Recensione Dead Island

Il paradiso dei non-morti

Dead Island - Ryder White
Recensione: Xbox 360
Articolo a cura di
Disponibile per
  • Xbox 360
  • PS3
  • Pc
  • Gli zombie nei videogiochi, sin dai tempi di Resident Evil e Resident Evil 2 (soprattutto), sono un elemento ampiamente apprezzato e sdoganato, tanto che la loro “aggiunta”, oggi (ma anche in un passato più o meno recente), non si limita ai soli survival horror games. Abbiamo visto proliferare shooter on rail ed FPS sulle carcasse degli zombie e, in questa generazione, abbiamo addirittura potuto assistere alla nascita di un genere tutto nuovo: lo zombie action-rpg, “inventato” dal mai troppo lodato Dead Rising.
    Oggi siamo qui per l’ennesima evoluzione di questo genere che ha i non morti come filo conduttore. All’action-rpg, infatti, il recentissimo Dead Island aggiunge l’azione in prima persona, mescolando brandelli di moltissimi generi differenti per creare un’esperienza potenzialmente unica; o almeno questo era l’intento di Techland, team di sviluppo polacco già conosciuto per la non brillantissima serie di Call of Juarez.
    Con il favoloso announcement trailer interamente in rewind, che tutti abbiamo potuto ammirare tra il Marzo e l’Aprile del 2011, il team ha infatti voluto lanciare la sua sfida: uno zombie action-rpg interamente open world, ambientato in una favolosa isola tropicale. Tutti elementi apparentemente molto invitanti ma sarà riuscito il team a dimenticare The Cartel ed ingranare con un titolo degno di questa generazione? Scopriamolo ricordando che Dead Island sarà disponibile per PC, Xbox 360 e Playstation 3 il 9 Settembre.

    Come ogni buon zombie game...

    L’incipit di Dead Island non è certamente tra i più originali nella recente storia videoludica, anzi. Nel corso di una nottata di folli bagordi ci troviamo, completamente sbronzi, sulla pista da ballo dell’immenso resort che ci ospita, sull’affascinante isola di Banoi, facente parte della Papua Nuova Guinea. I maldestri tentativi di duettare con il rapper sul palcoscenico -prima- ed abbordare una bella ragazza -poi- finiscono irrimediabilmente con noi stesi in terra ed un addetto alla sicurezza in procinto a riportarci in camera. La guardia viene però assalita da uno degli avventori, che gli si getta al collo in maniera animalesca, provocandogli una profonda ferita. In preda a quella che sembra a tutti gli effetti un’allucinazione ci gettiamo nel bagno per una rapida rinfrescata. Anche qui, però, qualcosa non quadra: una donna giace in terra, in una pozza di sangue; un’altra le giace accanto chiedendo aiuto, stralunata. Lo shock non ci fa realizzare di aver anche sbagliato bagno e, barcollando, ci ritroviamo in camera ad allungare qualche pastiglia di sonnifero con gli ultimi sorsi di Jack Daniels avanzati.
    Al miracoloso risveglio, uno o più giorni dopo (non è dato saperlo), ci ritroveremo in una situazione ancor più sconcertante: soli nel nostro lussuosissimo hotel apparentemente desolato. Bagagli lasciati qua e là alla rinfusa, mancanza d’elettricità ed arredamento danneggiato un pò ovunque fanno immediatamente pensare ad una qualche calamità naturale, scongiurata una volta raggiunto il primo dei grandi terrazzi della struttura alberghiera. Ma allora cosa è successo alla marea di turisti che fino a qualche ora prima popolava il complesso residenziale? La risposta è dietro l’angolo, quando una voce fuori campo (qualcuno che ci sta monitorando tramite le telecamere di sorveglianza) ci informa che “loro” stanno arrivando; ci hanno fiutati ed è meglio scappare seguendo le sue indicazioni. Sulle prime non diamo troppa retta a quello che sembra essere uno squilibrato ma poi, quando quelli che oramai non sono più esseri umani ci assalgono, non ci resta che dar fiato ai polmoni e correre all’impazzata verso lo stanzino indicatoci dalla misteriosa voce. Troviamo qui i primi sopravvissuti che ci vomitano addosso la situazione più devastante si possa immaginare: gli esseri umani si azzannano tra loro, contagiandosi con una sorta di virus che li trasforma in belve affamate di carne umana. Noi, d’altro canto, siamo gli unici in qualche maniera immuni, come testimoniano i molti morsi presenti sul nostro corpo a fronte di un’immutata lucidità. Le preghiere e le speranze sono dunque tutte sulle nostre spalle; l’avventura a Dead Island ha inizio.
    Benché l’incipit presenti una buona dose di Pathos l’intreccio narrativo dell’ultima creatura Techland si dimostra sin dalle prime battute elemento piuttosto marginale nel compendio complessivo. Tra main e sub-quest ci troveremo semplicemente ad aiutare questo o quel sopravvissuto a cercare una maniera per sopravvivere -prima- e per scappare/chiamare i soccorsi in secondo luogo. La discreta caratterizzazione dei quest givers viene dunque “sprecata” da una lineare ricerca della più breve via d’uscita dall’inferno in cui siamo piombati, con pochissimi risvolti psicologici personali e solamente una flebile sottotrama (collegata all’esplorazione più metodica ed alla raccolta di particolari file/oggetti), che ci permetterà di comprendere le cause dell’infezione. Inizialmente presentata come un’interessante thriller tra giochi di potere e manipolazione delle informazioni, questa background story si rivelerà, però, un semplice collage di informazioni spesso senza un vero filo logico e, soprattutto, in grado di farci capire fin quasi dagli inizi ciò che ci sarebbe piaciuto svelare magari con un’indagine personale.
    Anche la scelta del protagonista (tra i quattro disponibili) non cambierà di una virgola le carte in tavola. Seppur accompagnati da interessanti biografie e giunti a Banoi per motivazioni differenti, i quattro non mostreranno alcun risvolto peculiare, differenziandosi dunque per le sole abilità in combattimento.

