Speciale Darkside Games e la Legge della Giungla videoludica

Il team di sviluppo che si stava occupando del remake di Phantom Dust chiude all'improvviso. Quanta parte ha Microsoft in questa disfatta? E quanto è sano il rapporto fra publisher e sviluppatori nel mercato moderno?

Speciale Darkside Games e la Legge della Giungla videoludica
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Chi ha seguito le notizie pubblicate di recente avrà, con tutta probabilità, già letto dell’ennesimo scandalo scoppiato nel mondo dei videogame, legato ai retroscena dietro la bancarotta e la conseguente chiusura di Darkside Games.
Il redattore di Kotaku Jason Schreirer ha, in queste settimane, raccolto diverse testimonianze, anonime, di ex-dipendenti dello studio impegnato, fino allo scorso Febbraio, nello sviluppo del reboot di Phantom Dust, interessante ibrido fra Action e Strategia uscito sulla prima Xbox nel 2005.
Nato nel 2008 dall’unione di artisti e giocatori interessati a creare qualcosa che fosse propriamente loro - una creatura che portasse esclusivamente il loro nome nei credits - Darkside Games ha vissuto quasi esclusivamente come studio di outsourcing. In pratica come un team che lavora dietro le quinte fornendo artwork o sviluppano direttamente “pezzi” di prodotto finito (i casi più eclatanti che ci vengono in mente sono le boss battle di Deus Ex: Human Revolution, sviluppate da G.R.I.P. Entertainment, e la quasi totalità di Aliens: Colonial Marines, che “si dice” sia stata subappaltata a TimeGate Studios, tra l’altro unico studio a soffrire gravemente della debacle successiva alla pubblicazione del mediocre shooter).
Il lavoro di Darkside lo abbiamo visto tutti, in varia misura, in titoli come BioShock 2, Spec Ops: The Line, XCOM: Enemy Unknown, BioShock Infinite, Gears of War: Judgement e Borderlands: The Pre-Sequel: un pedigree niente male, per uno dei “piccoli ingranaggi” che muovono la macchina che materializza i nostri sogni.
Il contratto con Microsoft, i 5 milioni di Dollari messi sul tavolo per far rivivere Phantom Dust, anche se esclusivamente in formato multiplayer, sembravano il biglietto dorato con cui tentare la scalata all’Olimpo dei videogiochi, la famigerata “A-list”; in realtà era solo l’inizio dell’ultimo calvario per lo studio floridiano.

