Speciale Avventure Grafiche - Seconda Puntata: l'Età dell'Oro

Gli anni '90: la "guerra" fra Lucas e Sierra

Speciale Avventure Grafiche - Seconda Puntata: l'Età dell'Oro
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Buona parte della storia delle avventure grafiche può essere riassunta nella rivalità tra Sierra e LucasArts. La prima si è soprattutto distinta per il coraggio nell'esplorare ogni nuova tecnologia (VGA a 256 colori, il CD-ROM, il full motion video ed il 3D) al fine di costruire esperienze ludiche capaci di coniugare tradizione e sperimentazione. Meno prolifica della sua rivale, la LucasArts ha sempre confezionato le sue avventure con estrema cura, privilegiando, all'innovazione tecnica, la scrittura comica e l'invenzione di personaggi entrati nell'immaginario di qualsiasi giocatore di vecchia data.
Dopo il grande successo di The Secret of Monkey Island l'avventura grafica si era ormai affermata come uno dei generi di maggior successo presso il grande pubblico. I grossi passi in avanti compiuti dall'hardware (l'arrivo dell'Amiga e, qualche anno dopo, dei nuovi processori Intel 486) avevano reso possibile creare lussureggianti sfondi disegnati a mano e animazioni sempre più fluide. Lo scontro tra le due software house californiane non si è giocato unicamente sotto il profilo tecnologico ma anche su quello narrativo e se da un lato la Lucas poteva contare su brillanti sceneggiatori come Gilbert, Schafer e Grossman, dall'altro, la Sierra vantava, all'interno del suo team, una scrittrice raffinata come Jane Jensen.
Tra trovate demenziali ed infernali discese negli orrori del vodoo, attraverso universi fantasy e galassie lontanissime, la vasta produzione di questi due pilastri dell'industria videoludica ha impresso una traccia indelebile negli anni Novanta, lasciandoci il rimpianto d'un epoca irripetibile in cui le avventure grafiche hanno brillato di luce intensa. Un bagliore pian piano affievolitosi ma ancora vivo nelle nostre memorie videoludiche e nei molti eredi d'un genere che, come un'araba fenice, sembra sempre risorge proprio quando lo si è dato per spacciato.

La grande stagione Lucas e Sierra all'inizio degli anni Novanta

The Secret of Monkey Island 2 - LeChuck's Revenge
Ad un solo anno di distanza dal primo episodio, Gilbert, Tim Schafer e Dave Grossman tornarono a lavoro per realizzare il seguito di The Secret of Monkey Island: The Secret of Monkey Island 2 - LeChuck's Revenge (1991), perfezionando il progetto originario di un gioco a forte vocazione narrativa nel quale la linearità del gameplay fosse finalizzata a veicolare un racconto avvincente e coeso. Il gioco implementava due livelli di difficoltà: facile e difficile. In quest'ultima modalità Gilbert sembrava voler rispondere a coloro che avevano trovato eccessivamente semplice il precedente capitolo, architettando enigmi stimolanti e riccamente articolati. Ancor meglio rispetto al titolo del 1990, il team di sceneggiatori riuscì brillantemente a fondere registri differenti: comico e grottesco, gotico e demenziale in una commistione di toni che teneva sempre vivo il coinvolgimento, culminando in un memorabile finale che ribaltava totalmente il punto di vista sulle vicende di Guybrush Threepwood. Graficamente il gioco beneficiava del passaggio ai 256 colori della VGA (standard che la Sierra aveva imposto già con il suo King's Quest V), mentre gli splendidi temi musicali della serie potevano per la prima volta avvantaggiarsi dell'iMUSE (interactive music and sound effects), un sistema che permetteva ai brani midi di adattarsi dinamicamente alle azioni del giocatore.