    Meltin Pot

    Per quanto concerne l’aspetto prettamente ludico Dead Island mostra una struttura di tipo sandbox, con personaggi non giocanti (NPC) e di conseguenza incarichi sparsi sull’intera isola (completamente esplorabile sin dall’inizio). La prosecuzione delle missioni principali ci poterà ad esplorare l’intera location con molta parsimonia, evitando quanto più possibile l’esposizione al pericolo ed utilizzando mezzi di trasporto come auto o pick-up (indispensabili per coprire grandi distanze). Starà dunque al nostro ego d’esploratori scandagliare l’area palmo a palmo per trovare eventuali sopravvissuti extra o captare, tramite radio, richieste di soccorso a cui prestare o meno ascolto, a nostra discrezione. Ogni compito portato a termine, a seconda della difficoltà (segnalata in una specie di contratto ad inizio missione), prevederà un compenso in termini di soldi, punti esperienza e progetti per lo sviluppo di nuovi strumenti di morte (alla stregua di Dead Rising 2). Sempre alla stregua del citato prodotto Capcom troveremo degli speciali tavoli da lavoro grazie ai quali riparare, potenziare le armi possedute o assemblarne di nuove; materiali, progetti, tecniche e strumentazioni lasciano però intendere un realismo di fondo piuttosto coerente, che prende le dovute distanze dalle (dis)avventure di Chuck Greene. Da questo punto di vista, quindi, non è ben chiara l’utilità del denaro, che dovremo spendere per qualsiasi operazione al banco di lavoro. Aldilà delle digressioni, in ogni caso, abbiamo riscontrato un fornitissimo arsenale (dai tubi di ferro alle mitragliatrici, passando per falcetti e molotov fatte in casa), guarnito -se non bastasse- da una serie di statistiche che introducono, finalmente, la componente role playing della produzione. Ogni arma, infatti, sarà caratterizzata dal danno che potrà causare (più eventuali bonus), dal grado di maneggevolezza, dal livello necessario per brandirla e dalla resistenza, ovvero dal tempo di utilizzazione (espresso in quantità di colpi) prima di renderla inutilizzabile. Tali caratteristiche potranno essere influenzate dalle modifiche apportate al tavolo di lavoro, dalle affinità dei diversi protagonisti con l’una o l’altra tipologia e dalle abilità guadagnate dagli stessi.
    In Dead Island saranno anche (e soprattutto) gli alter ego a crescere, a potenziarsi. Grazie all’esperienza, una volta saliti di livello, otterremo punti da spendere nello skill tree del nostro beniamino (diversificato a seconda della scelta inziale). Potremo, ad esempio, potenziarne le capacità di assimilazione dei curativi, migliorarne le abilità con la tipologia d’armi preferita e, infine, aumentare l’efficacia della “Furia”, uno speciale stato di trance nel quale potremo entrare una volta riempita (a suon di danni inferti e subiti) una speciale barra. La schiera di abilità si districherà con un buon numero di diramazioni, dandoci la possibilità di modellare un avventuriero ben diverso dagli altri giocatori, ancorché la scelta iniziale fosse stata la medesima. Ogni nodo dell’albero prevederà infatti quattro livelli di specializzazione, ed ogni diramazione dalle due alle quattro opzioni selezionabili; quasi impossibile, dunque, giungere al 100% di completamento.
    Tutte caratteristiche che, accompagnate alla varietà degli incarichi che andremo ad intraprendere, rendono quella Techland una produzione piuttosto fresca a dispetto delle meccaniche di gioco intrinseche, che prevedono -sostanzialmente- il continuo ed indiscriminato massacro degli infetti. Proprio le meccaniche risultano croce e delizia dell’intero titolo, mostrandosi da una parte in grado di immergere e coinvolgere totalmente il giocatore nell’azione, dall’altra di frustrarlo e metterlo di fronte ad ostacoli spesso insormontabili. Iniziando dalle note dolci ci troviamo di fronte ad un sistema che, opportunamente settato, ci darà la possibilità di colpire il nemico in qualsiasi zona del corpo e da qualsiasi direzione, riuscendo persino a dosare la forza dei fendenti. Questo espediente si rivela fondamentale soprattutto alla luce del perfetto sistema di smembramento implementato dal team polacco, che consentirà di infierire pesanti menomazioni ai cannibali (impedendogli di ferirci) e guadagnare qualche punto esperienza extra. Qualche interessante extra come lo sfondamento delle porte affidato a rapidi e ritmati movimenti dello stick destro, inoltre, renderà ancor più immersiva l’esperienza. Il vero problema -e veniamo alle note dolenti- è il sistema di controlli stesso, spesso spreciso e disposto in maniera piuttosto scomoda, con il dorsale sinistro da mantenere premuto per portare i fendenti (utilizzando lo stick destro alla Fight Night) avendo -nel mentre- anche facoltà di muoverci (senza però spostare lo sguardo) grazie allo stick sinistro. Un sistema talmente ostico che già solo leggerne la descrizione mette in confusione; e al calderone ancora va aggiunto che per portare a segno i colpi dovremmo ogni volta caricarli, portando l’analogico da destra a sinistra o dall’alto verso il basso (e viceversa). Impossibile insomma giostrarsi con agilità nel mezzo delle orde di infetti che, richiamati dal nostro rumoroso incedere, si precipiteranno ad azzannarci. Va detto, per completezza, che per semplificare l’intero sistema potremo affidarci al sistema di controllo cosiddetto “Digitale”, con un singolo tasto affidato all’atto del colpire, proprio come in un first person shooter. In questo caso, tuttavia, si perderà parte dell’immersione e si perderanno soprattutto le ottime facoltà di smembramento, rendendo stavolta sì l’azione decisamente meccanica e ripetitiva.
    Ogni difetto sparisce tuttavia nell’approcciare la fondamentale componente coop dell’avventura, che vi terrà incollati assieme ad altri tre amici per l’intera durata della campagna (oltre venti ore). Svolgere assieme ogni incarico, esplorare l’esotica ambientazione e scorrazzare schiacciando zombie in quattro a bordo di un pickup (il che, tra l’altro, fa molto Zombieland ndr) semplicemente non ha prezzo. In questo caso Dead Island da il meglio di se: se in single player già funziona in maniera più che soddisfacente, in multiplayer risulta una delle esperienze più divertenti di questa generazione, alla stregua di Left4Dead.