Un’occasione imperdibile, un’offerta che non potrai rifiutare

Qualsiasi dirigente d’azienda assennato ha a cuore il bene della propria compagnia, l’interesse nel dare un futuro ai propri dipendenti.
In quest’ottica i capi di Darkside Games, nel 2014, hanno intavolato una trattativa con Microsoft, all’epoca interessata a resuscitare uno dei tanti franchise del passato (comportamento che, ovviamente, non ha niente in comune con il proliferare di Remake in HD ed edizioni Remastered di IP più o meno recenti sulle console Sony).
Allo studio, già conosciuto dai vertici Microsoft per il lavoro di prototyping delle modalità multiplayer svolto su Sunset Overdrive, è stata offerta una lista di IP disponibili (che, per la sfortuna degli sviluppatori e degli appassionati, non comprendeva Battletoads): tra queste, Phantom Dust è sembrata “la scelta più ovvia”, probabilmente a causa del suo status di “brand di culto” del passato che tanto piace citare ai presunti “elitisti” dei videogiochi.
Dopo le negoziazioni di rito, Microsoft e Darkside Games hanno raggiunto un accordo: entro Dicembre 2014, a fronte di un finanziamento di 5 milioni di dollari (bruscolini per il colosso di Redmond, ma una cifra importante per un subappaltatore professionista), lo sviluppatore avrebbe confezionato un’esperienza esclusivamente multigiocatore, dotata di modalità Spettatore, supporto per Tornei e un complesso sistema di replay, con possibilità di condivisione dei file registrati.
Un pitch interessante, il reboot di una serie storica in salsa eSport. Cosa poteva andare male?
Poteva succedere che Microsoft tornasse sui suoi passi e chiedesse altre feature dal gioco.
Neanche una settimana dopo la firma del contratto, infatti, Microsoft ha chiesto l’aggiunta di una campagna single-player da 6 ore, per lo stesso prezzo precedentemente pattuito, ignorando le rimostranze degli sviluppatori, che avevano avvisato della necessità di maggior personale, e quindi più soldi, per poter esaudire le richieste del publisher.
Al danno si è aggiunta la beffa dell’E3 2014, in cui il gioco fu ufficialmente annunciato sul palco della conferenza Microsoft, corredato da un trailer in computer grafica che, a detta degli ex di Darkside intervistati da Schreirer, nessun dipendente aveva visto fino ad allora.
Questa rivelazione ci fa dubitare sullo stato di sviluppo degli altri titoli annunciati allo stesso modo da Microsoft durante la conferenza, ovvero Scalebound e Crackdown 3, di cui non si è saputo nulla nei mesi successivi; allo stesso modo in cui non si è saputo niente del reboot di Phantom Dust perché, di fatto, il gioco all’epoca era ancora nelle fasi preliminari. Fasi di cui, tra l’altro, al personale di Darkside Games fu vietato di discutere con chicchessia, mentre executive di Microsoft come Ken Lobb se ne bullavano nei podcast online, arrivando a descriverlo come “un J-RPG da 30 ore”.
Nel frattempo le richieste di varianti in corso d’opera si accumulavano; nuova gente veniva assunta e messa a lavorare sul progetto, ma il budget non si smuoveva dai 5 milioni iniziali.
Una situazione a dir poco insostenibile, ma gli sviluppatori hanno continuato a lavorare duramente a quella che, difatti, era la chance della vita.
Lo scorso febbraio, forti dell’apprezzamento mostrato dagli executive di Microsoft nei confronti della vertical slice (una demo rappresentativa di tutti i componenti di un videogioco) presentata il mese precedente, i capi di Darkside Games, con lo studio sull’orlo del disastro economico, hanno deciso di tentare il tutto per tutto volando fino a Redmond per chiedere un nuovo assegno.
Sfortunatamente, nonostante il gioco piacesse molto, i vertici di Microsoft non hanno slacciato i cordoli della borsa e, anzi, con una laconica chiamata lo scorso 17 febbraio, hanno annunciato la risoluzione anticipata del contratto.
Senza più appigli finanziari, lo studio è collassato su sé stesso e tutti i dipendenti licenziati. Era tutto finito.
Game Over, man. Game Over.