King's Quest VI
La Sierra rispondeva al capolavoro Lucas con il divertente Space Quest IV: Roger Wilco and the Time Rippers (in parte minato da scelte di design che rendevano il gioco troppo spesso frustrante) e, soprattutto, con King's Quest VI (1992). Quest'ultimo rappresenta probabilmente il miglior risultato raggiunto dalla Sierra nel periodo che precede Gabriel Knight. Merito soprattutto della scrittura di Jane Jensen (aveva esordito appena l'anno prima con EcoQuest) che alla cura per la costruzione dei puzzle (estremamente complessi, come da tradizione Sierra) coniugava un'attenzione per il racconto del tutto nuova per la serie. A seconda delle scelte intraprese dal giocatore, l'intero arco narrativo (enigmi compresi) poteva mutare. Ogni ramificazione dello sviluppo narrativo confluiva, però, in un unico finale. La consueta propensione della Sierra a sperimentare con le più moderne tecnologie - che ha sempre distinto questa software house dalla più tradizionalista Lucas - si manifestava nelle animazioni, per l'epoca, particolarmente "naturali", ottenute attraverso la tecnica del "rotoscoping" (la riproduzione di disegni animati sulla base di scene girate "dal vivo").

Indiana Jones and the Fate of Atlantis
Uno dei progetti più ambiziosi intrapresi della LucasArts fu, senza dubbio, Indiana Jones and the Fate of Atlantis (1992). Libero da complessi d'inferiorità, il videogioco sfidava il cinema sul terreno del "fratello maggiore" e, appropriandosi d'un personaggio nato all'interno della dimensione filmica, non riadattava uno script pensato per il grande schermo (com'era accaduto con Indiana Jones and the Last Crusade) ma ne inventava uno del tutto originale scritto da Hal Barwood, autore d'importanti sceneggiature come quella (magnifica) per Sugarland Express (scritta a quattro mani con Matthew Robbins). Con grande lungimiranza, la software house di George Lucas sceglieva d'affiancare a Barwood un game designer di comprovata esperienza come Noah Falstein (che si era già occupato di Indiana Jones and the Last Crusade). Il risultato fu un gioco che riusciva a coniugare la struttura non lineare di "Indy 3" alla compattezza narrativa della serie di Monkey Island, mettendo da parte la comicità demenziale e abbracciando, invece, un registro decisamente più epico (in linea con il personaggio dell'intrepido archeologo). Indiana Jones and the Fate of Atlantis era un autentico capolavoro di game design in cui, nonostante i molteplici bivi narrativi determinati da una complessa struttura reticolare, il racconto manteneva sempre coerenza ed efficacia. L'altissima rigiocabilità del titolo era assicurata dalla possibilità d'affrontare il gioco in moltissimi modi diversi (da soli o insieme a Sophia, la controparte femminile; attraverso un approccio "ragionato" o arcade). Era impossibile godere di tutte le possibilità offerte dal mirabile lavoro dei due game designer in un unica esperienza di gioco. Ogni scelta generava bivi che alteravano lo sviluppo narrativo con differenti locazioni e situazioni determinate dal nostro approccio al gioco (da questo punto di vista David Cage non ha inventato nulla che non fosse già stato fatto decenni prima).

1993: una grande annata

Il 1993 è un anno estremamente importante per le avventure grafiche. L'affermazione dei CD-ROM apriva nuove strade e nuove possibilità al genere degli adventure. La notevole capacità di questi supporti rendeva finalmente possibile l'inserimento d'una mole di contenuti multimediali - tra cui lunghe cutscene ed il doppiaggio audio - inimmaginabile con la vecchia tecnologia dei floppy disk. É proprio nel 1993 che uscirono titoli come Myst e The 7th Guest (di cui parleremo in seguito) i quali contribuirono in maniera significativa alla diffusione dei LaserDisc. Nello stesso anno Lucasarts pubblicò Day of the Tentacle e Sam & Max Hit the Road, mentre la Sierra ci regalava Gabriel Knight: Sins of the Fathers (oltre ai meno interessanti Leisure Suit Larry 6: Shape Up or Slip Out, Quest for Glory IV: Shadows of Darkness e Space Quest V: Roger Wilco in the Next Mutation).

