.