Another one bites the dust

Quella di Darkside Games è solo una delle più recenti ed eclatanti storie di piccoli o medi studi di sviluppo chiusi o smantellati dai publisher nel tentativo di raggiungere la “A-list”, dove solo i più grandi riescono a sopravvivere.
Non sono pochi gli studi che, negli ultimi due/tre lustri, sono finiti in bancarotta per colpa di scelte discutibili da parte ci alcuni publisher o per le critiche irrazionali da parte di un pubblico sempre più distaccato e insofferente.
La stessa Microsoft, oltre ad aver di fatto provocato il fallimento di Darkside Games, ha, negli anni, chiuso, o comunque fortemente limitato l’operatività di aziende come FASA Interactive, responsabile della creazione dell’importante serie di mech games MechWarrior (stroncata dopo lo strambo adattamento in salsa FPS di Shadowrun), ed Ensemble Studio, studio rimasto nel cuore degli appassionati di Strategia che hanno giocato titoli come Age of Empires e Age of Mithology, smantellato nel 2009, epoca in cui le energie di Microsoft (e di Sony) erano concentrate più sulla promozione del motion gaming per console che sul sostentamento di studi “poco remunerativi”.
Rare Ltd., sviluppatori di IP storiche come Donkey Kong, Killer Instinct, Banjo-Kazooie e Perfect Dark, oltre a titoli emblematici come GoldenEye 007, sono stati progressivamente relegati in un angolo, a lavorare su prodotti mediocri compatibili con Kinect, la scomoda appendice di cui ormai anche Redmond si è stufata.
Anche Sony, dal canto suo, mentre abbracciava e sovvenzionava i piccoli sviluppatori indipendenti che decidevano di pubblicare sulle sue piattaforme, ha contemporaneamente chiuso studi come Zipper Interactive (SOCOM, MAG) e Psygnosis (WipEout, Alundra, Rollcage). Lo scorso Febbraio, invece, ha ceduto in blocco, a un gruppo di investimento privato, Sony Online Entertainment, studio responsabile di MMO importanti per l’industria come i due EverQuest, ma anche di prodotti più recenti come PlanetSide 2, H1Z1 ed EverQuest Next.
Tralasciando per un momento i publisher proprietari di piattaforme, altre major del settore come Activision ed Electronic Arts possono vantare ruolini di tutto rispetto.
L’azienda di Santa Monica, infatti, ha chiuso negli anni un bel numero di piccoli studi, principalmente impiegati nello sviluppo di progetti poco impegnativi (leggasi “non legati alla serie Call of Duty”), ma le chiusure che fanno più male sono quelle di Bizarre Creations, Luxoflux, Neversoft, Radical Entertainment, Raven Software, RedOctane e, soprattutto, Sierra Entertainment. Tutte aziende di successo fondate tra gli anni ’80 e ’90, i cui designer hanno prodotto almeno uno dei giochi presenti nella libreria software dei nostri lettori, ridotte al silenzio da una dirigenza interessata allo sfruttamento intensivo di brand milionari.
Anche EA, dal canto suo, ha terminato studi storici come Origin (patria di personaggi come Chris Roberts, John Romero, Richard Garriott e Warren Spector), Bullfrog Production (i cui prodotti hanno avuto un forte impatto sull’evoluzione dei videogiochi negli anni ’90), Westwood Studios (che hanno posto le basi per il successo degli Strategici in Tempo Reale con titoli come Dune II e Command & Conquer), Black Box Games (che hanno avuto il merito di resuscitare il brand Need for Speed, introducendo elementi di gameplay che hanno fatto scuola nel genere corsistico arcade per gli anni a venire), Mythic Entertainment (il cui lascito Dark Age of Camelot continua ad esistere, gestito da un nuovo studio), Danger Close Games (nati con Medal of Honor, morti con Medal of Honor: Warfighter) e, in ultimo, Maxis (che aveva comunque perso la principale forza creativa, Will Wright, già dal 2009).
Quello dei videogiochi, lo sappiamo, è un mercato in continuo divenire, ed è naturale che un ricambio ciclico delle forze produttive sia in atto. Quello che dispiace, è che in questo ecosistema di per sé aggressivo e spietato, le decisioni sulla vita e sulla morte delle software house siano in parte influenzate anche da una user base a tratti irrazionale, tanto pronta ad idolatrare il gioco del momento e i relativi sviluppatori, quanto a demonizzare e vituperare quei titoli che non si mostrano all’altezza dell’hype generato e di quello percepito, dopo che la comunicazione del gioco è passata attraverso la cassa di risonanza dei forum e dei magazine specializzati.
Da un certo punto di vista (e togliendo dall'equazione il caso di Darkside Games), moderare le nostre reazioni potrebbe essere un sistema per rendere un po' più equilibrato il trattamento riservato a certi studi. Altrimenti, prima o poi, il rischio è che tutti gli studi che conosciamo adesso chiudano, soppiantati da nuove leve (o nuovi studi fondati da veterani, come Flying Wild Hog) o ridotti a skeleton crew con mera funzione di supporto agli utenti.