Day of the Tentacle
Day of the Tentacle seguiva le vicende ed i personaggi nati nel 1987 con Maniac Mansion ma a capo del progetto non c'era più Ron Gilbert ma Dave Grossman e Tim Schafer. Ritrovavamo vecchie conoscenze (come il Dr. Fred, i due tentacoli ed il nerd Bernard) insieme ad altri due nuovi personaggi: Laverne (studentessa di biologia) e Hoagie (un metallaro con qualche chilo di troppo). Pur trattandosi di semplici "maschere", queste "caricature" apparivano ben assortite e sufficientemente fuori di testa da risultare immediatamente simpatiche. La vicenda, mettendo da parte le unità aristoteliche che caratterizzavano il primo episodio, era una spassosa variazione sul tema dei viaggi nel tempo, declinata secondo il tipico gusto per il nonsense demenziale proprio dei suoi due autori. Questo espediente narrativo era il pretesto per congegnare stimolanti enigmi che implicassero una coordinazione sinergica delle azioni dei tre amici catapultati in epoche storiche differenti: Bernard nel presente, Laverne in un futuro minacciato dal crudele tentacolo viola e Hoagie nel 1776, quando i padri fondatori si riunirono per scrivere la costituzione degli Stati Uniti. Il giocatore poteva controllare il trio semplicemente switchando tra un personaggio all'altro - tra passato, presente e futuro - modificando la storia per risolvere ingegnosi puzzle. Day of the Tentacle era una valanga d'esilaranti gag che si sviluppavano attraverso la risoluzione degli enigmi: un perfetto meccanismo comico nel quale gameplay e narrazione (per quanto esile) erano perfettamente integrati.

Sam & Max: Hit The Road
Ancor più di Day of the Tentacle, Sam & Max Hit the Road era concepito dai suoi quattro ideatori (Sean Clark, Michael Stemmle, Steve Purcell e Collette Michaud) come un vero e proprio cartoon interattivo. Per evitare ogni elemento che potesse distrarre l'utente e rompere l'illusione di trovarsi di fronte ad un film d'animazione venne eliminata la classica interfaccia con i verbi, sostituita da un inventario a scomparsa e da un cursore che cambiava modalità d'interazione schiacciando il pulsante destro del mouse. Il gioco era un folle viaggio in una squinternata America di provincia che ricalcava tutti gli stereotipi del poliziesco alla Chandler e li ribaltava in senso parodico e surreale. Gli enigmi seguivano una logica del tutto autoreferenziale che, lontana dalla categoria della verosimiglianza, si avvicinava a quella dell'assurdo. Le situazioni si sviluppavano sempre all'insegna di un nonsense delirante in cui, con ostentata disinvoltura, si muoveva la coppia più pazza della storia dei videogame: Sam, un cane detective, e Max, un coniglio psicolabile con tendenze sadomasochistiche. Privo di quell'equilibrio tra gag e sapiente pianificazione degli enigmi che caratterizzava Day of the Tentacle, se Sam & Max Hit the Road ha saputo ritagliarsi un posto importante tra i classici Lucas è stato soprattutto grazie ai suoi due indimenticabili protagonisti.

Gabriel Knight: Sins of the Fathers
Con Gabriel Knight: Sins of the Fathers la Sierra realizzava una delle più importanti avventure grafiche di tutti i tempi. Jane Jensen ci raccontava una cupa storia di omicidi e riti vodoo ambientata nella suggestiva cornice di New Orleans, immersa in un'atmosfera sinistra, carica di fascino e sensualità così come di violenza e brutalità. Il protagonista era un romanziere di scarso talento con un'innata tendenza a prendere ogni cosa con leggerezza e una buona dose di spacconeria. Il viaggio da lui intrapreso si sarebbe però trasformato presto in un percorso di maturazione che lo avrebbe costretto ad assumere su di sé gravose responsabilità. Del tutto opposto il carattere di Grace, la giovane donna che gestiva la libreria del protagonista. Estremamente meticolosa sino alla pedanteria, la coprotagonista femminile non vedeva di buon occhio la "leggerezza" un po' superficiale di Gabriel e le ironiche frecciatine che lanciava al suo datore di lavoro lasciavano spesso il segno. Questi due personaggi, pur non spiccando per una caratterizzazione sorprendentemente profonda, riuscivano comunque a risultare sempre credibili e dotati di un'"umanità" che scongiurava il rischio "macchietta". La capacità della Jensen di rielaborare antiche leggende e tematiche soprannaturali mescolandole a riferimenti storici accuratamente documentati rappresenta una costante della sua produzione che contribuisce ad accrescere il fascino di solide costruzioni narrative. L'influenza della saga di Gabriel Knight nella storia dei videogiochi è vastissima. L'attitudine dell'autrice ad infondere ai suoi racconti una pregnante atmosfera di mistero, la meticolosa ricerca di fonti storiche insieme alla sapiente orchestrazione d'una verosimile indagine nel mondo delle ombre costituiscono elementi che saranno d'ispirazione per una folta schiera d'epigoni (uno dei più recenti è certamente la trilogia di Black Mirror).