    Un engine...cromato

    Per quanto riguarda il comparto tecnico Dead Island si pone leggermente al di sotto delle produzioni odierne, riutilizzando quel Chrome Engine che abbiamo imparato a conoscere soprattutto in Call of Juarez. Questo significa, in primis, un buon dettaglio per quanto riguarda i volti di protagonisti e comprimari (dettaglio che giunge, a tratti, a livelli davvero elevati) ed un’altrettanto curata modellazione poligonale. Le problematiche sopraggiungono invece quanto il tutto viene messo in moto: in questo caso si intravedono i pesanti limiti al sistema di rilevamento delle collisioni e le lacune per quanto riguarda le animazioni, spesso piuttosto meccaniche ed artificiose. Ciò che risalta, in ogni caso, è l’ambientazione: un vero e proprio paradiso del vacanziere ricreato a puntino con dovizia e ricchezza di particolari non comuni nemmeno alla luce delle avanzatissime tecnologie di quest’era videoludica. Anche i panorami, grazie ad un’illuminazione azzeccata ed alla ricercatezza artistica di alcune visuali, risultano d’impatto, rendendo ancor più evidente il forte contrasto tra la bellezza ambientale ed il degrado sociale dovuto all’epidemia. Un tema molto forte, calcato più volte con decisione e successo all’interno della produzione.
    Anche nel caso del buon colpo d’occhio globale, in ogni caso, le problematiche si riscontrano soprattutto in alcune texture in bassa definizione (che stonano con il circondario) e nella bassissima -per non dire nulla- capacità d’interazione ambientale. Il livello di distruttibilità in Dead Island è ai minimi storici; un aspetto che non può non far storcere il naso nel 2011, specialmente in un titolo del genere.
    Discorso differente per quel che concerne il comparto sonoro, che presenta un’azzeccata soundtrack ed un doppiaggio (in lingua inglese) perfettamente recitato e consono alle varie situazioni di gioco.

    Dead Island Dead IslandVersione Analizzata PlayStation 3Dead Island, pur inciampando lungo il suo cammino (leggasi macchinosità dei controlli), giunge al traguardo come una produzione di valore. Molti incarichi diversi ed un’intera isola da esplorare rendono l’azione fresca e varia a dispetto del continuo massacro a cui verremo obbligati, mentre un’ottima implementazione del multiplayer cooperativo rende la produzione estremamente divertente ed assolutamente gradita in un panorama in cui regna la competizione. Chiude il cerchio un comparto tecnico e stilistico capace, benché non privo di difetti, di offrire spunti gradevoli e soluzioni davvero interessanti. Il titolo Techland è consigliato dunque a chiunque non abbia la fobia dei survival horror o della visuale in prima persona e voglia passare più di qualche ora in compagnia degli amici online.

    8

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