Nuovi orizzonti tecnologici per le avventure grafiche

King's Quest VII
Grazie al CD-ROM, ormai impostosi come imprescindibile standard, le avventure grafiche - comprese quelle che evitano di proporsi esplicitamente come "film interattivi" - non mancarono d'approfittare delle opportunità multimediali offerte dal supporto dei LaserDisc per approssimarsi sempre più al cartoon animato. La Sierra tentava la strada dell'estetica disneyana adottando l'alta definizione (erano i tempi in cui 640x480 significava HD) in King's Quest VII (1994): una fiaba interattiva che non rinunciava alla libertà del gameplay e ai puzzle a soluzione multipla, da sempre cavalli di battaglia della serie.

Full Throttle
Per la Lucasarts, invece, Tim Schafer realizzava con Full Throttle (1995) un vero e proprio "film" d'animazione in cui la narrazione e l'azione "arcade" prendevano, a tratti, il sopravvento su enigmi ed interattività. Tra tutti i game designer di casa Lucas, il futuro autore di Grim Fandango e Psychonauts è stato colui che ha meglio colto l'eredità di Ron Gilbert, portandola alle estreme conseguenze. Per Schafer il gameplay è sempre finalizzato al racconto, così come gli enigmi non hanno mai l'intento di mettere il giocatore in difficoltà quanto, piuttosto, quella di sviluppare l'intreccio. Full Throttle è uno dei primi frutti (acerbi ma preziosi) di una concezione del videogioco che mira ad una visione autoriale più che al divertimento fine a sé stesso; osteggiato dai puristi della "vecchia scuola" che rimasero inorriditi di fronte alle numerose sequenze arcade, alla rigida linearità della struttura e alla semplicità dei puzzle.
Sin dalla strepitosa introduzione animata, s'intuiva chiaramente che la prima preoccupazione di Schafer fosse quella di raccontare una storia e, per raggiungere tale obiettivo, si appropriò di tutti gli espedienti propri del linguaggio filmico, resi possibili dall'efficacissima fusione tra animazione bidimensionale e 3D (ovviamente rigorosamente prerenderizzato): panoramiche, campi lunghi e primi piani, decoupage serrato e carrellate veloci in profondità, inseguendo i bolidi di metallo nella loro folle corsa lungo le "strade perdute" d'America. Ben, il protagonista, è uno degli ultimi centauri rimasti fedeli alla ruvida etica della strada, a quell'inebriante desiderio di libertà che è parte fondante del mito americano e dell'epopea della "frontiera". Infarcito di rimandi al cinema Western, Ben, come John Wayne in L'uomo che uccise Liberty Valance non si arrendeva al progresso ed ai tempi che cambiano (tratti che ritorneranno nella caratterizzazione di Eddie Riggs in Brutal Legend), mantenendo una propria testarda purezza.

The Dig
Nel 1995 vede la luce anche The Dig, una delle produzioni più travagliate della storia della LucasArts. Il progetto era partito nel lontano 1989 da un'idea di Steven Spielberg. Dopo essere passato attraverso le mani di ben 3 game designer (Noah Falstein, Brian Moriarty e Dave Grossman) è solo con Sean Clark che il titolo approderà finalmente sugli scaffali dei negozi. Il problema, come in seguito dichiarò lo stesso Clark, era essenzialmente di natura "culturale", ovvero la Lucas non aveva mai realizzato un'avventura dai temi drammatici e dalle tonalità riflessive che omaggiavano la fantascienza "matura" degli anni '60 e '70. Sebbene fosse dotato d'un impianto grafico meno appariscente del titolo di Schafer, la coerenza estetica con cui è stato immaginato il misterioso pianeta Cocytus rendono ancora oggi The Dig uno dei titoli Lucas visivamente più affascinanti (nonostante girasse ancora ad una definizione di 320x200). Merito anche delle splendide animazioni in 3D precalcolato (molte delle quali realizzate dall'Industrial Light & Magic) che s'integravano alla perfezione nei lussureggianti paesaggi disegnati a mano. L'influenza di Myst nelle meccaniche di gioco era evidente. Come nel campione d'incassi della Cyan, il giocatore era innanzi tutto chiamato ad esplorare un mondo alieno abbandonato che portava ancora i segni di un'antica civiltà ormai scomparsa ed a comprenderne i misteri e le tecnologie. Gli enigmi rifiutavano dunque la logica demenziale tipica dei titoli Lucas e si avvicinavano molto al rompicapo logico la cui risoluzione consentiva l'attivazione di complessi macchinari. La sceneggiatura, sebbene ben scritta, scricchiolava un po' sotto il peso delle sue ambizioni. Le riflessioni sulla fragilità della vita di fronte all'immensità del cosmo e sulla necessaria finitezza d'ogni esistenza non erano mai adeguatamente sviluppate, risolvendosi in maniera semplicistica. Ma la grandezza di The Dig stava soprattutto nelle sue avvolgenti atmosfere - alle quali le strepitose musiche di Michael Land davano un impagabile contributo - e nel senso di meraviglia suscitato dai suggestivi scorci di Cocytus attraverso i quali si riverberava, malinconica, l'eco d'una civiltà che, nel desiderio di preservare la vita al di là del tempo e dello spazio, aveva smarrito il senso del limite e l'importanza di vivere il presente come individui finiti e mortali.

In questi anni la Sierra appare sempre più interessata ad esplorare nuove forme d'intrattenimento interattivo e pur non rinnegando mai totalmente la tradizionale formula dell'avventura punta e clicca ne prenderà progressivamente le distanze. La LucasArts, invece, non seguirà mai la sua avversaria sugli impervi territori del "film interattivo" (in quegli anni inteso come una successione di lunghi filmati realizzati con la tecnologia del full motion video). Non che la LucasArts fosse insensibile a questo tipo di tecnologia; essa stessa la utilizzò, infatti, per action game e sparatutto legati al franchise di Star Wars come i due Rebel Assault e Jedi Knight: Dark Forces II (con ogni probabilità si trattava di tentativi di creare un immediato "appeal" cinematografico che facesse di questi giochi delle dirette prosecuzioni dei film della saga).

The Curse of Monkey Island
Per quel che invece riguarda le avventure grafiche, LucasArts non cercò mai il realismo del filmato in "live action", preferendo la stilizzazione cartoonesca. Ne è ulteriore prova il terzo capitolo di Monkey Island, ovvero: The Curse of Monkey Island (1997). La saga, ormai orfana di Ron Gilbert - che aveva abbandonato la Lucas nel 1992 per mettersi in proprio - passa nelle mani di Jonathan Ackley e Larry Ahern i quali svolsero un compitino corretto e sufficientemente divertente ma lontano dalla grandezza dei due capitoli precedenti. Alla sapiente commistione tra esilarante nonsense e gusto gotico viene sostituita una comicità "normalizzata", ripulita dagli eccessi (splendidamente) demenziali dei primi due episodi. Più che ai lavori di Gilbert, The Curse of Monkey Island assomigliava ad un innocuo prodotto disneyano e gli splendidi disegni di Bill Tiller, il cui stile morbido e vivace sembrava ricalcare le illustrazioni di un raffinato libro di fiabe, rafforzavano tale impressione. Sul piano del gameplay, invece, il gioco si dimostrava degno dei suoi precursori, con una difficoltà ben calibrata - venne reinserita la possibilità di scegliere tra un livello "facile" o "normale" -, locazioni ampie ed enigmi sempre stimolanti.

L'ultima grande avventura LucasArts

Grim Fandango
Grim Fandango, uscito nel 1998, pur non rappresentando, come molti sostengono, il canto del cigno dell'intera categoria degli adventure, lo è stato certamente per la storia della LucasArts come software house che aveva sin qui legato il proprio marchio alla qualità delle sue avventure grafiche. Un timido ritorno al genere che aveva reso famosa la gloriosa compagnia californiana avverrà nel 2000 con Fuga da Monkey Island: un tentativo largamente dimenticabile di rilanciare la serie ideata da Gilbert.
Il titolo creato da Tim Schafer abbandonava totalmente l'interfaccia punta e clicca e abbracciava il 3D. I personaggi erano modelli poligonali che si guidavano solo tramite tastiera in ambienti prerenderizzati. L'angolazione fissa cambiava, con effetto fortemente cinematografico, non appena ci spostavamo ai margini dell'inquadratura (come avveniva in Alone in the Dark). L'inventario veniva semplificato ed era lo sguardo di Manny, il protagonista, a guidarci verso gli hotspot. Cadendo il filtro dell'interfaccia - che si faceva "invisibile" -, l'interazione diventava assai più naturale (anche se non necessariamente più comoda), favorendo il processo d'immedesimazione nei panni del nostro alter ego. Il racconto attingeva a piene mani da capolavori del cinema anni '40: Casablanca innanzi tutto, ma anche La fiamma del peccato. L'umore che si respirava era decisamente "noir", sia nelle atmosfere che nei dialoghi da manuale: secchi ed efficaci. La qualità della scrittura di Tim Schafer era - già allora - altissima e la sceneggiatura riusciva a sfumare con disinvoltura dai toni comici a quelli malinconici, dalla drammaticità alla leggerezza. All'indimenticabile galleria di personaggi, tratteggiati con ammirevole arguzia ed umanità, si affiancava il ritratto d'un protagonista dal passato non privo d'ombre che decideva di cogliere l'occasione per fare "la cosa giusta" e riscattarsi, almeno in parte, dalle sue colpe.
Il gioco era arricchito da un impianto grafico folgorante non tanto per tecnica quanto per stile, accumulando suggestioni che andavano dal folclore messicano all'art decò, dalla pop art all'iconografia azteca. Tra trovate geniali, colpi di scena e situazioni spassose, Tim Schafer suggella quel capolavoro narrativo a cui Ron Gilbert ambiva sin dai tempi del primo Monkey Island, chiudendo nel migliore dei modi la "stagione d'oro" delle avventure grafiche. La pubblicazione di Grim Fandango non venne immediatamente salutata dal successo e, nonostante negli anni successivi gli incassi avrebbero largamente ripagato i costi di sviluppo, il gioco fu considerato un flop. Ciò scoraggiò la LucasArts ad impegnarsi in altri progetti ad alto rischio economico come ormai venivano considerati gli adventure classici.
Il pubblico era cambiato. L'avvento dei giochi d'azione in 3D (come Tomb Raider) stava ormai modificando i gusti dei giocatori che cominciavano a non mostrare lo stesso interesse d'un tempo per la riflessività ed i ritmi lenti propri delle avventure grafiche. Anche la Sierra cominciava a nutrire più di un dubbio sullo stato di salute di questo genere (almeno nelle forme tradizionali dell'avventura punta e clicca); lo prova la brusca virata impressa alla saga di King's Quest che, in occasione del suo ottavo ed ultimo episodio (edito nel 1998), finì per abbracciare la forma dell'action RPG.
Non è esagerato sostenere che esista un prima ed un dopo Grim Fandango: un titolo che si configura come spartiacque tra il vecchio ed il nuovo. Dopo il titolo di Schafer, infatti, il genere degli adventure non sarà mai più lo stesso.